In viaggio lungo il muro di Erdogan che vuole cancellare i curdi

La barriera di cemento sigilla ormai cinquecento chilometri   di confine tra Turchia e Siria. Qui il nemico sono i guerriglieri del Pkk

Era mattina, una mattina di primavera. Il tempo era bello, un sole giallo, vecchio, usato avanzava prudentemente nel cielo ancora un po’ grigio. Nel ristorante «Friends» a Gaziantep le tre ragazze siriane cinguettavano allegre, beccuzzando enormi piatti di pollo fritto, scambiandosi i telefonini, tra ammicchi e risa di gioia. Una era particolarmente bella, elegante, ricca, con un raffinato velo Burberry.

Il mio itinerario in Turchia non poteva che iniziare qui: come sei anni fa, e allora furono viaggi notturni, bisbigli nel buio, incontri furtivi con sconosciuti appena intravisti, attese silenziose. Attraversare il confine siriano era difficile. Il chilometro più lungo della frontiera era a Khilis, a poca distanza dalla città. Da questa parte la Turchia. Dall’altra i ribelli e i soldati di Bashar Assad, la guerra infiniti orrori. Il mostro cruento svelava la sua faccia feroce. Uomini e donne hanno impiegato anni per percorrerlo e sono morti prima di toccare la meta, prima di diventare profughi.

Adesso i campi dei rifugiati in Turchia sono quasi vuoti, in compenso si sono riempite le città di siriani, due milioni settecentomila, quartieri interi, come qui a Karatash. Case strade negozi aiuole tutto nuovo, persino tra le rotaie del tram hanno steso una moquette verde per dare l’illusione dell’erba. Ma comunque si giri ti sembra di essere nella periferia provvisoria di una provvisoria città, luogo di tappa di un popolo stanco di andar pellegrino. Aggrappati al presente, temono l’avvenire.

Una vita tra visti e fughe

Poi nel ristorante è entrata un’altra giovane, anche lei siriana. Quante ne ho viste così: che si sentono ovunque di troppo, misurano il tempo in visti e la propria biografia in timbri. Non hanno fatto nulla di male ma sono certi di essere inseguiti. Si vede dagli occhi stanchi, dal passo svelto, dai vestiti sporchi, consunti. Sorridono timidamente: per farsi accettare. Chiedono scusa sempre, di essere lì, di disturbare, di togliere posto al sole. Si è avvicinata alle tre senza esitare. Ha scelto la più bella per parlarle, quella con il velo firmato. Si sono guardate per un lungo momento, come per misurare l’abisso che questi anni e il destino hanno scavato fra di loro.

La ragazza povera stringeva i denti come se trattenesse le lacrime le immagini le parole. L’altra, la ricca, ha fatto un gesto al cameriere che ha raccolto gli avanzi del pasto e li ha fatti scivolare in una borsa di plastica. Un leggero trasalimento, la ragazza attendeva a capo chino, il tacere in fondo alla preghiera, quando dopo aver invocato tratteniamo il respiro, tendiamo l’orecchio. Ha preso il sacchetto ed è uscita mormorando brevi parole.

L’ho seguita con lo sguardo. Ha attraversato il viale che taglia il quartiere. Il pudore infinito della povertà. Si è seduta sul marciapiede e ha iniziato a mangiare, svelta, gli avanzi. La Siria fuggiasca, lì, tutta intera: i ricchi che hanno avviato in Turchia una nuova vita, vivono in quartieri loro, a fianco dei turchi che non li amano, senza integrarsi. Ho visitato una scuola pagata dai ricchi uomini d’affari siriani che sono emigrati negli Usa e in Canada: computer e proiettori in ogni aula, la musica che accompagna la pausa tra le lezioni. Da far invidia ai loro coetanei italiani.

E poi gli altri… Come sono simili, gli altri, a quelli che incontrai sei anni fa nei campi, chiusi a tutte le speranze, convinti che ciò che li aveva tenuti insieme da sempre si fosse per sempre spezzato per la decisione di qualche presidente o fanatico o per un nero destino; che tanto valeva partire o restare, in entrambi i casi non rimaneva che rinchiudersi in se stessi. E scaricavano davanti alle tende le loro robe e le portavano dentro, prendevano mogli figli vecchi e li portavano dentro.

Documenti in regola

Son passati sei anni e misuriamo in loro la nostra colpa: la guerra infuria e gli esseri umani continuano ad essere coloro hanno i documenti in regola, non gli altri, quelli non sono i corpi vivi che ci stanno davanti ma stanno dentro le pratiche e gli incartamenti. Età, provenienza mezzi per vivere progetti di emigrazione, perchè siete qui, perché? Che ne sarà della Turchia, dell’Europa se tutta la Siria viene a stabilirsi qui dai rispondi! E voi rispondete: quante volte ho sentito, abbiamo sentito queste parole?

Al quartiere di «Iran bazaar» mi aspettano i bambini siriani, i bambini che lavorano nei laboratori del tessile. La porta di un edifico si apre, un bimbo viene mandato in avanscoperta dall’interno giungono voci e rumori confusi di macchinari. Ci guarda incerto: il padrone non c’è. Poi lui spunta dalle scale. Ci fingiamo imprenditori italiani del tessile che vogliono approfittare del crollo della lira turca per spostare una parte della lavorazione a prezzi stracciati. L’avidità cancella anche i sospetti, saliamo tra scale sbrecciate, resti di stoffa, immondizie, in un stanzone molti bambini qualche donna un paio di vecchi, tutti siriani, tagliano e lavorano in lunghe file di macchine da cucire.

Camicine per neonati si allungano in interminabili mucchi. Il padrone, turco, ci offre condizioni vantaggiose: una lira e 50 turca per capo, è in grado di assicurarci mille capi al giorno ottomila la settimana. Farà lavorare i suoi piccoli operai su due turni senza sosta, un buon affare. I bambini, rannicchiati nei loro fagotti di cenci, non alzano nemmeno il capo per scrutarci, attenti ai gesti di tagliare e cucire e unire i lembi dei vestitini con il ritmo di una danza, con la devozione alla macchina che hanno davanti di un cane sulla tomba del padrone. Nel quartiere in ogni soffitta e sottoscala, basta scendere gradini sudici addentrarsi in antri scuri da medioevo, ci sono decine di laboratori come questo, dove sono sfruttati i piccoli fuggiaschi della rivoluzione siriana. Tutta la produzione viene poi spedita a Istanbul e all’estero. Altri bambini ti incrociano trascinando penosamente carretti di legno sovraccarichi di stoffe e vestiti diretti verso i magazzini.

Nei cinema proiettano trionfalmente «Il Reiss», film epopea sulla vita e la carriera del presidente Erdogan, un misto tra Victor Hugo e le mille e una notte: l’infanzia di povero, la persecuzione politica, il trionfo. Il sedici aprile si voterà per il referendum che ne rafforza i poteri, fino al 2029. I sondaggi danno favorito il no. Ma c’è tempo, mezza opposizione è in galera dopo il fallito golpe del 15 luglio, c’è lo stato di emergenza che vieta i comizi, e poi funziona la semplificazione eterna: o noi o il caos, se voti no aiuti i terroristi. Il mito ossessivo della congiura di forze oscure contro la Turchia, che solo Lui può fermare. Martellante universale efficacissimo. Va bene sempre, come sempre.

Lascio Gaziantep, mi attende un lungo viaggio verso Est: la porta d’Oriente, uno dei confini più delicati del mondo. Impossibile sbagliare strada, ti accompagna per centinaia di chilometri il Muro di Erdogan. Sembra solo una regolare linea grigia sulla pianura. Talora si avvicina alla strada fino a qualche centinaio di metri, talora si allontana: ma sempre ben visibile, definitivo, cementizio, invalicabile, con la sua corona di filo spinato. L’ha tirato su in breve tempo, un anno e mezzo, la «Toki», azienda edilizia di stato, la stessa che costruisce gli orribili quartieri che deturpano le città turche. Da cinquecento dovrebbe arrivare a mille chilometri di tracciato, da Hatay ad Akkari fino a chiudere tutto il confine per sbarrare la strada ai guerriglieri curdi del Pkk. Sono blocchi di cemento di due metri di spessore, altri tre metri, ogni trecento metri una torretta dove i soldati turchi staranno a guardia tutto il tempo come sentinelle medioevali sul parapetto del castello scrutando perennemente il deserto siriano. A distanze regolari postazioni zeppe di tutto l’armamentario delle guerre moderne dove, si dice, verranno poste mitragliatrici automatiche.

I bulldozer sono al lavoro, senza soste, per completare i tratti che ancora mancano. Gruppi di contadini a poca distanza con immensa fatica raccolgono pietra su pietra, per liberare la terra scura, grassa della Mesopotamia al lavoro e alla semente.

Propaganda di pietra

Ci lasciamo dietro l’Eufrate, Adyaman con i suoi enigmatici idoli di pietra e poi Urfa, che è città più araba che turca. L’immensità di questa pianura è inesorabile, crudele, infinita. Ovunque, innumerevoli, sopra le basse case le cupole delle nuove moschee come ombrelli spalancati. La propaganda di pietra del partito di Erdogan. Anche se qui non è l’islamizzazione che conta, più attenta come è alla facciata che alla sostanza, ma il vecchio nazionalismo, ombroso e orgoglioso. Nella zona curda ci cadi dentro, di colpo: con la parlata della gente che il turco o ignora o corrompe come se fosse lingua esotica, straniera. E con l’apparire delle scritte bilingui, regalo del breve periodo di tregua tra Erdogan e la minoranza detestata. Tregua dai mille sottintesi in cui ognuno sperava di giocare l’altro, e sfruttarlo. I curdi: l’eterno problema dei turchi. Non l’Europa, la democrazia, la laicità, la Siria: i curdi.

A Musaybin agli angoli delle case, sulla via, i forni collettivi dove le famiglie cuociono il pane, uguali a quelli che vide Senofonte, nelle strade passano cavalli al galoppo, nei caffè vecchi curdi giocano a carte in silenzio. C’è la sicurezza di cose vecchie e stabilite, mestieri antichi: come un fabbricante di culle legno, tutte eguali da tempo immemorabile, l’artigiano degli zoccoli e quello dei setacci. Ma gli uomini, ti accorgi, ragionano sottovoce e stanno a guardarsi aspettando di udire nell’aria lo scoppio di qualche fucilata di guerra. In città l’ultimo rastrellamento risale ad appena sette giorni fa. Si combatte e duramente nei villaggi intorno, per punizione, raccontano, bruciano le case e uccidono il bestiame. Per tagliare i rifornimenti e vendicare la collaborazione con i «terroristi».

Ecco Cizre, la nostra meta, per riprenderla ai curdi hanno dovuto bombardarla con i carri armati, sottoporla a sette mesi di coprifuoco totale, almeno duecento persone sono morte per mancanza di cibo, di acqua e medicine. Il coprifuoco è ancora in vigore dalle ventitrè alle cinque del mattino. Soldati e poliziotti hanno diritto a un soprassoldo per restarvi di guarnigione. Un terrorista ucciso venne trascinato per le vie legato a un blindato, meccanizzato lo strazio di Achille al corpo di Ettore.

Mi indicano pieni di orgoglio cittadino, uno spiazzo, strani tumuli di pietra anneriti da fuoco: lì Noè secondo la leggenda costruì l’arca per salvare l’uomo dal diluvio. Incastri che non riescono tra passato e presente. Il Tigri scorre lento, indifferente, quasi il vigore di una osservanza e di una storia immutabile.

«Abbiano fatto seicento prigionieri, non uno è rimasto in vita,l’hanno pagata i terroristi!».

A capo curvo il velo chiuso sul mento da un pizzo bianco, nascoste in implacabili tabarri neri le donne scivolano in strada in chiuso gruppo con una strana leggerezza di andare. Vestono come nel vicino Iraq; alla frontiera di Harbur mancano pochi chilometri. Le sfiorano senza rallentare i convogli dei blindati che pattugliano incessantemente le strade. Agli incroci dei quartieri più irriducibili bambini fanno strani gesti al passaggio dei mezzi militari e di qualche auto civile: le sentinelle.

«Sono tutti traditori, questi, hanno aperto le porte per far passare i terroristi da una casa all’altra, da un cortile all’altro. Ma li abbiamo fottuti questi figli di cani». A un incrocio altri bambini armati di mazze spaccano i rottami di una casa abbattuta per estrarne il ferro: come in una miniera. Lavorano metodici, lenti, in una nube di polvere grigia. Tutti bambini.

«Qui mandano gli agenti più pazzi di tutta la Turchia, quelli che rifiutano di indossare il giubbotto antiproiettile, che si gettano in ogni mischia».

Sui muri solo qualche scritta ribelle è sfuggita alla censura dell’intonaco: «Fotti la Turchia!». Rispondono, invece scintillati, le scritte di poliziotti e soldati: «La Turchia è qui!».

Saliamo su un rilievo che domina la città, una delicatissima luce blu avviluppa le montagne intorno. Celano quasi violette contr’ombra, con gelide nevi, le terre di oltrefrontiera dove i curdi hanno saldo in mano il potere e lo stanno allargando. Da lì ti accorgi di ampie chiazze vuote di edifici, il fondo del terreno ha il grigio del cemento come un inspiegabile eczema edilizio. Sono i quartieri irriducibili, li hanno rasi al suolo.

di Domenico Quirico, La Stampa

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Il vero muro che fa paura –
di Mauro Indelicato – 9 marzo 2017

Nel silenzio più totale, sia dei media che dei governi occidentali, la Turchia sta costruendo un muro lungo i confini siriani con il quale si sta di fatto annettendo intere porzioni di territorio della provincia di Idlib.

Il mondo intero, negli ultimi mesi, ha parlato a più riprese del muro nordamericano che il nuovo presidente USA, Donald Trump, vuol far costruire ai confini con il Messico: vip, attori, giornalisti, intellettuali e membri dello ‘star sistem’ americano ed europeo, da novembre parlano in tv e sui social contro questo muro, reo di essere una vera e propria testa di ponte per le mire considerate poco edificanti del nuovo inquilino della Casa Bianca. Pur tuttavia, senza entrare nel merito delle diatribe interne agli Stati Uniti ed ai rapporti con il Messico, il muro che oggi più preoccupa gli equilibri geopolitici è in fase di costruzione nel disastrato Medio Oriente, nel silenzio più totale degli stessi media che agitano gli spettri su quanto sta accadendo lungo il confine nordamericano; il riferimento è al muro che la Turchia, quasi in sordina, sta costruendo ai confini con la provincia siriana di Idlib.

Si tratta di un progetto che rischia di far nuovamente precipitare i rapporti tra Ankara e gli attori internazionali che appoggiano Damasco. Per la verità, il muro in costruzione altro non è che l’apice di un comportamento turco frutto di un progetto che parte da lontano e che ha visto Erdogan appoggiare le rivolte in Siria nel 2011 per provare ad annettere parte del territorio del paese arabo. Già nel 2012, con le milizie islamiste alle porte di Aleppo, la Turchia ha fatto entrare all’interno dei propri confini gran parte dei mezzi e dei macchinari industriali presenti nella seconda città siriana, un vero e proprio saccheggio che celava le velleità di poter un giorno apporre la bandiera rossa con la mezzaluna sulle province settentrionali della Siria. Aleppo non è caduta e si sa poi come, la storia, ha fatto fallire le iniziali prospettive di Turchia ed Arabia Saudita e, con esse, di gran parte dell’occidente: dopo l’intervento russo, dopo il fallito golpe ad Ankara del 16 luglio scorso, Erdogan ha fatto dietrofront, si è accodato a Mosca e Teheran in funzione anti curda ed ha promesso controlli più serrati lungo i propri confini per evitare scorribande di terroristi in ingresso ed in uscita dalla Siria.

Ma il problema nasce proprio in quest’ultimo passaggio: il governo turco ha finanziato e sta già costruendo un muro lungo i confini siriani che, se sulla carta dovrebbe servire ad arginare il flusso di armi e soldi per gli islamisti, nelle realtà sta di fatto annettendo parte del territorio di Damasco in maniera illegale. Il tutto è favorito dalla particolare attuale condizioni della provincia di Idlib: se Aleppo è stata liberata dalle truppe siriane e gran parte del confine verso la provincia di Al Hasakah è controllato dai curdi, Idlib invece è quasi interamente controllata da Al Nusra e dai miliziani islamisti armati da Ankara oramai dal 2012. Si è creato un piccolo califfato tafkiro, dove non mancano contrasti interni tra Arhar Sham (gruppo finanziato dalla Turchia) e gli stessi ex Al Nusra (oggi chiamati Tahrir Al Sham) e dove le forze siriane sono assenti da quattro anni; essendo i gruppi islamisti presenti del tutto privi di forze di sicurezza, già da un po’ di tempo sono membri della Gendarmeria turca che svolgono funzioni di controllo e di gestione della situazione, mentre in alcuni cantoni la moneta usata è la Lira Turca. Adesso, a completare il tutto ed a chiudere il cerchio, è la costruzione del muro sopra citato: Ankara sostiene che la struttura lungo i confini, alta tre metri e con il filo spinato sopra, aiuterà i propri soldati a controllare meglio le frontiere, il problema è che il perimetro di tali frontiere non rispecchia quello internazionalmente riconosciuto, né è stato preventivamente concordato con Damasco.

Facendo leva su una situazione ‘de facto’ che già da anni consegna gran parte della provincia di Idlib a forze filo turche ed agli stessi gendarmi di Ankara, il governo di Erdogan sta annettendo nel silenzio più totale di media e cancellerie occidentali interi pezzi di Siria. Ciò che la Turchia non è riuscita a fare ad Aleppo, sta provando a farlo nella provincia di Idlib che, nelle intenzioni di Damasco, deve anch’essa prima o poi essere ripresa militarmente, nonostante negli ultimi mesi sia servita come ‘parcheggio’ di terroristi fatti evacuare da Aleppo o dalle sacche attorno la capitale conquistate dall’esercito regolare. Una situazione quindi, che rischia di diventare incandescente e che vede adesso gli stessi siriani di Idlib iniziare a protestare contro la Turchia; Jenan Moussa, giornalista della tv ‘Al Alan’ con sede a Dubai e con quindi poche simpatie verso Assad, ha descritto nei giorni scorsi le proteste ad Idlib contro il comportamento turco, specificando come diversi cittadini che prima appoggiavano Ankara in funzione anti Assad, adesso stanno tornando sui propri passi. Preoccupati sono soprattutto gli agricoltori, visto che il muro spesso trancia arbitrariamente le loro terre con il pericolo di non poter più coltivare nulla, nemmeno a guerra finita.

A protestare sono anche i siriani di Alessandretta, capoluogo della provincia di Hatay, regione a maggioranza siriana ma donata dalla Francia, che all’epoca aveva il controllo della Siria, alla Turchia negli anni 30 e da allora annessa ad Ankara. A scendere in piazza sono stati soprattutto i membri del gruppo del ‘Fronte Popolare per la Liberazione di Iskandarun (nome in turco di Alessandretta)’, il quale mira a sollevare l’attenzione su quanto sta accadendo al confine della provincia di Idlib, confinante proprio con quella di Hatay, dove vivono migliaia di siriani che sognano un giorno di tornare a Damasco. Per l’appunto però, adesso il problema appare un altro e cioè quello di non far perdere alla Siria pezzi del suo attuale territorio, anche di quello attualmente non controllato dall’esercito regolare ma che un giorno, come ad Aleppo e Palmira, tornerà ad essere sotto l’egida del governo centrale.
proteste dei siriani ad Alessandretta2

La Turchia, oltre che ad Idlib, è presente militarmente anche nel cantone di Al Bab, a nord di Aleppo; in questo caso però, la presenza è frutto di un’operazione militare denominata ‘Scudo nell’Eufrate’ che, se non concordata con Damasco, ha avuto comunque una certa tolleranza sia da parte russa che siriana, in cambio dell’avvio dei colloqui di Astana e di un costante dialogo Ankara – Mosca – Teheran mirante a stabilire un asse in grado di velocizzare la fine delle ostilità. Il muro in costruzione ad Idlib però, rischia di complicare tutto: un doppio gioco, quello di Erdogan, che non può che avere effetti negativi sia sulla Siria che sulla stessa Turchia, la quale rischia per tale atteggiamento di essere tagliata fuori dalle future mosse che gli altri attori internazionali attueranno nella regione