Ieri Pretoria, oggi Ankara?

Alla vigilia del processo a Parigi per l’uccisione di tre militanti curde, si ripropone la questione della violenza di Stato

La militante antiapartheid Dulcie Septembre venne assassinata a Parigi il 29 marzo 1988 (in quanto esponente dell’African National Congress) da una squadra della morte composta da uomini dei servizi segreti sudafricani e da mercenari. Un delitto di Stato rimasto impunito.

Accadrà così anche per il triplice assassinio di tre militanti politiche curde uccise, sempre a Parigi, il 9 gennaio 2013?

O invece, come ci auguriamo sinceramente, almeno sulla morte di Sakine Cansiz, Fidan Dogan e Leyla Saylemez verrà fatta luce?

Dopo l’assassinio di Dulcie Septembre (all’epoca stava indagando su un traffico di armi tra Parigi e Pretoria, si parlò anche di materiale nucleare), emersero ipotesi inquietanti come la possibile complicità dei servizi francesi, in particolare di una fazione ostile a Mitterand che aveva tolto l’ANC dalla lista delle organizzazioni terroriste. Viene spontanea un’analogia con il sostegno al popolo curdo espresso, se pur tiepidamente, da Hollande, che aveva anche incontrato almeno una delle tre donne assassinate.

L’inizio del processo è previsto per il 23 gennaio 2017 a Parigi. La conclusione è prevista entro il il 24 febbraio. Unico imputato per ora è un giovane turco, Omer Guney, infiltratosi nelle organizzazioni curde e che venne arrestato dopo oltre due mesi (il 13 marzo 2013). Ma i compagni delle tre vittime non hanno dubbi: il triplice omicidio è stato commissionato dal Mit, i servizi segreti turchi. Anche perché, secondo le organizzazioni curde, negli ultimi tempi sarebbero almeno 25 i militanti politici (libanesi, tunisini, palestinesi e tamil) la cui uccisione in Francia andrebbe considerata come omicidio di Stato. Tutti crimini rimasti irrisolti e quindi impuniti, soprattutto per quanto riguarda i mandanti.

Con questi omicidi si intendeva ottenere un duplice risultato: intimidire, scoraggiare i militanti e contemporaneamente vanificare ogni tentativo di soluzione politica, ogni processo di pacificazione e di ripristino della democrazia.

Finora soltanto la mobilitazione delle donne e degli uomini curdi, non solo in Francia naturalmente, hanno impedito che il caso delle tre donne assassinate nel gennaio 2013 venisse archiviato. Ogni anno, in occasione dell’anniversario, decine di migliaia di persone si sono radunate per intere settimane nella capitale francese e davanti alle ambasciate dell’Esagono in tutta Europa chiedendo la soluzione per tutti i casi di omicidi politici perpetrati in Francia, per la condanna effettiva dei colpevoli e soprattutto per l’individuazione dei mandanti.

Le indagini finora svolte appaiono viziate da una serie di “incidenti”. Tra gli altri, un furto nell’abitazione del giudice competente, che si è concluso con la scomparsa del computer con la documentazione relativa al caso. C’è poi stata un tentativo di evasione da parte di Omer Guney, che con ogni probabilità godeva di qualche appoggio esterno. Dagli atti del processo sembra comunque emergere con chiarezza che il presunto colpevole era quantomeno in contatto con i servizi segreti turchi.

Nel nostro paese, l’Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia (UIKI) ha lanciato «un appello affinché alle udienze siano presenti osservatrici e osservatori internazionali» (per partecipare o mandare adesioni, http://www.uikionlus.com/appello-per-costituire-delegazioni-di-osservatr…).

Un appello rivolto a tutti coloro che ritengono irrinunciabili valori come pace, democrazia, giustizia e libertà. Lo scopo è quello di «portare a Parigi la nostra richiesta di verità e giustizia», facendo in modo che non sia possibile ignorarla. Un monito per gli assassini, per le squadre della morte, per impedire il ripetersi di simili atrocità. Contro l’abuso di potere da parte degli Stati, contro il terrorismo di Stato, contro l’impunità finora garantita a questi criminali.

Riempire l’aula del tribunale, seguire ogni udienza del processo, assume un significato ben preciso: mostrare che Sakine, Fidan e Leyla non sono state dimenticate e che i curdi non perdoneranno questo ennesimo crimine contro il loro popolo.

Il 25 novembre – Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne – un messaggio importante indirizzato “a tutte le donne in lotta” è arrivato dal carcere di tipo F di Kandira: Ayla Akat, portavoce del KJA (Congresso delle Donne Libere), incarcerata per aver protestato dopo l’arresto dei co-sindaci di Amed, ha scritto: «la storia delle sorelle Mirabal (tre sorelle dominicane assassinate il 25 novembre 1960 per la loro opposizione al dittatore Trujillo, ndr) è la ragione per la quale ci ritroviamo insieme e rafforziamo la nostra lotta».

E proseguiva: «Sappiamo bene che la storia delle sorelle Mirabal avviene in diverse parti del mondo e la verità che emerge dal dolore che patiscono è la ragione per la nostra mobilitazione, la ragione per la quale ci ritroviamo insieme e rafforziamo la nostra lotta».

Ha poi sottolineato che le donne del KJA, non possono «concepire il 25 novembre, una giornata di lotta e solidarietà, separatamente dalla realtà della dittatura, dell’incarcerazione di politici e politiche, dalla realtà dei parenti dei prigionieri politici e dalle realtà dello stupro e del femminicidio che vedono i corpi delle donne come uno spazio da occupare, governare, ridurre al silenzio e massacrare». E Ayla Akat così concludeva: «la lotta non può essere limitata a un solo giorno, settimana o mese; tutti i giorni saranno il 25 novembre fino a quando la violenza sulle donne non avrà fine».

di Gianni Sartori