Rezan Zoğorlu, il cuore nella lotta
LICE – “Se il cuore del Kurdistan è Amed, il cuore di Amed è Lice perché su queste montagne è nato il PKK”. Non ha timore di richiamare un passato che è tuttora vivo Rezan Zuğurli, una venticinquenne che presenta la propria candidatura nel paese citato, cinquemila anime, triplicate nell’area attorno, sebbene dei 56 villaggi d’un tempo ne siano rimasti solo 7. Dopo le devastazioni degli anni Ottanta e Novanta qualcuno potrebbe venire ricostruito soprattutto se il piano di pacificazione porterà entro il 2015 anche la liberazione di Abdullah Öcalan, come ha rivelato di recente il deputato BDP Pervin Buldan. Speranze per allontanare lo spettro di nuovi soprusi. Il ricordo dell’operato dell’esercito turco è ben visibile in agglomerati che si chiamano Goç-xar, in quel che resta delle sue case e degli abitanti, prevalentemente contadini. Lo narra una famiglia superstite. “L’esercito arrivava in forze a notte fonda, setacciava strade e case, riuniva la gente e intimava d’andar via. Se qualcuno restava gli bruciavano casa e stalla davanti agli occhi, con gli animali dentro”. Le deportazioni forzate, non sono scritte in nessuna storia recente dello stato turco né kemalista né islamico. Ogni modello cerca di nascondere l’ultima pulizia etnica della nazione anatolica facendo finta che non sia accaduto nulla.
Invece ciascun villaggio della zona ha vittime e sfollati, finiti magari sul Mar Nero, allevatori e montanari spediti a pescare. Molti dei mariti, figli, fratelli e sorelle che negli anni Novanta imbracciavano il mitra giacciono sulla collina di Sehîd Amed, la Spoon River dei martiri kurdi. Decine e decine di marmi bianchi allineati per un totale di 220 miliziani del PKK vittime di scontri armati o d’imboscate degli agenti del MIT e dei reparti antiguerriglia. Hesendîne Pasur, 1998, è uno dei luoghi di morte che ricorre maggiormente sulle lapidi che guardano imponenti montagne innevate anche ora che il Newroz è sbocciato. A vigilare sulla collina della memoria c’è un manipolo di uomini. Turnano giorno e notte per evitare che l’esercito, sempre presente nel territorio, giunga a distruggere le tombe. E’ già accaduto perché l’intento di ogni governo turco dagli anni Novanta a oggi è stato quello di rimuovere da qui gente e ricordi, specie se identitari e combattivi. La richiesta di ricostruzione dei villaggi avanzata dai sindaci del BDP trova ostacoli nelle autorità centrali che non vogliono ripopolare i luoghi. “E’ il maggior problema con cui ci misuriamo – dichiara Rezan Zoğorlu – questa è una zona di guerra e d’abbandono”.
“Attualmente la guerra che ci fa lo stato turco è basata sull’oblìo economico, sociale, culturale. Non solo non esistono progetti governativi per quest’area montana (Lice è a 1200 m d’altitudine e ci sono paesi ancora più in alto, ndr), ma le nostre iniziative vengono ostacolate con qualsiasi pretesto autoritario o burocratico. Erdoğan si prodiga a elargire finanziamenti nelle province del suo elettorato (la mercantile Bursa è fra le più premiate, ndr). Qui per strade e scuole facciamo da noi, da qualche mese abbiamo avviato un istituto di lingua kurda; ovviamente il nodo centrale è l’occupazione. L’economia secolare è divisa fra allevamento e agricoltura, ma dal periodo della feroce repressione molte terre ci sono interdette, sono state recintate o vengono controllate dall’esercito, così non si può seminare né pascolare animali. L’attuale generazione non è quasi più in condizione di praticare il lavoro dei padri”. Eppure la giovane sindaco, di cui è scontata l’elezione, perché qui il BDP con cui si candida raccoglie il 95% dei consensi, ha il chiodo fisso di voler rilanciare la vita. “Per noi attiviste, che nel partito portiamo il valore aggiunto della battaglia per la trasformazione del rapporto uomo-donna, è un obiettivo fondamentale”.
“Siamo state e siamo capaci di lottare imbracciando il fucile, sapremo guidare il rapporto verso la trasformazione dei nostri uomini e compagni. Anch’essi sono sotto pressione, il sistema gli propone il millenario schema patriarcale e machista che invece deve cambiare. Cambiare ora, lungo il percorso della liberazione, vale per i kurdi, per i turchi, per i maschi di ogni Paese del mondo. Questo teorizza il nostro partito e questo vogliamo realizzare. Saldiamo tale principio alla necessità del ritorno della nostra comunità nella terra d’origine. Poi naturalmente pensiamo al quotidiano: al lavoro e al cibo, alle scuole per la cultura dei bambini, agli ospedali per la loro salute. Un progetto che vorrò attuare è trasformare in centro sanitario un’enorme caserma dove Ankara stipa i soldati che ci controllano. Nella zona sono 10.000, quasi uno per abitante… Li hanno inseriti in quel grande edificio che un tempo era un dormitorio, uno spazio con una funzione sociale e non repressiva. Noi vorremmo tornasse com’era, lasciando Lice in pace alla sua gente, anche a quella che è stata deportata e non è più rientrata. Vogliamo ricostruire i villaggi e un’esistenza felice. Per tutto questo siamo disposti a lottare, ricreando una continuità generazionale che non dev’essere frantumata”.
di Enrico Campofreda