KOBANE DOPO LA LIBERAZIONE: L’ALTRA RESISTENZA “INVISIBILE”

di Suveyda Mahmud – Tanti sono i volti, le parole, gli odori e i sentimenti che si incontrano camminando per le strade di Kobane. Raccontarli è estremamente complicato perché qui tutto lo è, dai più normali bisogni quotidiani come mettere insieme il pranzo con la cena fino ad avere dell’acqua o la corrente elettrica. La ricostruzione di una città totalmente sventrata, devastata e avvolta da una perenne nube polverosa, pare quasi impossibile. A quattro mesi della liberazione di Kobane, avvenuta lo scorso 26 gennaio dopo mesi di strenua resistenza contro le armate dello Stato Islamico, la vita però pare pian piano riempire nuovamente queste vie. Lo testimoniano le tante attività commerciali riaperte, le ruspe ed i camion arrivate dalle municipalità curde del Bakur (Kurdistan turco) che continuamente cercano di ripulire pezzi di città, le scuole con grandi buchi nelle pareti affollate di migliaia di bambini che ti corrono incontro saltandoti al collo per avere un abbraccio. Queste scuole che nonostante i buchi alle pareti hanno riaperto, questi bambini che hanno ricominciato ad andare a scuola con poche penne e pochi quaderni, tutto ciò che hanno è nelle loro mani, eppure sono contenti. E’ complicato raccontare, ma bisogna farlo. E’ necessario. Guardandoli negli occhi ti rendi conto di come il sacrificio di chi ha combattuto ed è morto “per tutta l’umanità”, meriti che il mondo conosca queste storie, così come chi ha avuto la forza ed il coraggio di ritornare a vivere a Kobane meriti il supporto e l’aiuto di tutti e tutte.

A qualche chilometro dal centro città, una delle prime case che incontri subito dopo il confine turco si trova sulla cima di una dolce collinetta dove sventola consumata dal vento una bandiera delle YPG. Dentro un vecchio pastore indica appese al muro le foto di due giovani, un ragazzo ed una ragazza. Sono i suoi figli e basta una gesto per capire che i daesh gli hanno tagliato la testa. Nonostante l’unica fonte di luce provenga da una piccola torcia appoggiata a terra, non serve altro per vedere i suoi occhi riempirsi di lacrime.

In città praticamente tutti hanno perso nella guerra almeno un componente della propria famiglia. Lo testimonia il cimitero della città costruito subito dopo la fuga dell’ISIS e già pieno, così come le tante foto dei martiri appese ai muri crepati di alcune case quasi intatte, miracolate in mezzo ad uno scenario di morte fatto di piloni di cemento spezzati e saracinesche piegate. In questo luogo il riprendere della vita sembra impossibile, se non fosse che con una “strana” normalità si continua ad andare avanti. La gente di Kobane continua a combattere, non ha altra scelta. I fucili hanno lasciato spazio agli attrezzi di lavoro, alle motorette, ai piccoli negozi di alimentari e di vestiti, alle pasticcerie e ai luoghi di ristoro. Hassan gestisce insieme ad altri ragazzi un piccolo “ristorantino” molto spartano. Fuori i polli che beccano, sfiorati dalle fiamme, dentro un lungo bancone con verdure tagliate ed una griglia con qualche spiedino che sfrigola. Ai pochi tavoli puoi trovare gente del luogo, alcuni medici con ancora indosso i camici che prendono un attimo di respiro dal loro lavoro portato avanti tra tante difficoltà, ed anche i pochi internazionali e giornalisti presenti in città. Mentre sul retro un rumoroso generatore borbotta per dare elettricità al negozio, Hassan racconta di essere a tornato a Kobane da qualche mese, di andare avanti tra mille difficoltà ma di non voler andare via di nuovo. Così come Hawar, un bimbo di soli sette anni che parla come un grande, e dice che anche se si dorme sotto le tende o nelle strade di Kobane distrutte, non vuole lasciare la propria terra, si inginocchia e la bacia, la sua terra.

Cosa può esserci di peggio? Chi ha perso i propri cari, la casa e tutto ciò che possedeva, chi è tornato nonostante tutto cercando di ricominciare, non dovrebbe essere costretto nuovamente a scappare e a lasciare la propria terra, riconquistata versando lacrime e sangue, perché la comunità internazionale continua ad assistere ancora troppo passivamente a quello che capita da queste parti. Il sacrificio di chi qui è morto e di chi qui invece vuole vivere, non deve essere vano. Rompere l’embargo turco che di fatto non consente il passaggio di aiuti e convogli umanitari verso Kobane è urgente, e stare a guardare non aiuterà gli abitanti di Kobane. Di certo c’è che da queste parti non hanno nessuna intenzione di arrendersi. L’amore, l’umanità e l’ospitalità della gente di Kobane ti fa credere che tutto sia possibile, che un mondo costruito sui principi di uguaglianza, fratellanza a pace forse è già iniziato. Se guardi negli occhi i bambini e le bambine di Kobane capisci che qui l’ISIS non vincerà mai.

di Suveyda AMhmud, European Affairs, luglio 2015