Il piano di Erdoğan per trasformare la Turchia

Egemonia turca: il piano del presidente Erdoğan per trasformare la Turchia nell’hub di distribuzione dei combustibili fossili tra Europa e vicino oriente.
I numeri del disastro umanitario in Siria sono sconvolgenti. Mezzo milione di morti. Milioni di profughi. E nessuna via di fuga. Il 2017 sembrava avviarsi a una risoluzione in tempi brevi del conflitto, ma nel 2018 la situazione è precipitata di nuovo. Ma rispetto al passato inizia a delinearsi un chiaro, problematico vincitore: la Turchia.

La guerra civile in Siria inizia nel 2011, sull’onda della cosiddetta “Primavera Araba”. Il movimento siriano chiedeva la deposizione di Bashar al-Assad e del suo governo, e gli scontri si intensificarono fino a svoltare verso lo scontro armato. Una delle fazioni anti-regime coinvolte è l’Esercito Siriano Libero (FSA), che di lì a poco trova l’appoggio dei Fratelli Musulmani, un gruppo politico bandito dalla Siria dopo la rivolta contro il regime Baathista. Dal 1980 l’affiliazione ai Fratelli Musulmani in Siria è punibile con la morte. Nell’area politica medio-orientale, ci sono solo due paesi che appoggiano i Fratelli Musulmani, Qatar e Turchia.

Le posizioni notoriamente anti-israeliane di Assad obbligano gli Stati Uniti a intervenire in favore dei ribelli, ma la vicinanza del FSA ai Fratelli Musulmani – e la presenza dello Stato Islamico di Levante (ISIL) – spinge gli americani a dare il proprio supporto all’Esercito Democratico Siriano, un gruppo multietnico a maggioranza curda guidato dall’Unità di Protezione Popolare (YPG). La comunità curda residente nel nord dell’Iraq era stata per anni sotto la protezione americana durante il regime di Saddam Hussein, i curdi erano quindi un partner affidabile. Ma la decisione, corretta sul piano tattico vista l’avanzata dell’ISIL nella regione curda del Rojava nel nord del paese, irrita il governo turco.

La persecuzione del popolo curdo inizia sotto l’Impero Ottomano, e il nazionalismo turco dei primi anni del ‘900 ha portato a stragi di civili molto prima della formazione del PKK, il Partito Curdo dei Lavoratori, fondato da Abdullah Ocalan nel 1978 e della lotta armata iniziata nel 1984, o delle accuse rivolte dalla comunità internazionale al governo turco di violazione dei diritti umani, crimini contro l’umanità e genocidio in epoche ancora precedenti.

Con l’appoggio americano, le forze curde si mobilitano per liberare il nord del paese. Il cantone di Kobane è il teatro di battaglia più noto, la lotta per la liberazione della città viene seguita dai media di tutto il mondo: gli scontri, iniziati nel settembre 2014 e coadiuvati dal supporto aereo americano durano mesi e i combattenti curdi diventano “eroi della resistenza” contro l’avanzata dell’estremismo islamico. I violenti scontri spingono i civili a cercare riparo oltreconfine – vista l’insicurezza nel centro della Siria –, mentre il governo turco impedisce alla popolazione curda residente in Turchia di offrire supporto alle milizie curde. Questa decisione provoca proteste e manifestazioni, a cui il governo di Recep Erdogan risponde con la repressione, esacerbando la situazione e portando ad attentati nei confronti di alcuni membri delle forze dell’ordine turche, attentati in seguito rivendicati da gruppi più o meno vicini al PKK. Questo segna la fine della tregua tra Turchia e curdi.

La battaglia per la difesa e la riconquista di Kobane si chiude nel febbraio 2015 con la vittoria curda, ma nel giugno dello stesso anno, in seguito a una serie di sconfitte subite dal YPG, lo Stato Islamico rilancia l’offensiva. Fonti siriane dichiarano che le truppe islamiste sono rientrate a Kobane attraversando il confine turco. La Turchia nega, pur confermando che circa 30mila degli oltre 400mila rifugiati hanno fatto ritorno nella città dopo la sua liberazione.

Nel settembre 2015 la Russia entra nel conflitto siriano su richiesta esplicita del regime, e inizia a bombardare le postazioni dell’ISIL nel nord della Siria. Approfittando della situazione, le bombe iniziano a cadere anche sulle altre forze che si oppongono a Bashar Al-Assad nel nord della Siria, ovvero FSA e YPG. In risposta, il governo americano guidato dall’allora presidente Barack Obama rinnova il programma di armamento e addestramento degli alleati curdi e arabo-siriani, coloro che avevano combattuto più duramente nella guerra contro Daesh e che dovevano diventare la “forza di sicurezza di confine”. Nel caos di una potenziale guerra per procura tra le due superpotenze, la Turchia abbatte un aereo russo accusato di aver violato lo spazio aereo turco e un elicottero di salvataggio. Le relazioni tra Turchia e Russia rimangono tese per alcuni giorni, ma le due parti decidono che non ci sarebbero state ripercussioni.

Anche perché Russia e Turchia avevano legami commerciali troppo importanti per permettere a un semplice aereo abbattuto di incrinare i rapporti. La Russia è il maggior esportatore di gas in Europa e la via più diretta passa attraverso l’Ucraina, un passaggio problematico perché lo stato ucraino vive in uno stato di crisi degenerato nel 2013 – una fase che ha portato all’invasione e annessione per via referendaria della Crimea alla Russia e al sostegno ai separatisti pro-Russia che hanno preso il controllo della regione del Donbass. Il cessate il fuoco del 2015 non è mai stato rispettato.

Per aggirare l’ostacolo ucraino, già dal 2012 è attivo il “Nord Stream” , che trasporta gas russo in Germania attraverso il Mare del Nord. Un secondo progetto prevedeva un canale sottomarino nel Mar Nero per aprire una via a Sud, un gasdotto che avrebbe “attraccato” in Bulgaria e avrebbe raggiunto l’Austria via terra, oltre a un potenziamento di Nord Stream per raddoppiarne la portata, approvato dal governo tedesco in via definitiva pochi giorni fa con l’inizio dei lavori previsto nel 2019. Il progetto “Sud Stream” viene annullato e nel 2014 viene negoziato un accordo con la Turchia per il “TurkishStream”, un gasdotto che si sarebbe unito al Gasdotto Trans-Anatolico (TANAP), la cui costruzione sarebbe cominciata nel 2015.

Il TANAP vorrebbe sfruttare la riserva di gas nella zona del Mar Caspio, in Azerbaijan, che dovrebbe raggiungere l’Europa attraverso il Corridoio Sud del Gas (nella sua nuova versione). L’accordo tra il leader turco, Erdoğan, e quello azero, Aliyev, risale al 2012, e i lavori sono terminati ufficialmente poche settimane fa. Sono già stati eseguiti alcuni test, e la sua messa in funzione è prevista per il prossimo luglio. Secondo il progetto, a partire dal confine tra Grecia e Turchia dovrebbe partire il Gasdotto Trans-Adriatico (TAP), che dovrebbe raggiungere la Puglia. L’impianto dovrebbe essere funzionante nel 2020, ma i lavori sono in ritardo a causa delle proteste dei cittadini italiani per l’impatto ambientale e gli effetti che avrebbe sulla coltivazione degli ulivi.

Il TANAP/TAP è fondamentale per il posizionamento turco nello scacchiere europeo. Come dimostrano fonti russe rese pubbliche nel dicembre 2015 – casualmente poco tempo dopo l’abbattimento dell’aereo russo per violazione dello spazio aereo turco – l’interesse turco nel conflitto siriano era inizialmente legato ai traffici illegali di petrolio con l’ISIL. Il controllo delle risorse energetiche è sempre stato la principale fonte di finanziamento di Daesh, e gli impianti turchi ora lo distribuivano – dietro compenso. Ma questo traffico non poteva essere sostenibile. La costruzione del gasdotto azero dava credito alla volontà di differenziare le fonti energetiche per diminuire la dipendenza dal gas russo, che in passato aveva prodotto non pochi problemi. Ma la costruzione di TurkishStream e le successive rivelazioni sui traffici tra governo turco e Daesh hanno portato al dialogo, e a un rapido accordo fra le due parti: l’approvazione di un TurkishStream 2 e l’utilizzo del TAP per distribuire il gas russo in Europa con una seconda linea di condutture a carico della Russia – un’azione alla quale l’Europa non può opporsi.

Contemporaneamente, l’Europa è sempre più in crisi e attraversata da forti correnti populiste, xenofobe e appelli alla sicurezza e al “pericolo rifugiati”. Nel 2016 l’UE, spaventata dai risultati elettorali degli stati membri (le basi costituzionali del referendum sulla Brexit vennero poste nel maggio 2015, in seguito alla vittoria dei partiti anti-europeisti alle elezioni di qualche mese prima), stringe un accordo con la Turchia. La Grecia, per ragioni geografiche, potrà ricacciare in Turchia i migranti irregolari ai suoi confini. In cambio, gli stati membri dell’Unione aumenteranno i fondi per supportare il re-insediamento dei migranti in Turchia e il supporto economico già esistente per i rifugiati turchi, oltre a velocizzare le pratiche per i visti di cittadini turchi che visitano l’Europa. L’operazione costerà all’UE oltre 3 miliardi di euro. La somma dovrà essere versata direttamente nelle casse governative.

L’accordo è paradossale: l’Europa ha speso decenni a costruirsi un’immagine di apertura e accoglienza e adesso paga di tasca propria essenzialmente per tenere i richiedenti asilo fuori dai propri confini. L’accordo sui rifugiati di fatto priva l’Europa e i suoi stati membri di qualsiasi rilevanza politica ed economica nella questione medio orientale, come dimostra quanto avvenne nel marzo 2017: gli stati membri litigavano sui fondi necessari a finanziare gli oltre 3 miliardi promessi, ritardando il pagamento. E la Turchia fece sapere che senza soldi l’accordo sarebbe stato annullato. E proprio qualche settimana fa, l’UE ha stanziato altri 3 miliardi per completare l’accordo, ma Euronews rivela che il 38% della prima rata non è stato ancora pagato.

Con l’elezione di Donald Trump, il ruolo degli Stati Uniti nello scenario siriano cambia. Le truppe americane rinnovano l’impegno al fianco degli alleati curdi contro lo Stato Islamico, e il governo turco lancia l’operazione “Scudo dell’Eufrate” in supporto del FSA, in affiancamento agli americani. L’azione dovrebbe creare una zona “ISIL Free” di 100 kmq. all’interno della Siria e a ridosso del confine turco, ovvero in piena zona di controllo curdo. E se l’obiettivo dichiarato è Daesh, la zona cuscinetto mina il controllo delle “forze di sicurezza di confine” e la de facto autonomia curda nella zona. L’operazione turca viene gestita in modo tale da creare una spaccatura nella zona di influenza di curda, isolando il cantone di Afrin rispetto a quello di Kobane.

Il peso politico e diplomatico degli Stati Uniti è molto ridotto, anche a causa delle presunte interferenze russe nelle elezioni americane in supporto allo stesso Trump. Ne è la prova la guida russa, in un’alleanza con Turchia e Iran, delle trattative di pace – fallite. Nel 2017 l’ISIL viene dichiarato definitivamente sconfitto – anche se esistono ancora sacche di resistenza. L’intervento russo ha danneggiato il traffico di combustibili fossili che finanziava le operazioni militari degli estremisti. Ma nell’autunno dello stesso anno la Turchia annuncia un’operazione militare contro Afrin. Il presidente Erdoğan giustifica la decisione sostenendo la presenza di gruppi terroristici nel Rojava – il riferimento è al YPG, responsabile della sicurezza del confine settentrionale e, secondo il presidente Erdoğan, affiliato al PKK.

La Turchia lancia l’operazione “Ramo d’Ulivo”, sfonda le difese curde e si avvicina ad Afrin, città sotto il controllo del YPG. Le forze turche sono affiancate da vari gruppi che in precedenza facevano parte di al-Qaeda, Daesh e dalle frange più estreme del Fsa. Gli appelli internazionali a una tregua, a sanzioni per la Turchia o a qualsiasi altra azione di contrasto al tentativo di pulizia etnica turco, cadono nel vuoto. La rete di accordi strategici e commerciali intessuta dalla Turchia con la Russia assicura il supporto dell’alleato Putin, e per estensione di Bashar al-Assad, mentre UE e Stati Uniti rimangono spettatori impotenti.

Le tempistiche dell’operazione non sono casuali: nell’incontro tra i ministri della difesa di Turchia e Russia del 18 gennaio a Istanbul la Russia concede agli aerei turchi di entrare nello spazio aereo del cantone di Afrin, da cui la Russia ritira le truppe il 20 gennaio. Il 22 gennaio arriva l’autorizzazione per TurkishStream 2, raddoppiando quindi la quantità di gas trasportata da Gazprom, con Afrin già sotto le bombe turche. La Turchia ha anche esortato il governo iracheno ad agire contro la comunità curda nel nord del paese, nella zona di Erbil, o saranno le truppe turche a farlo una volta terminato il lavoro nel resto della Siria. Lo stesso presidente turco ha detto domenica 25 marzo che sono già iniziate le operazioni militari in territorio irakeno (invasione peraltro già verificatasi con l’incursione dello scorso agosto ) ma quel giorno stesso il comando militare smentisce il capo di stato. Difficilmente l’esercito di Erdoğan si fermerà, almeno fino a quando i curdi non saranno ricacciati oltre l’Eufrate, ma le recenti dichiarazioni lasciano pensare a mire espansionistiche e sogni di un revival dell’impero Ottomano.

Inoltre, l’attacco turco su Afrin ha ridato vita all’estremismo islamico in tutta la Siria. Da una parte, le forze arabo-curde che affiancavano l’esercito americano contro Daesh fuori dal Rojava sono state richiamate per difendere la regione dall’attacco turco. Dall’altra, la presa di Afrin ha dato un appoggio logistico agli estremisti, che hanno ripreso immediatamente l’offensiva verso l’interno della Siria, e il primo obiettivo è stato un grande pozzo petrolifero nella provincia di Deir Ezzor. La Global Yazda Organization denuncia inoltre abusi nei confronti delle donne Yazdi rimaste intrappolate ad Afrin, obbligate dai jihadisti a indossare l’hijab e a imparare testi religiosi islamici, un’imposizione rispetto al credo tradizionale yazidi.

Grazie alla strategia messa in atto da Recep Erdoğan, lo snodo turco diventa il più importante crocevia energetico tra Europa e oriente, e la potenza militare ed economica turca nella zona non può essere sottovalutata. La Russia dipenderà, in parte, dal TANAP/TAP per la vendita del gas, l’UE per riceverlo, e il governo turco si è già mosso per controllare il trasferimento di gas dai giacimenti scoperti in Azerbaijan, Iraq, Iran e Cipro, come dimostrano le navi da guerra inviate per fermare le ricerche dell’italiana Eni. In pochi anni la Turchia, sfruttando una serie di debolezze e interessi degli altri stati, ha convinto la Russia a non intervenire in favore di una forza che si oppone al regime alleato di Assad, a guadagnare una posizione di forza nei confronti dell’UE grazie alle paure sui migranti e a sfruttare le decisioni erratiche di Donald Trump per mantenersi parte del blocco NATO mentre stringeva un’alleanza con il primo avversario degli USA. Il nuovo Segretario di Stato americano, Mike Pompeo, è noto per le sue posizioni anti-islamiche, il nuovo Consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton ha posizioni anti-iraniane, anti-internazionaliste, è da sempre favorevole all’intervento armato come prima risposta e nel mese di gennaio, in un’intervista a FoxNews, ha dichiarato che il governo Iracheno è filo-iraniano e ha definito i curdi una milizia armata di stampo marxista.

L’ultimo ostacolo all’egemomia turca nel medio oriente è l’utopia curda basata su socialismo, multietnismo, uguaglianza di genere e di religione, confederalismo democratico e democrazia diretta. Una rivoluzione sostenibile, e che si opporrebbe militarmente alle mire imperialistiche di Erdoğan. Per portare a compimento il lavoro di questi anni, la ribellione deve essere estirpata.

di Sergio Vivaldi, Dinamopress