Sicurezza o diritti umani? Il processo di Imrali e la questione curda in Turchia

di Ilaria Biancacci – A un anno dall’inizio dei negoziati tra Ankara e il Pkk, il bilancio è insoddisfacente. Il governo di Erdoğan ha fatto qualche apertura, ma guarda alla questione curda in un’ottica di sicurezza nazionale, mentre per la controparte il problema è politico.

In Turchia potrebbe iniziare la primavera curda

[Carta di Laura Canali tratta da Limes 5/03 “La vittoria insabbiata”]
Numerose personalità hanno discusso del processo di pacificazione lanciato all’inizio dello scorso anno dal leader del Partito dei lavoratori curdi (Pkk), Abdullah Öcalan, e dal primo ministro turco, Recep Tayyip Erdoğan, nel corso della conferenza “L’Unione Europea, la Turchia e i curdi”, tenutasi fra il 4 e il 5 dicembre presso il Parlamento europeo a Bruxelles.

Anche se il processo di pace, noto anche come “processo di Imrali”, rappresenta un’opportunità storica e politica, non si riesce ancora a trovare una soluzione pacifica della cosidetta “questione curda”. Dal giorno in cui i due leader hanno divulgato alla stampa e all’opinione pubblica la notizia dell’apertura del negoziato, numerosi ostacoli lo hanno infatti rallentato e inasprito.

“I diritti dei curdi sono migliorati negli ultimi anni – ha dichiarato Noam Chomsky – ma rimangono ancora troppo deboli. Questo è il tempo della cautela e della speranza, perché questo viaggio verso la pace passa attraverso un campo minato di obiettivi e interessi contrastanti. Ci sono tutte le opportunità per procedere, per porre fine alla repressione nei confronti dei curdi e alla negazione dei loro diritti fondamentali, ma ci sono degli ostacoli da affrontare. Alcuni sono interni alla società turca e al popolo curdo, altri vengono dalle relazioni con gli attori regionali e internazionali. Si tratta di un periodo di sfide e opportunità, di pericoli e prospettive”.

Il 9 gennaio dell’anno scorso a Parigi qualcuno ha provato a fermare la road map che Öcalan e Erdoğan avevano appena intrapreso uccidendo Sakine Cansiz, tra le fondatrici del Partito dei lavoratori curdo, Leyla Soylemez, attivista, e Fidan Dogan, delegato francese al Congresso nazionale del Kurdistan. Un tentativo di mettere a tacere degli accordi scomodi. I mandanti sono tuttora sconosciuti; circolano diverse ipotesi. Secondo il giornalista Günay Aslan, intervenuto durante la conferenza, “l’Europa sta proteggendo questi assassini e probabilmente era al corrente di quello che sarebbe successo”. Parole dure e lapidarie che rivelano un malcontento diffuso, soprattutto da parte curda, nei confronti di un’Unione Europea considerata troppo indulgente nei confronti della Turchia e delle politiche autoritarie del suo governo.

Il pacchetto di riforme democratiche, presentato pubblicamente il 30 settembre, ha infatti ampiamente disatteso le aspettative dei curdi, facendo emergere numerose perplessità circa il reale interessamento da parte del primo ministro nel voler risolvere concretamente questo conflitto che va avanti da più di 30 anni ed è costato tantissimo al paese: non solo economicamente ma anche, e soprattutto, in termini di vite umane.

L’elemento più controverso del pacchetto di democratizzazione è sicuramente quello relativo all’uso della lingua curda. Infatti, le nuove direttive prevedono l’inserimento di corsi in curdo solo presso alcuni istituti privati e la facoltà di utilizzo di lingue diverse dal turco per la comunicazione politica e le campagne elettorali purchè questo avvenga in affiancamento e non in sostituzione della lingua ufficiale. Verrà cancellato il bando sulle tre lettere “w”,”q” e “x” e le famiglie potranno scegliere nomi curdi per i loro figli, senza correre nessun rischio. Infine tutti i toponimi “turchizzati” potranno tornare alla dicitura curda.

“Questi sono solo piccoli passi in avanti, sono iniziative insoddisfacenti – commenta Mark Demesmaeker, esponente del gruppo Greens-Efa presso il Parlamento europeo – perché l’Akp non tiene conto di tutte le voci in campo, non è disposto al compromesso e al riconoscimento dei diritti fondamentali di tutti. La sua è una politica di polarizzazione che ostacola il percorso verso una forma completa di democrazia”. David L. Phillips, direttore del programma “Peace-building and rights” presso l’Institute for the study of human rights della Columbia University, aggiunge che “il governo sta procedendo a piccoli passi: vuole dimostrare che sta andando avanti sulla questione curda, ma non vuole confondere il suo seguito di elettori”.

“Il Pkk ha fatto tutto quello che aveva promesso – dichiara Zübeyir Aydar, membro del Congresso nazionale curdo (Knk) – forse anche di più. Al fine di creare un clima di fiducia e onestà, prima delle celebrazioni del Newroz (il giorno di capodanno per la tradizione iraniana, ndr) ha liberato i soldati turchi tenuti prigionieri, ha deciso di ritirare le sue Forze armate dalla Turchia”. “Tuttavia – continua Aydar – ogni sforzo ha incontrato soltanto silenzio e resistenza. Quando il governo annunciò l’elaborazione di un pacchetto di democratizzazione, chiedemmo di poter partecipare alla stesura del documento. Ovviamente la nostra richiesta non è stata accolta. L’ennesima decisione unilaterale ha portato a un documento inefficace, antidemocratico e insoddisfacente. Non tutte le nostre richieste sono state accolte mentre sono stati introdotti dei semplici cambiamenti minimi che servono ad alleviare la pressione sul governo in vista delle prossime elezioni. Anche le trattative con i curdi entrano in un più ampio disegno elettorale. Si tratta di propaganda politica, tutto qui”.

È vero, quindi, che le riforme rappresentano un progresso, ma non su larga scala e non ci sono ancora garanzie costituzionali per l’identità curda, i diritti politici e culturali. Quali elementi mancano, quali richieste non sono state accolte? Non è stata apportata nessuna modifica alla legge anti-terrore, in particolare all’articolo 8 che fornisce ancora una definizione troppo ampia e ambigua del concetto di terrorismo. A causa di questa legge oltre un migliaio di attivisti, giornalisti e politici curdi sono detenuti per presunta “propaganda a favore di un’organizzazione illegale”.

L’eliminazione di distinzioni fondate su razza, etnia, lingua o religione dai criteri costituzionali per il riconoscimento della cittadinanza è un altro aspetto fondamentale. È necessaria la modifica o abrogazione dell’articolo 301 del codice penale e degli articoli 215, 216, 217 e 220 che sono stati utilizzati per limitare la libertà di espressione. Devono essere liberati i membri dell’Unione delle comunità curde (Kck), arrestati tra il 2009 e il 2011 per attività pro-curde e appartenenza a un’organizzazione terroristica, e bisogna introdurre un piano di disarmo, smobilitazione e reintegrazione del Pkk.

Lo studioso olandese Joost Jongerden ritiene che l’ostacolo principale in questo processo di pace si debba ricercare nella differenza di approcio e di analisi. “Erdoğan, l’Akp, lo Stato turco, parlano di terrorismo e lotta armata come dei principali problemi, mentre il Pkk considera la lotta armata una conseguenza, un sintomo, della politica nazionalista turca. In breve, per lo Stato il problema è la sicurezza, per i curdi il problema è politico, una questione di diritti umani”.

“Per far si che il processo di Imrali proceda verso la giusta direzione – dichiara Phillips – è necessario un cambiamento di tono e di forma. I curdi risentono della politica unilaterale di Erdoğan e della sua mancanza di trasparenza. Per garantire il successo dei negoziati sono necessari una platea estesa di interlocutori da entrambe le parti e il monitoraggio della comunità internazionale. I colloqui potrebbero beneficiare dell’aiuto di una terza parte, che svolga il ruolo di garante. Ankara, a suo modo, sta adottando misure per moderare la dura retorica nei confronti del Pkk, ma i governi europei e gli Stati Uniti dovrebbero rimuovere il Pkk dalla lista delle organizzazioni terroristiche straniere per riconoscere a pieno titolo il cessate il fuoco e per rilanciare il processo di pace”.

La road map proposta da Öcalan si compone di 3 fasi. Entrambe le parti dichiarano il cessate il fuoco e la guerriglia del Pkk si ritira dalla zone di conflitto. In questa prima fase sarà necessario il coinvolgimento del parlamento e la creazione di commissioni ad hoc per agevolare e controllare il processo stesso. La seconda fase prevede che le leggi e le normative anti-curdi vengano sottoposte a revisione. La terza fase si riferisce alla liberazione di tutti i prigionieri politici e al ritorno degli esiliati.

Ma la calendarizzazione proposta in fase di avviamento del processo non è stata rispettata. Il Pkk ha dichiarato il cessate il fuoco e l’inizio del ritiro delle proprie unità armate il 23 marzo 2013 a seguito dello storico annuncio di Öcalan durante i festeggiamenti per il Newroz. Dopo questi primi passi, portati avanti dai curdi, il processo è entrato in una fase di stallo. Il primo ministro turco ha considerato il cessate il fuoco come un obiettivo in sé, piuttosto che come parte di un processo per affrontare le cause profonde del conflitto. Il Pkk, in risposta, ha sospeso il ritiro della guerriglia il 5 settembre: il minimo errore potrebbe pregiudicare tutti i progressi realizzati fino ad ora.

Mala Bakhtiyar, appartenente al Puk (Unione patriottica del Kurdistan) dell’Iraq settentrionale, ritiene necessaria la liberazione del leader Öcalan per riuscire nel dialogo con l’Akp e in una concreta risoluzione del conflitto. La sua liberazione potrebbe essere una chance per la libertà e l’autonomia della popolazione curda.

“La Turchia ha paura – commenta Bakhtiyar – perché Öcalan libero significa maggiori possibilità per la nascita di una vera democrazia e, soprattutto, per l’autodeterminazione del Kurdistan settentrionale. Sono questi i maggiori timori di Erdoğan. Nell’ultimo secolo le potenze straniere hanno sempre cercato di accapparrarsi il petrolio presente nel nord dell’Iraq. Noi del Krg abbiamo autorità soltanto sul 25% del greggio estratto. Le grandi entrate economiche che riusciamo comunque a generare le riutilizziamo per la ricostruzione del nostro paese e mai per l’acquisto di armi, tantomeno per uccidere”. “Ogni anno – prosegue – vengono investiti nel Krg tra gli 80 e i 100 miliardi di dollari, le esportazioni verso la Turchia raggiungono i 13 miliardi, quelle verso l’Iran 16. Se potessimo avere il controllo sul totale delle nostre risorse potremmo crescere di più economicamente e così espandere la nostra autonomia”.

Gli sviluppi regionali e nazionali hanno creato un contesto traballante per i negoziati. In particolare, la strategia di politica estera turca “zero problemi con i vicini” si è rivelata un fiasco, dal momento che Ankara è ai ferri corti con tutti gli Stati limitrofi, fatta eccezione per il Kurdistan iracheno, al quale è legata da interessi economici.

“Erdoğan è sempre stato un forte sostenitore di un’intervento militare in Siria – commenta Phillips – anche se i turchi non sono mai stati convinti di questa decisione. Secondo un recente sondaggio del German Marshall fund, il 72% della popolazione turca è contraria all’intervento in Siria e al coinvolgimento del governo perché ha paura di una diffusione della violenza oltre confine e non vuole risentire degli enormi costi per l’accoglienza e il supporto dei profughi”.

“La Turchia, inoltre, sostiene presumibilmente il fronte al-Nusra e altri gruppi jihadisti. Questi combattenti sono impegnati militarmente sia contro le forze armate siriane sia contro i curdi siriani. L’intento di Erdoğan è di impedire la stabilizzazione di una regione autonoma curda in Siria, Rojava appunto. Il primo ministro è schierato con gli estremisti sunniti, e questo lo allinea all’Arabia Saudita e agli altri paesi del Golfo impegnati contro il regime di Asad. Ha legami con i Fratelli Musulmani in Tunisia e in Egitto ed è un aperto sostenitore di Hamas”. Un intreccio di relazioni pericolose che potrebbero ripercuotersi sulla stabilità interna del paese e sulla credibilità del partito di governo.

Le due entità curde autonome che stanno emergendo ai confini della Turchia, Rojava in Siria e il Krg nel Nord Iraq, costituiscono una duplice sfida per Ankara, che teme l’effetto domino all’interno dei propri confini e la diffusione di istanze di autodeterminazione. Eppure, esistono delle grandi differenze tra le due entità curde, legate soprattutto a interessi economici e ai rapporti con gli Stati vicini. Il Krg ha un rapporto positivo, incentrato sullo sviluppo, con il governo turco. Con esso condivide esigenze economiche legate al petrolio e all’elettricità così come lo scetticismo e l’ostilità verso la nascita dell’enclave curda di Rojava, poiché controllata dal Partito per l’unione democratica (Pyd, alleato del Pkk), che è stato in guerra con la Turchia dal 1984.

Dal punto di vista turco, l’emergere di Rojava rappresenta un guadagno strategico per il Pkk che potrebbe beneficiare dei 500 km di territorio al confine tra Siria e Turchia come base operativa, così aumentanto le proprie capacità operative in caso di ripresa aperta del conflitto.

Si può dunque affermare che, da un lato, l’esistenza di Rojava è funzionale – come impulso – al processo di pace, ma allo stesso tempo è una minaccia dal punto di vista turco se tale processo dovesse arenarsi, come sta effettivamente accadendo. Il che si può notare chiaramente dal recente inasprimento dei controlli alle frontiere da parte dell’esercito turco, della rottura delle comunicazioni con il Pyd e della costruzione di un muro lungo il confine con la Siria. La Turchia ha una sorta di diritto di veto sulle prospettive di unità curda. A causa delle rivalità tra Krg e Pkk, delle strette relazioni tra Turchia e Krg stesso e della grande importanza che quest’ultimo vi ripone, nonché della conseguente ostilità condivisa verso il Pyd che a sua volta controlla Rojava, Ankara ha il potere per preservare la divisione dei curdi.

“Osservando il quadro completo della situazione – dichiara Jonathan Spyer, analista israeliano per il Medio Oriente, intervenuto nel corso della conferenza – possiamo dire che il Krg e Rojava sono il prodotto dell’eclissi di quegli Stati che hanno governato in nome del nazionalismo pan-arabo. In una visione di lungo termine la frattura permanente di questi Stati può essere un prerequisito per la nascita di un’autonomia curda effettiva o di una sovranità su entrambi i lati dei confini, in rapida dissolvenza, di Siria e Iraq”.

“Il problema è che gli Usa e l’Occidente al momento continuano a sostenere l’unità di Iraq e Siria in quanto Stati sovrani. Fino a quando ciò rappresenterà un requisito fondamentale per la diplomazia occidentale, le aspirazioni curde appariranno necessariamente sgradite e troppo dirompenti. Washington e l’Europa dovrebbero capire che la scissione di questi Stati nelle loro componenti rappresenta, secondo me, un’ottima opportunità per la stabilità a lungo termine rispetto al contenimento forzato e artificale delle aspirazioni dei popoli all’interno di confini statali che assomigliano sempre più alle mura di una prigione. Questo significa, concretamente, il coinvolgimento degli Stati occidentali per la sopravvivenza del Krg e di Rojava”.

Se ci spostiamo sul versante della politica interna, possiamo notare anche qui elementi destabilizzanti per il processo di pace intrapreso da Öcalan e Erdoğan. A cominciare dalla brutale repressione delle manifestazioni di Gezi Park che ha ridotto la credibilità del primo ministro e minato le credenziali democratiche del governo. La Turchia ha perso l’opportunità di poter ospitare le Olimpiadi del 2020 anche, e soprattutto, per questo motivo.

Inoltre, i turchi risentono dell’intrusione del governo nella loro vita privata attraverso leggi autoritarie. La libertà di espressione è sotto attacco, ci sono troppi procedimenti giudiziari in corso contro giornalisti ritenuti oppositori politici. Dal 2007 a oggi più di 500 giornalisti e ufficiali militari sono stati arrestati e accusati di complotto contro il governo dell’Akp. Secondo i dati raccolti dal Committee to protect journalists, la Turchia si colloca al 154° posto su 179 paesi presi in analisi in termini di libertà di stampa. Questo clima di repressione non fa altro che generare un atteggiamento di autocensura, con gravi ripercussioni sul panorama mediatico.

“I problemi per il popolo curdo – commenta il giornalista Aslan – sono iniziati dopo la prima guerra mondiale con la spartizione di quello che rimaneva dell’ex Impero ottomano. La Gran Bretagna ha creato l’Iraq, la Francia la Siria. Hanno disegnato i confini di Stati che non esistevano, creandoli con matita e righello. Il Kurdistan si è ritrovato spezzato, diviso. La causa della separazione e dell’accanimento di dittatori e despoti contro la popolazione curda va ricercata nelle radici dell’Europa, nella sua politica coloniale e nella ricerca delle risorse naturali di cui le nostre terre sono ricche”.

“I diritti dei curdi sono stati sacrificati in nome di interessi economici più importanti. Sono stati creati equilibri geopolitici e geografici artificiali e artificiosi che piano piano stanno crollando, generando il caos nel Medio Oriente”.

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