L’Autonomia democratica di Kobane, tra autogoverno e dignità

Continua il reportage delegazione trentina dell’associazione Docenti Senza Frontiere e della Fondazione Museo storico del Trentino.

La ricostruzione di Kobane, come la vittoria sull’Isis, sono il frutto di una rivoluzione politica e sociale finalizzata a far si che ogni uomo e ogni donna possano prendere in mano la propria vita

Gli abitanti di Kobane iniziarono a ricostruire subito dopo la fine della battaglia tornando dalla vicina Turchia dove erano rifugiati. Nel gennaio 2015 appena arrivò l’annuncio della vittoria infatti decine di migliaia di persone travolsero i cordoni della polizia turca che avrebbe voluto fermarli e si ripresero la loro città.

Non ne restava molto altro che le macerie, visto che il 48% degli edifici era completamente distrutto e per il resto gravemente danneggiato. Oggi quasi tutta la città è ricostruita. Nonostante gli attacchi dell’Isis, l’embargo portato avanti dalla Turchia e anche dal Kurdistan iracheno, sono stati costruiti un cementificio, una fabbrica di mattoni, il mulino municipale con un nuovo panificio, tre ospedali (anche se scarseggiano medicine e macchinari), 21 scuole (dalle elementari alle superiori) e un’università.

L’acqua esce dai rubinetti in quasi tutta la città (in un quartiere di nuova costruzione ancora bisogna ricorrere ai pozzi), l’elettricità c’è tutto il giorno tranne nelle prime ore della mattina. “Il problema è che ci mancano la rete fognaria e un sistema di smaltimento dei rifiuti”, ci spiega la co-sindaca Roshan Abdi quando la incontriamo.

Il progetto c’è ma per metterlo in atto mancano i macchinari per compiere gli scavi e i lavori nel sottosuolo necessari. Le fognature di Kobane il regime degli Assad del resto non si era mai preso il disturbo di realizzarle, questa era una sorta di “colonia interna” sfruttata a vantaggio delle zone ricche della Siria.

La ricostruzione, come la vittoria sull’Isis, non sono cadute dal cielo, ma sono il frutto di una rivoluzione politica e sociale finalizzata a far si che ogni uomo e ogni donna possano prendere in mano la propria vita. Il risultato è un sistema di autogoverno che qui chiamano “Autonomia democratica”.

Un sistema che si basa su quanto elaborato da Abdullah Ocalan nei suoi scritti ma anche sull’esperienza pratica delle regioni autonome europee, tra cui il Trentino – Alto Adige/Südtirol.

Il fine non è conquistare l’indipendenza e fondare uno stato curdo ma piuttosto creare una democrazia partecipata in grado di garantire la convivenza tra curdi, arabi, assiri, turkmeni, armeni e le molte altre minoranze vivono fianco a fianco da millenni evitando le pulizie etniche ed i massacri che stanno insanguinando il resto della Siria.

Alla base del sistema dell’“Autonomia democratica” vi sono le comuni, ovvero le assemblee di quartiere o di villaggio, ciascuna delle quali ha appositi comitati che si occupano dei diversi aspetti della vita collettiva, può farne parte chiunque ne abbia voglia.

Se un problema va oltre la dimensione del quartiere allora ci si rivolge all’assemblea municipale, a cui partecipano i delegati delle diverse comuni. Anch’essa ha i suoi comitati che agiscono con il coordinamento dei co-sindaci.

Gli eletti per ogni carica sono sempre due, un uomo e una donna, per questo si parla di co-sindaci o i co-presidenti dei cantoni (all’incirca le province italiane, quello di Kobane è abitato da circa 350.000 persone). Anche i cantoni hanno i loro comitati formati dai delegati delle comuni. Insomma lo scopo è far partecipare più persone possibili al controllo e alla gestione della cosa pubblica. Ovviamente l’impegno nelle comuni e nei comitati è svolto a titolo gratuito.

I co-sindaci e co-presidenti dei cantone sono scelti in libere elezioni. Generalmente fanno parte della “Lista di solidarietà della nazione democratica”, una coalizione formata da tra 18 partiti e movimenti curdi, arabi e cristiani, tra cui IL PYD (Partito dell’unità democratica) che ha avviato il processo rivoluzionario.

Questa coalizione ha raccolto tra l’85 ed il 90% dei voti nelle elezioni per i consigli legislativi dei diversi cantoni tenutesi nel dicembre 2017 con un’affluenza pari al 69% degli aventi diritto. Gli amministratori che abbiamo incontrato appartengono ai vari partiti di questa vastissima coalizione, ma tutti e tutte si chiamano tra loro “Heval” o “Hevala”, che in curdo vuol dire “compagno” e “compagna”, ma anche “amico” e “amica”.

Questo sistema è stato stabilito in tutto il Rojava/Federazione della Siria del Nord, ovvero il territorio tra il Tigri (che segna la frontiera con l’iraq) e l’Eufrate. Un’area larga 600 chilometri ed abitata da circa 5 milioni di persone.

La principale attività economica di questi territori è l’agricoltura, nel 2017 nonostante i turchi devino fiumi e torrenti per alimentare i propri impianti idroelettrici il raccolto ha prodotto una quantità di grano superiore al fabbisogno dell’intera Siria. Vi sono anche alcuni pozzi di petrolio, in maggioranza fermi perché obsoleti o danneggiati dalla guerra.

Nonostante tutte le difficoltà attraversando questo territorio ho avuto l’impressione di una società che sta riprendendo una vita pacifica. A fare i posti di blocco lungo le strade sono gli Asayish, cioè la polizia, non i corpi militari di YPG e YPJ, segnale che si è in un luogo relativamente sicuro e non sulla linea del fronte.

I campi affidati alle comuni di villaggio o a piccoli proprietari mi sono sembrati meglio curati che nel Kurdistan iracheno, che vive di petrolio e importa quasi tutto dalla Turchia. In Rojava si vive una dignitosa miseria sopportata grazie ad una sorta di socialismo di buon senso che garantisce a tutti il minimo vitale, senza visibili differenze sociali né mendicanti.

Tra mille difficoltà si cerca di garantire a tutti e tutte un pezzo di pane, un minimo di servizi pubblici gratuiti e il diritto di parola nelle assemblee popolari.

di Tommaso Baldo