Rivoluzionarie per davvero

Combattono la loro guerra di Liberazione dall’IS e difendono anche la nostra libertà. Ozlem Tanrikulu propone di dedicare l’8 marzo alle donne del Rojava e alla resistenza del YPG

Ozlem Tanrikulu è la Presidente di UIKI-Onlus, l’Ufficio di informazione del Kurdistan in Italia. L’Ufficio denuncia la repressione e la violazione dei diritti cui è sottoposto il popolo kurdo e promuove la pace e la solidarietà attraverso attività di sensibilizzazione e informazione. Con Ozlem parliamo del significato dell’otto marzo: l’UIKI, rilanciando l’appello della rappresentanza internazionale del movimento delle donne kurde, chiede di dedicare la Giornata delle Donne alle donne rivoluzionarie delle YPJ, le Unità femminili di Difesa del Popolo nel Rojava, che hanno combattuto, ma non solo, per la liberazione di Kobane.

Le guerrigliere kurde sono state in primo piano nella lotta contro l’IS. Puoi parlarci del ruolo che le donne ricoprono nella cultura kurda e nella lotta armata?
Le donne nel movimento curdo stanno prendendo parte alla lotta per l’autodeterminazione in tutti i settori della società. Le forze di difesa sono solo uno dei vari ambiti: il lavoro di controinformazione e di denuncia, il lavoro di cura e di sostegno insieme al lavoro per la pace mostrano la strada verso nuovi rapporti di genere basati sulla libertà e liberi dall’oppressione. Ne è parte anche la scelta della co-presidenza, ossia la doppia rappresentanza di genere per ciascun incarico di responsabilità sia dal punto di vista militare sia per le cariche elettive. A livello pratico, nell’attività politica rivoluzionaria all’interno del movimento kurdo, le donne hanno trovato uno spazio di libertà che ha permesso loro di conquistare rispetto e dignità e di affrancarsi dai ruoli subordinati tradizionali. C’è ancora molto da fare ovviamente perché la mentalità feudale saldata alla modernità capitalistica è molto pervasiva, nessuna e nessuno ne è totalmente immune.

L’otto marzo è la Giornata Internazionale della donna. Che significato ha per te questa giornata? Al di là delle differenze geopolitiche, pensi che ci sia un filo conduttore che lega insieme la lotta di tutte le donne?
Noi pensiamo che ciascuno debba risvegliarsi e lottare per sé, che non arriverà nessuno da fuori a “salvarci”. Dev’essere una presa di coscienza di tutte le donne del mondo, in ciascun contesto secondo le possibilità reali del momento e del luogo. L’otto marzo si ricorda la presa di coscienza seguita alla strage di operaie chiuse a chiave dentro la fabbrica per la quale lavoravano negli Stati Uniti. Se c’è un filo conduttore, eccolo: l’otto marzo è una giornata simbolica per tutte le donne, che deve ricordarci che questo cammino – dall’analisi alla presa di coscienza fino alla decisione concreta di cambiare le cose – è un percorso che va scelto, deciso, e portato avanti secondo le proprie possibilità, tenendo presente che non sarà un percorso lineare e uguale per tutte, ma che a livello mondiale va perseguito. A mio parere, il senso dell’otto marzo è dare a tutte le donne il coraggio di dire che questo percorso è possibile. Noi come donne curde chiamiamo tutte le organizzazioni delle donne a dedicare la Giornata Internazionale delle Donne alla rivoluzione delle donne nel Rojava e alla resistenza delle Unità di Difesa delle Donne YPG.

Avete incontrato le riflessioni femministe?
Siamo passate attraverso la fase dello studio delle esperienze rivoluzionarie degli altri popoli, e anche quelli delle donne, per poter elaborare un sistema originale che si adattasse al nostro contesto. Sono state fondate accademie femminili dove le donne hanno la possibilità di formarsi, di discutere, di conoscere i diversi sistemi e movimenti. Ci sono anche occasioni di scambio diretto; ci siamo incontrate con donne dall’Europa e da altri luoghi così abbiamo potuto confrontarci dialetticamente e direttamente, mettendo alla prova i concetti teorici. Un punto su cui abbiamo fatto un percorso parallelo a quello femminista è la messa in crisi del concetto di potere/dominio maschile, che è poi quello sottostante allo stato-nazione storicamente inteso: se si resta ferme al concetto che un cambiamento avviene solo attraverso la presa del potere, possiamo al limite ottenere un cambio di regime e avere qualche possibilità in più ma non avremo cambiato la società, non avremo fatto una vera rivoluzione. Ci può essere un primo momento in cui le donne si organizzano autonomamente e mostrano che sono capaci di prendere in mano le loro vite senza aspettare il permesso da un uomo, che sia il loro padre, marito, o il loro comandante. Non si tratta di una libertà esteriore nella quale la donna imita l’uomo o guadagna il privilegio di farsi sfruttare al pari dell’uomo dalla modernità capitalistica. Questa è una falsa idea di libertà. Successivamente, quando le donne avranno imparato ad avere fiducia in se stesse, potranno portare il loro esempio di vita concreto come modello per le relazioni fra generi a qualsiasi livello della società: non è strano sentire, ad esempio, combattenti peshmerga che in Sud Kurdistan, nelle unità congiunte di difesa costituite per evitare nuovi massacri contro gli ezidi a Şengal, affermino che preferiscono farsi comandare da donne combattenti delle YPG o delle HPG perché più affidabili dei loro comandanti maschi.

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Kobane libera

Il 26 gennaio, dopo 134 giorni di resistenza agli attacchi di ISIS, Kobane è stata liberata dalle forze di difesa del popolo YPG e YPJ. Dopo quattro mesi di combattimenti, le donne e gli uomini dell’Unità di protezione popolare sono riusciti a prendere il controllo di Kobane, ricacciando i miliziani jihadisti nei sobborghi est della città. Una vittoria importante e simbolica non solo per la sconfitta di IS ma anche, e forse soprattutto, per la riconquista di quella libertà da sempre rappresentata dal sistema del Rojava.

Contro l’avanzata dello Stato Islamico, Kobane ha combattuto potendo contare solo sulle sue forze. Perché la Turchia ha impedito non solo ai profughi di varcare la frontiera ma anche il passaggio di armi e aiuti per chi continuava a resistere. E perché i raid della coalizione, anche se interessavano le aree intorno alla città, non raggiungevano una precisione tale da poter fermare l’avanzata di ISIS. Oltre alla solidarietà di movimenti internazionali, solo il Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, è intervenuto inviando armi e combattenti contro l’avanzata islamista.

Con la bandiera che sventola sulla collina di Mistenur, e prende così il posto di quella dello Stato Islamico, Kobane liberata è il segno della possibilità di sconfiggere l’ISIS. Non solo; è il simbolo della difesa dell’uguaglianza, della giustizia e dell’autodifesa del proprio territorio, il Rojava, e in questo costituisce un’alternativa politica radicale.

UIKI impegnato a denunciare la repressione e la violazione dei diritti cui è sottoposto il popolo kurdo, a promuovere la pace e la solidarietà tra i popoli attraverso attività di sensibilizzazione e informazione. A Roma per discutere della resistenza kurda nel Rojava, Ozlem ci parla del significato della liberazione di Kobane e del ruolo, centrale, che le guerrigliere kurde hanno ricoperto nella lotta contro l’ISIS.

Le guerrigliere kurde sono state in primo piano nella lotta contro l’IS. Puoi parlarci del ruolo che le donne ricoprono nella cultura kurda e nella lotta armata?
Nel movimento curdo, le donne stanno prendendo parte alla lotta per l’autodeterminazione in tutti i settori della società. Le forze di difesa sono solo uno dei vari ambiti. Il lavoro di controinformazione e di denuncia, il lavoro di cura e di sostegno insieme al lavoro per la pace – come quello svolto dalle organizzazioni sociali delle donne, dalle cooperative, dalle “madri per la pace” ad esempio -, seppure possa essere visto come l’esercizio di un ruolo più tradizionalmente femminile, mostra la strada verso nuovi rapporti di genere basati sulla libertà e liberi dall’oppressione. Ne fa parte anche la scelta della co-presidenza, ossia la doppia rappresentanza di genere per ciascun incarico di responsabilità, dal punto di vista militare così come per le cariche elettive. Nelle sue analisi, il nostro presidente Öcalan ha chiarito come la donna sia sottoposta a una doppia oppressione, come curda e come donna, un’oppressione trasversale, ma come nell’antichità non fosse così, poiché le donne godevano di molta libertà e autonomia. A livello pratico, nell’attività politica rivoluzionaria all’interno del movimento kurdo, le donne hanno trovato uno spazio di libertà che ha permesso loro di conquistare rispetto e dignità e di affrancarsi dai ruoli subordinati tradizionali. Le donne hanno saputo dimostrare di valere quanto e anche più dei loro compagni maschi. C’è ancora molto da fare ovviamente, perché la mentalità feudale saldata alla modernità capitalistica è molto pervasiva, nessuna e nessuno ne è totalmente immune.

A tuo parere, che conseguenze comporta la liberazione di Kobane?
La liberazione di Kobane è un bellissimo risultato al quale siamo arrivati grazie alla determinazione e all’eroica resistenza della popolazione, della città e dei tanti che sono accorsi in suo sostegno, nonostante le difficoltà poste al confine dalla Turchia. Ma non è finita qui. I villaggi intorno alla città sono ancora in mano a ISIS così come proseguono i combattimenti per liberare la regione di Şengal in Iraq, il monte sacro agli Ezidi, e le altre zone in mano ai terroristi. Dunque, sono ancora valide e urgenti le richieste di un corridoio umanitario per portare aiuti alla popolazione civile e per ricostruire oggi la città di Kobane. Riconoscere i cantoni del Rojava e ciò che a livello sociale stanno praticando, e isolare quei paesi che ancora sostengono e supportano le bande di ISIS, paesi che non hanno a cuore la pace e i diritti dei popoli, ma che perseguono i propri interessi. Serve, dopo la liberazione di Kobane, un cambiamento nella politica della regione senza il quale non si potrà arrivare alla pace e alla stabilità.

 

di Marta Facchini NOI DONNE