Yasar Kemal, il Falco ha chiuso le ali

Se ne è andato all’età di 92 anni, dopo una degenza in ospedale, il più importante scrittore della Turchia del Novecento: Yasar Kemal, più volte candidato al Premio Nobel per la letteratura, anche se non lo ha mai ricevuto avendogli gli accademici svedesi preferito in anni recenti il più giovane Orhan Pamuk. Nato in una famiglia povera (il vero nome era Kemal Sadik Gokçeli), Kemal ha dovuto abbandonare gli studi dopo la scuola elementare. Nel 1950 ha trascorso un anno in prigione con l’accusa di «propaganda comunista». Ha quindi iniziato a lavorare per il quotidiano turco Cumhuriyet, dedicandosi alla sua attività di narratore.

Infatti il suo esordio risale al 1952 con il romanzo Memed il Falco. Nel 1996, quando era già famoso e acclamato in tutto il mondo, venne condannato a 20 mesi di carcere – sentenza in seguito sospesa – per le critiche sulla gestione della minoranza curda da parte del governo turco. Del resto lo scrittore diceva che «l’opposizione è una tradizione turca» e proprio la prigione diventa un nodo per capire quanto la letteratura non possa discostarsi dalla verità; Pamuk la riteneva anzi una caratteristica degli scrittori della sua generazione: «Io ci sono stato tre volte. La prima a 17 anni, poi nel 1950, quando fui torturato. Non c’è alcun dubbio: la prigione è la scuola della letteratura turca del passato».

Attraverso le sue storie di respiro biblico, Kemal è stato uno degli scrittori del Novecento che ha saputo restituire il carattere e la bellezza della sua terra, descritta in senso fortemente poetico, il senso di un’epica particolare in grado di trasformarsi in tensione universale ed esprimere le grandi questioni che segnano la vita degli uomini. Ciò probabilmente deriva dalla forma che assume la scrittura dell’autore turco, originario dell’Anatolia e precisamente di un villaggio dell’antica Cilicia. Infatti Kemal trasforma in afflato creativo le istanze delle tradizioni popolari della sua terra e rilegge le leggende curde e turkmene che sono il suo punto di riferimento. Del resto aveva detto: «La nostra gente nell’arco di centinaia di anni ha sviluppato le tecniche del racconto orale, raggiungendo un’incredibile maestria. Non si può non rimanerne sbalorditi e affascinati. Quanto a me sono stato apprendista alla scuola dei maestri del racconto orale».

Il dramma che si registra nei suoi libri, quello che agisce nel profondo delle sue storie, è legato al senso dello sradicamento: la terra e l’appartenenza alla cultura d’origine non possono essere violati, se non al prezzo di una frattura lancinante che mette in pericolo l’assetto stesso della persona. Ne deriva quindi una strenua difesa di sé in relazione al luogo natale. Nei romanzi di Kemal la pianura della Cukurova diventa un luogo mitico, con le sue grandi piantagioni di cotone. È l’emblema di una natura che governa il destino degli uomini. Anche quando l’autore sceglie di ambientare le sue storie altrove, a Istanbul o sul monte Ararat, il lettore percepisce la sua voce in relazione al luogo dove lo scrittore è nato e con il quale sembra aver istituito un patto di fedeltà: «Sono nato in una fertile pianura assai vicina al mare: l’antica Cilicia, oggi chiamata Cukurova. Una pianura che portava su di sé, in ogni suo aspetto, natura, svariate culture, la mediterraneità, i profumi inebrianti della terra, dei fiori, gli aromi di erba e foglie. In Cukurova fin le nuvole – cantava un menestrello – odorano di nuvola».

L’opera di Yasar Kemal è stata fatta conoscere e ampiamente tradotta in Italia da un piccolo editore, Giovanni Tranchida, che ha proposto le opere più importanti e soprattutto il suo capolavoro, la Trilogia della montagna,scritta negli anni Sessanta. Kemal vi presenta personaggi indimenticabili, situazioni che hanno la forza di stare a confronto con certe immagini pittoriche. Il primo tomo, Al di là della montagna, racconta un epico viaggio dalla pianura ai monti, tra foreste popolate di tigri, villaggi sperduti, corsi d’acqua senza possibilità di guado. Tutto è narrato in un’ottica corale, dalla quale si ergono le figure straordinarie di Alì e della vecchia madre. Quando il cavallo che li accompagna muore, la madre si accanisce ingiustamente contro il figlio; sono le pagine più intense. L’agonia dell’animale, la forza espressionista che pervade le descrizioni del cavallo fanno pensare a figurazioni del grande pittore francese Gericault.

Lo strazio e la paura dei contadini minacciati da un ricco mercante che può portarli alla rovina, nel secondo tomo Terra di ferro, cielo di rame,
è sottolineata dall’impatto lirico del gelido inverno anatolico. La trilogia si chiude con L’erba che non muore mai, in cui ritroviamo Alì elaborare il complesso rapporto con la madre, ma soprattutto la vita e le fatiche degli abitanti del villaggio di Yalak. Questa terza parte riporta là dove era magistralmente partita la trilogia, durante la discesa estiva nella piana della Cukorova per la raccolta del cotone. Ritornano a fiammeggiare le immagine liriche, accompagnamento estenuante rispetto a un’esistenza che si trascina contraddittoria tra rabbia e rassegnazione. Claudio Magris ha sottolineato che «Kemal è un cantore insieme innamorato e critico della Turchia, dalla cosmopolita seduzione di Istanbul alla dimenticata solitudine dei villaggi sperduti. Sa raccontare l’incanto e lo sgomento dell’infanzia alla scoperta del mondo affascinante e crudele e le contraddizioni tra la vita, la morale e la passione».

Lo scrittore ha sempre parlato in difesa della democrazia. Lo ha fatto anche in anni recenti ad Ankara pronunciando, nel 2007, un discorso che è anche un elaborato ‘manifesto per la pace’ in cui lo scrittore dice: «Se la gente di un Paese vuole vivere bene e felice prima deve rispettare e far propri i valori universali, e garantire la libertà di pensiero senza confini. Chi andrà contro questo principio condannerà le sue genti a non avere un posto d’onore nel XXI secolo e a vivere come popoli senza onore, che non si potranno guardare in faccia. La ricchezza culturale del nostro Paese è nelle nostre mani. O una vera democrazia o niente».

(Fulvio Panzeri, Avvenire del 1-3-2015)