Kobane, intervista al sindaco Mustafa Abdi: “Stiamo ricostruendo una città martoriata. Ma siamo accerchiati e vittime di embargo”
“Soltanto dal centro di Kobane abbiamo dovuto rimuovere un milione e 300mila tonnellate di macerie. Sotto c’erano centinaia di morti. Come può immaginare, il rischio epidemia era altissimo”. Mustafa Abdi, sindaco di Kobane, partecipa al meeting Unity in Diversity organizzato dal Comune di Firenze. La sua città sta cercando di rialzarsi dopo l’assedio dell’Isis. Il centro è staro ripulito dalle mine; tra mille difficoltà è in corso la ricostruzione di scuole e ospedali. Ma Abdi sa che il peggio non può dirsi passato finché non si troverà una soluzione alla crisi siriana. Così, in questa intervista all’HuffPost, il sindaco della città curda torna a proporre l’autonomia democratica del Rojava come “terza via” per porre fine all’inferno siriano.
Cosa vuol dire ritrovarsi a governare una città sopravvissuta all’assedio di Daesh?
Ci siamo ritrovati con una città distrutta per l’80%. Case, scuole, strade, ospedali… la furia jihadista si è abbattuta su tutto. E ha continuato a farlo anche dopo: i jihadisti avevano lasciato mine e bombe ovunque. Molti civili sono morti anche dopo la liberazione. La gente tornava a casa e ci trovava una bomba. Abbiamo dovuto creare una zona protetta, sminata, come punto di raccolta in attesa che tutte le strade venissero pulite.
P< strong>ulite dalle mine lasciate dall’Isis?
Non solo. Intendo pulite dalle macerie. E dai cadaveri. C’erano tanti morti sotto le macerie. D’estate il rischio epidemia era altissimo: abbiamo dovuto bonificare tutte le strade. Siamo partiti dagli aspetti basilari: garantire un posto sicuro in cui stare, fornire pane e acqua potabile. Ora, passo dopo passo, andiamo avanti con la ricostruzione.
Da cosa si parte?
Abbiamo iniziato dai luoghi pubblici, ospedali e scuole soprattutto. A Kobane ci sono molti bambini. Mandarli a scuola è fondamentale, anche per garantire loro più sicurezza. A partire dal 20 settembre è stato istituito un comitato per la ricostruzione con l’incarico di progettare e attuare i lavori. Chiaramente c’è tantissimo da fare: solo nella parte centrale della città, quella che abbiamo già messo in sicurezza, sono state rimosse un milione e 300mila tonnellate di macerie. In questa zona già ripulita abbiamo in programma di costruire 1.300 case da zero, destinate soprattutto alle famiglie e ai poveri. Per ora abbiamo costruito sette scuole nel centro, oltre a quelle nei villaggi. La strada, però, è ancora lunga: in molti villaggi c’è ancora il rischio mine e ci vorrà del tempo per dare una scuola a ogni villaggio. In tutto ciò, bisogna far ripartire l’agricoltura, che è il pilastro dell’economia di Kobane. Nel 2014 l’avanzata dell’Isis ha impedito ai contadini di seminare, così quest’anno non c’era grano da raccogliere. Ora stiamo cercando di dare ai contadini ciò di cui hanno bisogno: i semi, innanzitutto, e l’olio per far funzionare i trattori. Il dramma è che tutto questo lavoro viene fatto sapendo che siamo circondati e sottoposti a un embargo. La Turchia si è dimostrata sorda alla richiesta di un corridoio umanitario per consentire la ricostruzione.
Com’è cambiata in questi anni la popolazione di Kobane – tra accoglienza, fughe, stragi, ritorni?
Bastano pochi numeri per darle un’idea. Prima dell’inizio della guerra in Siria a Kobane vivevano 300mila persone, più i villaggi intorno. Quando è cominciata la guerra molte persone si sono spostate dal sud della Siria e sono venute a Kobane. Abbiamo accolto arabi siriani, armeni, alawiti, fino a diventare più di 500mila. L’attacco a Kobane ha fatto fuggire l’80% di questi 500mila. Alcuni si sono fermati al confine, altri hanno raggiunto le loro famiglie curde in Iraq. Durante l’assedio 5mila civili non hanno mai lasciato Kobane.
Qual è, secondo lei, la lezione di Kobane e più in generale del Rojava?
Fin dall’inizio abbiamo lanciato una soluzione politica, una terza via per uscire dalla guerra. Abbiamo detto no sia al regime che all’opposizione, visto che entrambe le parti si rifiutano di riconoscere la nostra esistenza. Su questo l’opposizione ha la stessa mentalità del regime: ancora oggi non vuole riconoscere i curdi. Il nostro progetto invece è per l’autonomia democratica, una prospettiva di convivenza pacifica e riconoscimento di popoli, etnie e diversità.
In cosa consiste il vostro modello di autonomia democratica?
È una proposta che si basa su tre concetti: convivenza tra i popoli, libertà delle donne e stesse possibilità di vita per tutte le religioni. In Rojava abbiamo costruito questo sistema a partire dal basso, pensandolo come un modello per tutta la Siria. Attualmente ci sono solo tre progetti per la Siria: il regime di Assad, il fondamentalismo di Daesh e la nostra idea di autonomia democratica. Le opposizioni sono divise, non hanno un progetto, vogliono solo la testa di Assad. Noi invece abbiamo un progetto di convivenza dei popoli. Crediamo in questa linea e l’abbiamo difesa. Per noi, vuol dire difendere la vita di tutti.
Che segnali avete avuto dall’Italia?
Dall’Italia abbiamo ricevuto un sostegno molto forte. Abbiamo stretto patti di amicizia con almeno quindici Comuni italiani. La società civile ha organizzato molti progetti: grazie a questi sforzi, stiamo ricostruendo una scuola, un ospedale e l’accademia delle donne. C’è un forte impegno per il riconoscimento dell’identità curda.
Giulia Belardelli Huffingtonpost