Leyla Guven senza giustizia: 22 anni di cella per terrorismo
Turchia. Durissima condanna per l’ex parlamentare curda dell’Hdp, in sciopero della fame per 200 giorni. Nella Turchia sempre più erdoganizzata, la campagna contro il partito di sinistra prosegue speditaL’escalation contro Leyla Guven, storica esponente della sinistra curda in Turchia, ieri ha toccato la vetta: una condanna a 22 anni e tre mesi di prigione per terrorismo.
Il percorso compiuto fino alla sentenza di ieri contro l’ex parlamentare 56enne del partito di sinistra Hdp e co-leader del Dtk (Democratic Society Congress) ha occupato tutti gli ultimi 10 anni, per inasprirsi a partire dal 2015 con l’esplosione del consenso per la formazione filo-curda, la ripresa della campagna militare turca contro il sud est e poi nel Rojava, il nord-est siriano: prima l’arresto, poi un lungo sciopero della fame, il rilascio in attesa del processo, una prima condanna a sei anni non concretizzata perché protetta dallo status di deputata e infine (lo scorso giugno) il ritiro dell’immunità parlamentare.
Una cancellazione che ha aperto alla sentenza più dura, quella comminata ieri dalla corte penale di Diyarbakir: 14 anni e tre mesi per l’accusa di appartenenza a organizzazione terroristica (il Pkk) e altri 8 anni per due diverse accuse di propaganda terroristica (il riferimento è a due discorsi pubblici che Guven ha tenuto a Batman e Diyarbakir).
Nello specifico, la procura ha chiesto condanne per fondazione, guida e appartenenza a organizzazione terroristica, incitamento a proteste illegali e partecipazione disarmata a riunioni illegali. Subito è stato spiccato un mandato d’arresto, ma mentre scriviamo non è ancora chiaro dove l’ex deputata si trovi: ieri in tribunale erano presenti solo i suoi due legali, Serdar Celebi e Cemile Turhalli Balsak.
Immediata è giunta la condanna dell’Hdp: «La magistratura ha mostrato ancora una volta di agire in linea con gli interessi del partito di governo – si legge in una nota – Non riconosciamo questa punizione illegittima e dannosa». «Questa decisione ostile – prosegue il comunicato – non va solo contro Leyla Guven e non solo contro il Dtk, ma contro tutti i curdi e tutta l’opposizione. Né lei né noi ci arrenderemo a causa di punizioni e arresti».
Guven è considerata un simbolo della lotta all’autoritarismo che oggi caratterizza la Turchia. Ex sindaca, ex deputata, prigioniera politica tra il 2009 e il 2014, riarrestata a gennaio 2018 per aver criticato l’operazione militare di Ankara nel cantone curdo-siriano di Afrin, nel novembre dello stesso anno ha iniziato uno sciopero della fame durato fino al 26 maggio 2019, sostenuto da migliaia di prigionieri e prigioniere curde nelle carceri turche ma anche da donne esponenti della sinistra mondiale, da Angela Davis a Leila Khaled: 200 giorni a digiuno contro l’isolamento a cui è sottoposto il leader del Pkk Abdullah Ocalan.
Ridotta pelle e ossa, era stata rilasciata a gennaio 2019 ma aveva proseguito la protesta nella sua casa di Baglar, a Diyarbakir. Con la mascherina al volto, gli organi vicini al collasso, continuava a chiedere «democrazia, diritti umani e giustizia».
Nulla di nuovo sotto il sole a strisce turco: le accuse mosse sono sempre le stesse, tutte derivazioni varie ed eventuali del reato “terrorismo”, con cui in cinque anni una magistratura sempre più erdoganizzata e un ministero degli interni campione di commissariamento di enti locali hanno devastato l’Hdp.
Tanti piccoli golpe Akp-diretti: il Partito democratico dei Popoli ha visto imprigionare i propri leader nazionali, Selahattin Demirtas e Fiden Yukesdag, insieme a una decina di altri parlamentari; arrestate migliaia di amministratori locali, membri di partito e semplici sostenitori; commissariare quasi ogni comune vinto nelle due ultime tornate elettorali municipali. E stracciare l’immunità parlamentare solo al fine di poter procedere contro l’espressione della partecipazione politica curda e di sinistra alla vita nazionale, talmente ristretta da accogliere ben poche forme di espressione politica al di fuori dell’erdoganismo.
di Chiara Cruciati
Il Manifesto