Morire per il Kurdistan: La breve estate di Barbara Kistler e Andrea Wolf

I compagni (i valorosi compagni, diciamolo) che combattono con le organizzazioni curde contro i fascisti islamici dell’Isis si rifanno esplicitamente all’esperienza della guerra civile spagnola. A quei volontari anarchici, comunisti, socialisti, antifascisti generici… che da ogni angolo d’Europa (e non solo) accorsero nelle Brigate Internazionali per respingere il fascista Franco appoggiato da Mussolini e Hitler. A fianco delle classi subalterne iberiche e dei popoli basco e catalano insorti per la loro liberazione, sociale e nazionale.

Già altri in passato avevano scelto di impugnare le armi e integrarsi nella lotta dei curdi e della sinistra rivoluzionaria turca contro l’imperialismo.

Tra quanti alla fine del secolo scorso raggiunsero i guerriglieri ci furono anche una ragazza svizzera, la compagna Barbara Kistler e una tedesca, Andrea Wolf.

Caduta in combattimento contro l’esercito turco

Quando nel 1993 giunse la notizia della morte di Barbara in combattimento, sembrava  una cosa di altri tempi. Appunto da Brigate internazionali nella guerra di Spagna o da guerriglie sudamericane degli anni sessanta. Non certo in sintonia con l’Europa fine secolo. Forse un po’ meno satolla con la crisi incombente, ma ancora rincoglionita e sotto gli effetti tardivi del consumismo. Un’ Europa da cui era impensabile partissero volontari disposti a morire per i diritti di un popolo sconosciuto ai più.

Invece a Barbara Kistler era toccato in sorte di “esalare l’ultimo respiro” * tra le montagne curde nel febbraio 1993 quando l’azione repressiva dell’esercito turco contro la resistenza si era ulteriormente inasprita e l’aviazione di Ankara non perdeva occasione per bombardare i villaggi curdi, sia al qua che al di là del condine con l’Iraq.

“Da notare -scrivevo all’epoca su Frigidaire – che l’aviazione statunitense, sempre  prontissima ad intervenire se un aereo iracheno accenna solo a sorvolare i territori curdi posti sotto la “tutela” degli USA, non ha mosso nemmeno un dito contro le azioni di rappresaglia, con vittime in maggioranza civili, del suo fedele alleato turco, membro della NATO”.

Personaggio già noto, sia nell’universo antagonista che alle forze di polizia, Barbara era da più di vent’anni una militante comunista.

Nel 1974, quando aveva 18 anni, era stata intervistata da una rivista “per giovani” (POP) dichiarando apertamente di voler “vivere per il socialismo”. Già allora doveva essersi posta il problema dell’autodifesa e della violenza rivoluzionaria.

Spiegava infatti: “Attraverso il confronto con la polizia ho dovuto ben presto affrontare la questione della violenza. Credo che per prima cosa si dovrebbe parlare della violenza usata dalla società per rendere i cosiddetti cittadini degli schiavi, ovvero quella violenza che viene usata per impedire che i giovani e i lavoratori difendano i loro diritti.

Pensiamo al Cile (il golpe di Pinochet risaliva a qualche mese prima nda) dove il movimento operaio aveva tentato con metodi democratici, pacifici di realizzare una società giusta, una società in cui non solo i ricchi potessero mangiare adeguatamente.  Invece i capitalisti e i generali – proseguiva Barbara nella stessa intervista – vedendo  minacciati i loro privilegi, non si sono fatti scrupoli e non si sono fermati di fronte a niente. I lavoratori sono stati rinchiusi nei campi di concentramento, torturati e assassinati a migliaia”.

Secondo Barbara l’errore fondamentale commesso dai lavoratori cileni era stato di “non essersi preparati anticipatamente alla resistenza, alla lotta armata contro gli sgherri del capitalismo. Così invece si son fatti massacrare”. L’intervista era del 1974 e fatalmente risentiva del clima politico di allora, leggermente surriscaldato. Magari oggi potrà apparire un po’ naive, ma pur nella sua semplicità contiene affermazioni in gran parte condivisibili. Anche, o soprattutto, con il senno di poi.

Comunque indicative per comprendere le scelte successive di Barbara: scelte coerenti con tali premesse.

La militanza di Barbara Kistler nel KGI

In un primo tempo Barbara aderì ad un gruppo della sinistra radicale di nuova formazione, poi collaborò con Soccorso Rosso e, a partire dal 1980, entrò a far parte del KGI (Comitato contro l’isolamento dei prigionieri). Fu con questa organizzazione che prese parte attivamente alla lotta contro il “Patto sociale” messo in cantiere dai vertici delle burocrazie sindacali svizzere. Un inciso: in Svizzera, fin dal 1937, lo Stato si poneva come mediatore neutrale tra sindacati e padronato (termine obsoleto? Pardon…). In cambio veniva sottratto ai lavoratori l’utilizzo di uno strumento indispensabile nel conflitto di classe: lo sciopero, niente meno.

Il tutto con la complicità del sindacalismo istituzionalizzato.

E fu proprio nel corso di questa campagna che Barbara cominciò a conoscere i lavoratori immigrati curdi e turchi, alcuni legati al TKP/ML (partito comunista turco/marxista-leninista), un’organizzazione che riuniva rivoluzionari di sinistra sia turchi che curdi.

Altro punto fermo del suo impegno politico fu la solidarietà con i prigionieri politici, anche con quelli tedeschi della RAF. Fu al loro fianco durante gli scioperi della fame per il raggruppamento e per anni visitò in carcere Rolf Clemens Wagner. Finché nel 1991 prese la decisione di continuare la sua lotta contro l’imperialismo nel Kurdistan.

Presumibilmente i servizi segreti erano già stati informati delle sue intenzioni e appena giunta in Turchia venne arrestata. Torturata da una unità speciale della polizia, non rivelò nessuna informazione. Rimase detenuta a Bayranbasa per sette mesi. Nonostante la dura esperienza, appena rilasciata in libertà provvisoria, dopo un breve ritorno di un mese in Svizzera, portò a termine i suoi propositi integrandosi nella guerriglia condotta dal TIKKO (Esercito per la liberazione dei lavoratori e dei contadini di Turchia), ala militare del TKP/ML.

Una tomba in memoria di Andrea Wolf

Andrea Wolf aveva aderito all’organizzazione combattente delle donne curde (YAJK). Venne uccisa a Keles (villaggio a pochi chilometri da Van) dai soldati turchi nel 1998, dopo che era stata fatta prigioniera e torturata insieme ad altre due guerrigliere.
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Dal 2013 nella città di Wan (quartiere Catak) una tomba monumentale ricorda i 24 compagni che il 23 ottobre del 1998 vennero assassinati e sepolti in una fossa comune dall’esercito turco (fossa scoperta soltanto nel 2011). Tra di loro anche Ronahi, nome di battaglia della sociologa e attivista tedesca Andrea Wolf. Nel corso della cerimonia di inaugurazione della tomba (coperta da una grande bandiera del PKK)  venivano esposte le immagini di Abdullah Ocalan, Sakine Cansiz, Mahsum Korkmaz e Andrea Wolf. Su questa una scritta: “We riha xwe ya sirin di ber gele kurd de da. Heya ev gel hebe de minetare we be” (Una vita divina dedicata al popolo curdo che rimarrà grato finché vive).

Nel suo intervento un giovane guerrigliero aveva sottolineato come “la nostra compagna Andrea Wolf è un esempio della diversità e dell’internazionalità del movimento curdo. E’ stata uccisa dal nemico in un modo che va completamente contro l’etica di guerra. Con la costruzione della tomba monumentale che prenderà il nome da Andrea, vogliamo che i nostri compagni sappiano che non potremo mai dimenticarla”.

Un altro combattente, il comandante Serif Firat, uno dei quattro testimoni oculari dell’esecuzione sommaria di Andrea, aveva dichiarato in un’intervista che era “pronto a raccontare tutti i dettagli dell’esecuzione di Andrea Wolf” nel caso servissero delle prove presso la Corte internazionale di Giustizia per i crimini contro l’umanità commessi dalla Turchia. Aveva poi aggiunto: “E’ stata la sua visione internazionalista che ha fatto entrare la compagna Ronahi nelle file del PKK. La sua determinazione a essere una vera e propria guerrigliera del PKK nel suo complesso ha fatto sì che i suoi compagni la rispettassero”.

Gianni Sartori

* nota:

“Se a noi che nel nostro piccolo punto della carta geografica adempiamo il compito che preconizziamo e mettiamo a disposizione della lotta il poco che ci è permesso dare: la nostra vita, i nostri sacrifici, se uno di questi giorni ci tocca esalare l’ultimo respiro in una qualsiasi terra già nostra perché bagnata del nostro sangue, si sappia che abbiamo misurato la portata dei nostri atti e che ci consideriamo niente altro che elementi del grande esercito del proletariato…”.

(Ernesto CHE Guevara)