La curda Nisir che si è arruolata perché le donne non restino in cucina

di Benedetta Argentieri – In un appartamento al secondo piano di una palazzina abbandonata e devastata dai colpi di mortaio a Til Kocher, Siria, Nisir è seduta su un cuscino giallo lungo come tutta la parete del soggiorno. Davanti a lei una televisione a schermo piatto, dei libri (tra cui una raccolta degli scritti di Nietzsche) e alcune fotografie di combattenti curdi che sorridono. Appesi intorno, dei fogli di carta con dei messaggi.

“Loro sono i nostri martiri, compagni e compagne con cui abbiamo combattuto e che sono stati uccisi in battaglia. Le scritte sono i nostri messaggi per loro e alcune frasi di Apo (Abdullah Ocalan, leader del PKK ndr)”, spiega Nisir mentre indica le fotografie. I lunghi capelli neri, raccolti in una treccia morbida, le incorniciano il viso allungato e dalla pelle olivastra.

Nisir ha 28 anni e da quasi quattro anni è in guerra. Si è arruolata nel 2011, non appena è scoppiato il conflitto civile in Siria. Prima il suo nemico era Bashar al Assad, ora si è aggiunto lo Stato Islamico. La donna è una delle cecchine della YPJ – Yekîneyên Parastina Jinê, o Unità a Difesa delle Donne – che rappresenta il 40 per cento dell’YPG – lo Yekîneyên Parastina Gel, l’esercito curdo in Siria. In una struttura gerarchica unica nel mondo militare, le combattenti prendono ordini solo da donne, mentre gli uomini da superiori di entrambi i sessi. La conseguenza è che la presenza femminile è necessaria nelle più alte sfere di comando: in altre parole, le donne sono costantemente chiamate a prendere decisioni insieme ai colleghi.

Da questa estate le foto delle combattenti curde hanno fatto il giro del mondo. In tanti le hanno celebrate per il loro coraggio e la loro efficacia sul campo di battaglia. “Se un Daesh viene ucciso da uno di noi non va in paradiso. Niente vergini per lui”, sorride maliziosamente Nisir: che usa, per chiamare i combattenti dell’Isis, un termine che è solo un vago acronimo in arabo della locuzione “Stato islamico dell’Iraq e del Levante” (al-Dawla al-Islamiya al-Iraq al-Sham) ma dalle sfumature derisorie; e che non vuole dire quanti uomini ha ucciso. A parlare per lei, però, è la Makarov che conserva nella sua stanza: una pistola che viene data in regalo – a mo’ di incentivo – quando si uccidono venti jihadisti. Per una Beretta bisogna arrivare a quota 100.

La loro non è però una guerra che si combatte solo con i fucili. Loro vogliono molto di più. “Noi combattiamo per tutte le donne, per l’uguaglianza di genere. Perché le donne non siano sempre relegate in cucina. Sappiamo fare anche altro e lo stiamo dimostrando”, continua Nisir per poi aggiungere: “Vogliamo essere un esempio anche per il mondo occidentale”.

L’idea è condivisa da tutti i curdi che combattono nell’YPG, convinti che non potrà mai esserci una rivoluzione senza una liberazione delle donne. Il padre dello loro ideologia è Abdullah Ocalan, fondatore nel 1978 del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, e condannato all’ergastolo in Turchia subito dopo il suo arresto a Nairobi nel 1999. L’organizzazione è inserita nell’elenco dei gruppi terroristici dagli Stati Uniti e i Paesi Nato. Fino al 2013 e per quasi trent’anni il PKK ha condotto una lotta armata contro la Turchia, l’obiettivo era uno stato curdo indipendente. Vari gli appelli perché l’inserimento venisse revocato, come quello del filosofo francese Bernard-Henri Levy

Ocalan ha sempre fatto dell’uguaglianza di genere uno dei punti principali dell’agenda del PKK. In Turchia ha fondato i centri per le donne (Jineology, che in curdo significa “scienza della donne”), in cui si tengono lezioni di economia, politica e difesa personale.

“Quando è scoppiata la guerra avevo due scelte: la prima era di stare a casa e sperare che qualcuno mi potesse difendere. La seconda era difendere me stessa e tutte le persone intorno a me”, continua Nisir.

Una difesa per la quale ha già pagato un prezzo: ad agosto, in combattimento, ha perso l’indice della mano destra. “Ero appostata in un palazzo a Raabia (la città irachena confinante con Til Kocher ndr) quando un carro armato ci è venuto addosso e io sono rimasta incastrata”. Dice di essere stata fortunata. Due anni fa, nella sua unità, erano in 20: oggi sono in sette.

“Ma non ci fermeranno mai, non combatteremo fino all’ultimo respiro. Noi combattiamo perché tutte siano libere”.

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