Suruc, la strage che “si poteva evitare se avessero chiuso quell’Islam cafè”

Dopo l’attentato che il 21 luglio ha ucciso 33 attivisti turchi, un’indagine parlamentare del Chp rivela una rete di reclutamento e supporto dell’Isis a 200 km dalla cittadina al confine con Kobane. “Da mesi ne denunciavamo l’esistenza, il governo non ci ha ascoltati. E ora ci arrestano come criminali”

SANLIURFA (Turchia sud-orientale) – Adiyaman è una città di 200mila abitanti nel profondo sud est della Turchia, a sole due ore d’automobile dal confine siriano, verso sud. Fino a un paio di settimane fa, nel centro cittadino era attiva una sala da tè, l’Adiyaman Islam Café, all’apparenza uno dei tanti posti in cui sedersi a bere un cay aspettando la chiamata del muezzin o discutendo di politica e religione. È qui che, nel 2014, è iniziata la radicalizzazione di Seyh Abdurrahman Alagöz (20 anni), lo studente di ingegneria turco che lo scorso 21 luglio si è fatto esplodere nel centro culturale “Amara” di Suruc, uccidendo 33 giovani attivisti arrivati da tutto il paese per portare aiuti umanitari a Kobane (il campo di accoglienza di Suruc è il più grande della Turchia e ospita da 20 a 30 mila rifugiati).

A confermare che una cellula dello Stato islamico aveva impiantato un centro di reclutamento a 150 chilometri da Suruc è stata un’indagine parlamentare del Chp – il Partito popolare repubblicano fondato nel 1923 da Mustafa Kemal Atatürk – che ai primi del mese ha inviato ad Adiyaman una delegazione, portando alla luce un’intera rete di indottrinamento e supporto logistico per il jihad in Siria. Ma se a costringere il governo a smantellarla parzialmente sono stati i Popolari, a denunciarne per primi l’esistenza erano stati i curdi del municipio di Suruc; le cui segnalazioni – a quanto pare – sarebbero rimaste a lungo inascoltate.

“Da mesi – racconta Yildiz Sahin, vicesindaco di Suruc, eletta con il partito filocurdo Hdp di Selahattin Demirtas – amici e compagni del partito ci mettevano in guardia sull’esistenza di quel posto. Abbiamo mandato una delegazione a verificare di persona quanto affermavano, ed è stato subito chiaro che qualcosa di grave stava accadendo da quelle parti. Tutto ciò che abbiamo scoperto lo abbiamo riferito prima al governatore distrettuale, quindi in parlamento. Ma nessuno ha voluto ascoltarci”.

Stando alle testimonianze raccolte dal Chp, ad Adiyaman gli uomini dello Stato islamico avevano impiantato una vera e propria base logistica, che per mesi avrebbe organizzato il trasporto di uomini e armi oltre il confine siriano, servendosi delle ambulanze di ritorno dagli ospedali turchi, dove spesso viene consentito il ricovero dei feriti in battaglia. Per infiltrarsi in città, l’organizzazione avrebbe fatto leva su un tasso di disoccupazione che negli ultimi mesi è cresciuto a dismisura, lasciando centinaia di giovani e famiglie senza mezzi di sostentamento.

Secondo quanto riferito da Celal Dikmen, dirigente dell’Associazione diritti umani, al momento di arruolarsi ogni cittadino turco riceveva fino a 5mila dollari in contanti, oltre a una paga mensile che poteva arrivare fino a 1.300 dollari al mese. Quasi tutti i giovani assoldati avrebbero trascorso un periodo di addestramento in Siria, prima di fare ritorno in Turchia. Tra loro c’era anche Orhan Gönder, il 18enne curdo che il 5 giugno, secondo gli inquirenti, avrebbe piazzato le bombe esplose a Diyarbakir durante il comizio conclusivo dell’Hdp, uccidendo 4 persone ad appena 48 ore dalle elezioni parlamentari. Le vicende di Gönder e del kamikaze di Suruc, Seyhe Alagöz, seguono copioni praticamente identici: diversi mesi prima degli attentati, le rispettive famiglie ne avevano denunciato le scomparse, informando chiaramente le autorità circa il sospetto che fossero finiti tra le fila di Daesh.

“In altre parole – contina Sahin – tutto ciò equivale a dire che se per una volta le autorità turche ci avessero dato ascolto, due stragi avrebbero potuto essere evitate nell’arco di un mese e mezzo. Subito dopo il massacro dell’Amara center, abbiamo sollecitato nuovamente il governo a prendere provvedimenti riguardo a ciò che accadeva ad Adiyaman. Ma neanche allora ci hanno ascoltati. E la cosa non deve stupire più di tanto, se si considera che nei suoi discorsi il premier Ahmet Davutoglu non fa mai riferimento a Daesh come a un’organizzazione terroristica, ma come a un “gruppo di cittadini arrabbiati”. Questo, però, non ha impedito a Erdogan di lanciare la sua cosiddetta operazione antiterrorismo; che qui, come nel resto della Turchia, sta colpendo quasi esclusivamente i curdi”.

A Suruc, poco sembra cambiato dal giorno dell’attentato. Scendendo dai minibus in arrivo da Sanliurfa, ci sono ancora tassisti abusivi che si offrono di accompagnare profughi e giornalisti oltre il confine siriano, in genere nel cantone di Kobane. “In realtà – spiega un residente – gli occidentali li lasciano quasi sempre al confine, perché senza un’autorizzazione i militari turchi non lasciano passare più nessuno; e dopo i fatti degli ultimi mesi anche combattenti curdi si sono fatti più diffidenti”. Il giardino dell’Amara center, affacciato sul viale che conduce alla piazza del municipio, sembra rimasto fermo al momento dell’esplosione. Le vetrate della facciata esterna, devastate dalla detonazione, non sono ancora state sostituite; e uno striscione con i nomi e i volti delle vittime è stato issato tra due alberi, sotto i quali i responsabili del centro hanno disposto i resti di libri e giocattoli che i giovani stavano portando a Kobane.

Ma a restare immutate, secondo Sahin, sono anche le misure di sicurezza; che i residenti, oggi come allora, giudicano inadeguate. “Qualche tempo prima dell’attentato – spiega il vicesindaco – il governatore ci aveva avvisato informalmente circa il rischio che qualcosa del genere potesse accadere. Ma da allora il governo non ha fatto nulla per proteggerci. In compenso, però, hanno ricominciato ad arrestare i nostri cittadini: da quando Erdogan ha ripreso a bombardare il Pkk, almeno sei persone sono state arrestate da queste parti. Uno di loro aveva 55 anni, ma per il resto erano quasi tutti ragazzini; e siamo piuttosto certi che si tratti di semplici civili. Sono stati interrogati per giorni, hanno subito pressioni fisiche e psicologiche enormi, perché la polizia voleva sapere se nelle loro famiglie qualcuno avesse legami col Pkk. Ma il punto è che per essere sospettati di questo basta aver partecipato a un comizio dell’Hdp o a una manifestazione per Kobane; e ciò significa che per il governo siamo tutti potenziali terroristi”.

A restare a piede libero, invece, è il fratello dell’attentatore, Yunus Emre Alagöz. Era lui a gestire l’Islamic Café di Adiyaman e secondo gli inquirenti c’è il concreto rischio che si prepari a colpire a sua volta.

“Ad Adiyaman – conclude Sahin – ci sono altri centri di reclutamento ancora intatti. E a Gaziantep, ad appena 100 chilometri da qui, c’è un’intera rete che il governo non ha ancora nemmeno sfiorato. Il giorno dell’attentato, subito prima dell’esplosione, uno dei ragazzi aveva capito che il kamikaze stava per fare qualcosa di brutto: l’onda d’urto lo ha investito proprio mentre provava ad allarmarci. È stata una scena straziante. E mi chiedo quante altre volte dovrà ripetersi, prima che il governo si decida a proteggerci, invece di darci la caccia come criminali”. (Antonio Michele Storto)

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