Kobane, la Stalingrado siriana

Enclave curda a ridosso del confine turco, qui si combatte ancora sul campo e dal cielo. Storia di una città sconosciuta prima dell’assedio dei miliziani dello Stato Islamico

Kobane è ormai da settimane il nuovo paradigma dell’indifferenza in cui sprofonda la Siria. Tutti ne parlano, il nome corrisponde a un hashtag gettonatissimo su Twitter, ma chi sa veramente qualcosa di Kobane? Dov’è l’icona dell’estremo scontro con i tagliagole di al Baghdadi? Cosa rappresenta davvero? Che città era prima di finire nel mirino dello Stato Islamico e sotto i riflettori internazionali? La violentissima guerra settaria in cui è degenerata la rivolta contro Assad iniziata pacificamente quasi 4 anni fa uccide anche così, con il consumo rapidissimo di notizie (spesso difficilmente verificabili) che si bruciano sul web e che non lasciano memoria né storia.

Kobane dunque, l’enclave curda nel nord della Siria che gli arabi chiamano Ayn al Arab. Fino all’inizio dello scorso luglio questa città di circa 55 mila abitanti a ridosso del confine turco godeva della relativa autonomia guadagnata due anni prima nel pieno del conflitto già violentissimo tra il regime di Damasco e i suoi oppositori. Allora, nel luglio 2012, era passata sotto il controllo degli indipendentisti curdi di Yekineyen Parastina Gel noto come YPG, l’Unità di Protezione Popolare, il braccio armato del Partito dell’Unione Democratica nato nel 2004 ma diversamente dal Partito dei Lavoratori Curdi (PKK) rimasto fino a quel momento relativamente lontano dai riflettori.

Fino a sei mesi fa insomma Kobane è ancora nome sconosciuto ai più, dove vivono curdi, arabi, turcomanni e una vaga memoria di presenza armena nei resti di 3 antiche chiese (gli armeni in fuga dall’Anatolia erano arrivati qui nel 1915 per poi emigrare in massa in Unione Sovietica negli anni ’60). La zona è relativamente tranquilla ma strategica, la vicinanza con la Turchia e con i curdi sparsi dall’altra parte del confine ne fanno un potenziale ganglo vitale dell’ipotetico vagheggiato sogno di un grande stato curdo a cavallo tra Siria, Turchia, Iraq e Iran (tanto che nel 1979 l’allora leader del PKK Ocalan andò a visitare proprio Kobane).

Nel 2011 i curdi di Kobane non partecipano all’inizio della rivolta contro il regime siriano, aspettano. Una parte delle forze curde (in particolare vicine al PKK, con cui il YPG è in buoni rapporti sebbene si sia sempre distanziato dalla violenza) ha in passato più volte filtrato con Damasco nell’eterno minuetto siro-turco. Il presidente siriano Assad prova all’inizio a dividere il fronte nemico concedendo la cittadinanza a 200 mila curdi e sperando di far loro dimenticare i diritti negati per decenni, ma non serve. Quando nell’ottobre del 2012 i primi colpi di mortaio caduti in territorio turco infiammando i già burrascosi rapporti tra Assad e l’allora premier Erdogan, Kobane e la vicina Ras al Ayn sono di fatto una “colonia” indipendente che ha approfittato dell’assedio di Damasco ai ribelli di Aleppo per ritagliarsi l’autonomia impensabile fino a due anni prima (con tanto di targhe con dicitura Kurdistan Occidentale). Dal lato turco c’è Ceylanpinar, città gemella di 45 mila anime, da cui i fratelli curdi separati solo dal confine si salutano in curdo, «Bi xatire te!».

Il Kurdistan Occidentale (Roaja) a quel punto si basa sul governo a interim di PYD e KNC (Kurdish National Council). Il sogno è ancora quello di una futura Siria federale post Assad con una regione curda indipendente sul modello iracheno. Invece a un certo punto la guerra civile divampa, il paese precipita nel baratro e i curdi di Kobane, con i loro circa 50 mila combattenti uomini e donne, si trovano a difendere il loro territorio non più solo da eventuali controffensive di Assad ma dai nuovi signori della guerra, i quaedisti (a quel punto sono già iniziati gli scontri tra i curdi, più laici, e i miliziani sunniti più estremisti, arabi contro curdi, tutti contro tutti).

Nel 2013 di fatto la Siria non c’è più: schiacciati i ribelli genuini della prima ora, il paese è in mano alle forze del regime e agli jihadisti che si nutrono di combattenti stranieri. Il Califfato, che ancora tale non è se non nella folle utopia non ancora sbandierata di pochi, guadagna terreno. Gli jihadisti (prima ancora che al Nusra e lo Stato Islamico si separino rivendicando le proprie rispettive sanguinarie identità) guidano l’avanguardia della guerra e quando nella primavera del 2013 Damasco sbaraglia a Qusayr l’ultima estrema resistenza di opposizione armata “moderata” lo Stato Islamico resta l’unico vero potentissimo oppositore di Assad (ma a quel punto del mondo intero che si scopre a “rivalutare” Assad). Il resto è triste storia di mesi di silenzio (interrotti dal tormento obamiano “intervenire contro Damasco o non intervenire”) in cui le vittime civili superano rapidamente quota 200 mila.

A giugno di quest’anno l’Europa e l’occidente tutto scoprono la Siria: lo Stato Islamico (che ha deciso di non chiamarsi più Islamic State Syria and Iraq ma solo Islamic State perché ormai ha di fatto unificato parte dell’Iraq e della Siria nell’embrione del Califfato) lancia la sfida la mondo: dalla prima città sotto il suo controllo, Raqqa, si è velocemente allargato fino a dominare una regione grande quanto la Lombardia con un esercito che gli ottimisti dicono di 30 mila uomini ma i pessimisti (curdi) dicono di 150/200 mila. Cominciano allora a circolare i video con la crocifissione dei cristiani, le notizie circa la legione straniera che si forma in Europa e vola in Siria, l’assedio delle già perseguitate minoranze yazide, il ratto delle donne, le decapitazioni di giornalisti e operatori umanitari occidentali. Comincia allora la tardiva presa di coscienza occidentale e la ricerca compulsiva di alleati d’emergenza che all’occorrenza possono anche essere quei curdi mai davvero considerati se non come i terroristi denunciati da Ankara, i pochi virtuosi avvantaggiatisi dalla seconda guerra irachena grazie all’indipendenza della regione petrolifera di Erbil (oggi a sua volta minacciata) o il simpatico quanto inoffensivo popolo di 40 milioni di persone senza uno stato.

Per tutta l’estate i media parlano dei peshmerga, i valorosi combattenti del Kurdistan iracheno che affrontano lo Stato Islamico ma che non vanno d’accordo con i “connazionali” del PKK (ancora per molti paesi considerati un’organizzazione terroristica). I peshmerga sono unità note all’occidente, già in campo nella guerra Iraq-Iran e a fianco della coalizione a guida americana nella guerra contro Saddam Hussein. Ma i pur formidabili peshmerga non bastano e a un certo punto, pur di fermare il Califfato, ci si arrangia sul territorio anche a costo di far infuriare Ankara e si “arruolano” i battaglioni del YPG e del PKK. Allora iniziano anche i bombardamenti della coalizione a guida Usa (che comprende i paesi del Golfo e il sostegno europeo).

A ottobre lo Stato Islamico, che a quel punto controlla 350 tra villaggi e città curde, raggiunge la periferia di Kobane e inizia l’assedio che dura tuttora (i tagliagole di al Baghdadi ci avevano già provato invano a luglio). Le Nazioni Unite lanciano l’allarme: a oggi si stima che 400 mila persone abbiano lasciato la regione intorno alla città e siano riparate in Turchia. Il 20 ottobre, combattendo casa per casa, pare che la città sia caduta e le bandiere nere del Califfato sventolino sul 40% degli edifici. Invece no, l’epilogo non è ancora scritto: Kobane, ribattezzata la Stalingrado mediorientale, resiste, e con battaglioni di uomini e donne (terrore degli jihadisti) respinge ancora una volta i qaedisti fuori dall’area urbana mentre i raid alleati spazzano i cieli.

La Storia è cronaca di questi giorni, queste ore, questi secondi, un flusso che si arricchisce di cinici dettagli geopolitici come il ruolo della Turchia che ha approvato (molto tardivamente) il passaggio degli arcinemici curdi sul suo territorio per dar manforte alla resistenza di Kobane contro lo Stato Islamico ma che viene accusata dai curdi di favorire sotto sotto i miliziani di al Baghdadi in funzione anticurda. Difficile capire cosa succeda nell’inferno della città. Due giorni fa un giovane egiziano, membro dello Stato islamico, si è fatto esplodere dentro Kobane lasciando un testamento in cui invita i jihadisti del Sinai a compiere attentati suicidi e sgozzare gli infedeli.

Kobane è una trincea, si spara in terra e in cielo, i raid scandiscono le notti e i bombardamenti i giorni con un prezzo altissimo di vittime militari ma anche civili. La Stalingrado mediorientale resiste, sembra Varsavia, sembra Sarajevo, sembra la cronaca di una morte annunciata. La racconterà a giorni il fumetto-reportage di ZEROCALCARE su Internazionale, la canta coraggiosamente David Riondino, i media internazionali ne parlano, il nome è noto: ma ancora una volta (e sempre più spesso) assistiamo impotenti a una città vicina che si batte per la sopravvivenza e che nell’estremo sforzo di resistere brucia l’anima, il passato, la memoria.

di Francesca Paci
La STAMPA