Ieri Kobânê, oggi Afrin
A tre anni dalla liberazione di Kobânê, la rivoluzione del Rojava è nuovamente sotto attacco nel cantone di Afrin. L’invasione turca si scontra con la forza delle idee e dell’auto-determinazione dei popoli del Kurdistan.
Solo qualche mese dopo l’annuncio da parte delle Unità di Difesa Ypj della liberazione della capitale dello Stato Islamico Raqqa, dove migliaia di donne erano state tenute prigioniere come schiave sessuali, i fondamentalisti ultra-religiosi – sotto il comando del presidente turco Erdogan – cantano ora slogan da fanatisti accompagnati da bizzarre cerimonie e rituali pre-guerra ottomani, prima di entrare sul campo di battaglia in Siria. La parte secolare e nazionalista della politica turca, quella che si definisce moderna, non ha mancato di glorificare l’operazione Ramoscello d’Ulivo con tutte le miticizzazioni tipiche del militarismo fascista.
Nonostante gruppi jihadisti come Isis e Al-Qaeda siano stati per anni autori di decapitazioni, crocifissioni e di stupri di gruppo, la Turchia non è mai sembrata preoccupata per “il terrorismo lungo i propri confini”. Tutti gli sforzi per rendere pubblici gli aiuti militari, logistici e politici che la Turchia ha messo in campo per l’Isis hanno sempre trovato orecchie da mercante, anche quando Erdogan non era in grado di trattenere il suo entusiasmo per la possibile caduta della città di Kobânê alla fine del 2014.
È ancora una volta chiaro che l’esperimento democraticodella Federazione della Siria del Nord, che è cominciato con la Rivoluzione del Rojava nel 2012, è una chiara minaccia per le forze fasciste e reazionarie che governano in Turchia. In poche parole, Erdogan è intenzionato a finire quello che l’Isis non è riuscito a fare, ovvero annichilire le legittime aspirazioni di auto-determinazione dei popoli del Nord Siria, impedendo quindi di creare un’alternativa in Medio Oriente basata su solidarietà, giustizia e libertà.
Una settimana dopo l’inizio dell’operazione le forze armate turche, a farne principalmente le spese sono i civili. Il paradosso è che nei media turchi, ma non solo, le violazioni delle leggi internazionali sono definite “guerra per la democrazia, la fraternità e la pace”. A questa definizione viene accostata quella coniata da Bush all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle: la “guerra al terrore”, usata ampiamente per giustificare i morti civili agli occhi della società turca e del mondo intero, facendo passare l’operazione come un qualcosa di necessario, atto a proteggere la Turchia e i suoi confini da attacchi terroristici e per difendere la sovranità nazionale.
In verità, l’invasione è guidata dalla stesso Stato che imprigiona bambini, attivisti, sindaci e deputati legalmente eletti, giornalisti, avvocati, insegnanti. Insomma, tutti coloro che chiedono pace, non guerra. I fatti sono contorti, le leggi sospese. Un altro crimine è commesso davanti agli occhi ciechi del mondo.
Il detto curdo « nessun amico se non le montagne » viene spesso usato riferendosi agli innumerevoli massacri, alle ingiustizie e ai tradimenti subiti dai popoli del Kurdistan nella sua storia. Dispersi tra quattro dei più importanti Paesi del Medio Oriente e costantemente minacciati da tendenze genocide da tutte le parti, questa espressione risuona di vivida esperienza più di quello che dovrebbe.
Questo detto rispecchia il fatto del perché i curdi non potranno mai fidarsi di altri stati per supportare i loro sogni di libertà e giustizia. La recente cooperazione tattica con Russia e Stati Uniti in Siria è stata smascherata nell’assalto turco ad Afrin di questi giorni e non è altro che una parte di un gioco imperiale ed imperialista, con entrambe le potenze chiaramente più disposte a sacrificare le vite di milioni di persone piuttosto che mettere a rischio i loro interessi geopolitici. Il movimento curdo ha agito essendo al corrente di questo, pertanto al momento del “tradimento” le sue strutture autonome, basate sull’auto-organizzazione, non si sono dissolte ma, invece, prevalgono. La popolazione di Afrin è oggi pronta a difendersi contro qualsiasi attacco.
Èchiaro che i popoli del Medio Oriente possono contare solo sui loro sforzi per mobilitare il potere popolare e la solidarietà internazionale. In tutto il mondo attivisti e curdi hanno nuovamente occupato le strade per protestare contro la guerra globale alla loro lotta per la libertà. Le proteste e sollevazioni durate per mesi giocarono un ruolo fondamentale nella questione di Kobânê e alla sua vittoria nel gennaio 2015. Le richieste delle proteste di questi giorni non riguardano solo la fine dei bombardamenti e degli attacchi militari al cantone di Afrin, ma chiedono inoltre la fine della vendita di armi alla Turchia e l’inizio di un vero processo di pace in Siria.
Nello “spirito di Kobânê”, a tre anni dalla sua liberazione, è cruciale mobilitare la solidarietà per Afrin. Non si può assolutamente contare su quegli Stati che si ergono a portatori di pace e giustizia. Persone comuni,
oppressi, attivisti, resistenti sono coloro che devono stare fianco a fianco in questa nuova lotta. Come centinaia di migliaia di persone da tutto il mondo sono scese in strada, nelle manifestazioni, occupazioni e proteste del 2014 per la difesa di Kobânê dal fascismo di Daesh, il movimento di liberazione curdo, le Ypg e Ypj, le SDF e tutte le forze democratiche e progressiste della Siria e del Medio Oriente si affidano alla forza della solidarietà internazionale in questo pericoloso momento storico.
La vittoria della rivoluzione in Rojava e in Nord Siria dimostra praticamente che la lotta non consiste meramente nell’uso delle armi, ma nella radicale rottura con il fascismo e con tutta quell’intelaiatura sociale che lo rende possibile.
E per questo, ora sono sotto attacco un’altra volta.
Tre anni fa l’attenzione internazionale era sintonizzata sugli sviluppi della straordinaria vittoria della resistenza curda a Kobânê, oggi manca il codazzo delle tifoserie, manca la precipitosità dei media per accaparrarsi gli scoop, ma ciò che non è cambiato è la volontà dei popoli della Siria del Nord di lottare contro chi li sta attaccando prima facendo pressione sui confini, fallendo negli intenti, poi con bombardamenti aerei.
Il nemico di Kobânê era il terrorismo nero e tagliagola di Daesh, il nemico di Afrin è la spinta nazionalista della Turchia.
« Noi siamo come un canto di pace, un canto di libertà », così dice Egît – Dûr neçe heval – uno dei canti più popolari tra le fila dei combattenti curdi. Ad Afrin c’è un canto incredibile armonizzato dall’esigenza e dall’urgenza di reagire e contrastare il nuovo nemico.
E combattere la Turchia, vuol dire difendere la libertà.
di Anna Irma Battino, Marco Sandi, Global Project