Frammenti di Kurdistan

Pubblichiamo qui di seguito i link per scaricare un EBOOK che contiene le interviste raccolte dagli inviati d’infoaut in Bakur durante le ultime elezioni in Turchia, nell’ottobre scorso. Un modesto contributo, uno strumento per chi come noi sta cercando di capire cosa succede in quella parte di medio-oriente, delle conversazioni che sono già memoria e che mettiamo a disposizione per tutti quelli che continueranno ad indagare e conricercare da quelle parti.
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INTRODUZIONE

Frammenti di Kurdistan Infoaut.orgCiò che segue è una raccolta di interviste realizzate in Turchia e nel Kurdistan turco (Bakur) nell’ottobre 2015. L’evolversi repentino e drammatico degli eventi rende queste testimonianze, in alcune loro parti, già storicizzabili; e diverse tra esse, del resto, sono già state pubblicate in reportage separati sul tema della resistenza armata, dei profughi e delle violenze dello stato islamico in Iraq, o dell’elaborazione teorica del movimento curdo, del nesso tra rivoluzione e potere normativo nei territori resistenti o liberati.

Ciononostante, all’inizio di un anno, il 2016, che molto deciderà sulle sorti della rivoluzione curda e sul destino dell’Asia sud-occidentale in genere, crediamo questo contributo complessivo possa avere un valore. La sua realizzazione si è collocata in un momento particolare: dopo la “vittoria” elettorale dell’Hdp del 7 giugno, che bloccò le mire iper-presidenzialiste di Erdogan, dopo l’attacco dell’esercito turco al Pkk in Iraq, nel luglio, e la rottura della tregua di fatto che durava dal 2013; dopo la dichiarazione di autogoverno nei quartieri delle città curde di Turchia proclamata dal Kck in agosto e il conseguente spostamento dell’attacco militare dello stato dentro i confini della Turchia, dentro i quartieri stessi e le città; a pochi giorni dal terribile attentato di Ankara (10 ottobre).

Le interviste che seguono cadevano, inoltre, alla vigilia dell’ultima tornata elettorale, quella del 2 novembre. In esse (soprattutto nelle prime, rivolte a candidate al parlamento) compaiono qua e là previsioni sui risultati, che oggi non possono essere lette che come ottimistici auspici. Sebbene abbia ampiamente retto l’urto di cinque mesi di demonizzazione mediatica e repressione durissima, riuscendo ancora una volta a superare la soglia del 10%, l’Hdp – unione della galassia della sinistra radicale turca e dei principali partiti espressione del movimento rivoluzionario curdo – ha dovuto fronteggiare una schiacciante vittoria del suo nemico, l’Akp, che ha aumentato i suoi voti (a scapito degli ultra-nazionalisti) conquistando la maggioranza assoluta.

Il seguito è stato drammatico, benché la popolazione curda stia vivendo questa nuova fase di guerra come l’ennesima della sua storia, con la convinzione che non sarà né la prima né l’ultima. Dal 4 novembre, cominciando da Silvan, l’esercito e le forze speciali hanno cinto d’assedio i quartieri autogestiti di Nusaybin, Cizre, Silopi, Van, Diyarbakir, Yuksekova, Hakkari ed altre città, uccidendo centinaia di persone (uccisioni giustificate descrivendo ogni vittima – anche vecchi e bambini – come “terroristi”) e perdendo centinaia di soldati e poliziotti sotto i colpi della resistenza, che ha impedito ad oggi (febbraio 2016) al governo di raggiungere qualsiasi risultato concreto sotto il profilo militare, e tanto meno politico.

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Le interviste che seguono sono nude: non sono precedute da analisi, o commenti. Siamo certi che la ricchezza dei temi trattati e, forse ancor più, la varietà soggettiva degli intervistati colmeranno l’interesse sociale e politico del lettore, fermo restando che quello che segue non è che un minimo lavoro pionieristico, un frammento di Kurdistan tra i tantissimi che da decenni emergono dalla galassia della resistenza e della rivoluzione di un popolo che, a causa dei calcoli europei seguiti alla seconda guerra mondiale, non ha mai ottenuto indipendenza istituzionale.

Le difficoltà incontrate sul terreno, per realizzare queste interviste, non sono state poche. Al di là della tensione politica e della repressione ben presente sui territori attraversati, un problema è stato riuscire a far comprendere ai nostri interlocutori, compagni e ospiti i diversi registri che intendevamo intersecare e che, adesso, in qualche modo delineano la “geografia concettuale” segnalata dalla divisione del contenuto in capitoli.
I rappresentanti istituzionali curdi, ad esempio, ci hanno sempre rivolto argomentazioni standard riservate alla stampa estera; e del tutto comprensibilmente, considerata la loro funzione e l’atmosfera da vigilia elettorale. Spesso le nostre guide non capivano perché, tuttavia, accanto all’intervista alla candidata o alla co-sindaca, ci interessasse il punto di vista del funzionario comunale che aveva combattuto sulle montagne, o del suo collega da poco uscito di galera. La verità è che a noi interessa tutto, in primo luogo cercare di percepire la temperatura politica soggettiva di territori tanto amati e talvolta mitizzati, quanto da noi poco conosciuti.

Qualcuno ha sorriso quando abbiamo insistito per intervistare un ragazzo di Diyarbakir che avevamo conosciuto, che non riveste ruoli specifici nel partito, e vive la sua consapevolezza politica da autodidatta. La nostra scelta era dettata da un interesse d’inchiesta politica e conricerca sociale. Le ragazze incontrate al bar o il maestro, che palesemente trovavano un tipo noioso; i frequentatori di locali dall’atmosfera queer, le famiglie disperate dei vicoli di Sur, gli adolescenti inquieti di Cizre con il Kalashnikov in casa, le compagne di Silvan con la cristallina visione della prospettiva politica del movimento; tutti quelli che del movimento hanno messo in dubbio e criticato le scelte: nulla potremmo comprendere, in Italia in Kurdistan o altrove, senza lasciar emergere il soggetto umano immerso nelle sue contraddizioni e in quelle che lo “legano” agli altri – anche quando non le concepisce, eventualmente, come tali.

Quanto segue non è molto, ma è stato già abbastanza (per noi) per intravedere una realtà più complessa delle sue descrizioni occidentali – sicuramente dei media mainstream, ma anche di quelli alternativi, o antagonisti. La varietà dei registri retorici, ma anche dei punti di vista che seguono, sulla situazione attuale (segnatamente in relazione ala dichiarazione d’autogoverno, e alla conseguente guerriglia urbana), mostrano che in Kurdistan non c’è un “popolo” che, magicamente, si solleva contro il male per instaurare il bene, ma una realtà sociale stratificata cui corrisponde una realtà politica divisa e frastagliata, anche all’interno del movimento stesso.

In questo senso il ruolo dei militanti, e dell’organizzazione rivoluzionaria – il Pkk, cui tutti si riferiscono come “ciò che sta in montagna”, o usando il nome di Ocalan a mo’ di sineddoche – appare essenziale. Ben lungi dall’essere un fenomeno totalmente spontaneo, la resistenza curda è un quid in cui alcune persone impongono alla società dei salti in avanti, facendo tutto il possibile per diffondere in essa la consapevolezza che sono necessari, perché restare fermi, in una guerra decennale di liberazione, significherebbe morire. La distanza tra le remore di alcuni intervistati circa lo scontro in atto, e la convinzione di altri circa la sua ineluttabilità e necessità, rimarcano come non vi sia in Kurdistan un fenomeno inspiegabile ed anonimo di esplosione inaspettata, ma una soggettività politica in grado di conquistare la direzione del processo di conflitto attualmente in corso, sia pur tenendo presente che ogni tentativo di sottrarre il potere alla composizione popolare che oggi vuole prenderlo in mano, decreterebbe la sua sconfitta.
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La stessa realtà dell’autogoverno e dell’autonomia democratica ci ha stupiti per la sua riottosità ad inserirsi nelle anguste categorizzazioni ideologiche di alcuni compagni “occidentali”. Il movimento curdo sembra da un lato voler approfondire fino in fondo le ambivalenze del diritto positivo, tanto nazionale quanto internazionale, con un continuo riferimento ai diritti “umani” riconosciuti dall’Onu, al corpus giuridico dell’Unione Europea, alla volontà di non mettere in moto un processo sovversivo nei confronti delle istituzioni turche. Le stesse istituzioni autonome sono spesso costruite facendo convivere delegati istituzionali secondo la legge turca (parlamentari, sindaci, ecc.) con delegati assembleari delle comuni illegali, ma non per questo, per la popolazione, illegittime.

Dall’altro lato, tuttavia, le città in autogestione creano (peraltro non da ora) scuole alternative, programmi di sviluppo economico, persino tribunali popolari e codici penali autonomi. L’autonomia è reale e concreta (più che in ogni altro caso, almeno in quest’epoca e in quell’area) ma al tempo stesso si protegge di un involucro politico, legale e retorico di non belligeranza con le istituzioni esistenti, quasi a volerle ingannare, o a voler ingannare il pubblico mondiale su un progetto che è, nei fatti, sovversivo. Un metodo di azione a lungo termine che ha prodotto risultati impressionanti, con le comunità curde di tre stati (Turchia, Iran e Siria) che si riconoscono ampiamente in questo processo di secessione silenziosa (una secessione non solo o non tanto dallo stato come tale, ma da qualcosa di più radicale: dalla pretesa autorità di qualsiasi stato) e una quarta, quella irachena, che forse per la prima volta nell’anno passato – dalla battaglia per Singal agli scioperi di Suleimaniya – ha cominciato a subire il fascino di un progetto rivoluzionario finora considerato semplicemente estraneo.

Naturalmente, sebbene il lavoro qui svolto si limita al Bakur (benché le interviste ai profughi ezidi raccontino un pezzo fondamentale, e totalmente censurato, della storia irachena), non è possibile comprendere le scelte e i passaggi che avvengono nel Kurdistan turco senza considerare il Kurdistan come tale, in tutta la sua estensione, e gli equilibri politici, sociali e militari di tutta quest’ampia regione. Molti riferimenti nelle interviste lo dimostrano. Allora occorre comprendere ciò che avviene in Turchia sempre tenendo lo sguardo orientato sulle lacerazioni epocali che sta vivendo il medio oriente nel suo complesso, senza mancare di cogliere come il progetto politico del confederalismo democratico, se subisce influenze anche occidentali (a partire dal nome) è radicato, più di quanto si possa pensare di primo acchito, in alcune sensibilità profondamente presenti nell’intera regione dell’ex Impero Ottomano, anzitutto in epoca presente – le stesse che, in modo differente, sono fatte proprie dal califfato.

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Da quando una guerra, infatti, è in corso in Mesopotamia, nel medio oriente? Dal 2014, o dal 2011? Dal 2003, dal 2001? Dal 1991? È, a bene vedere, una guerra in corso da sempre. La novità negli equilibri, rispetto al 1991 o al 2003, è che nel 2014 è apparsa una forza rivoluzionaria che ha assunto l’iniziativa bellica e si è assunta il peso regionale di una lunga serie di contraddizioni. La prassi e la teoria di questa forza – il movimento rivoluzionario curdo – si situano in un contesto completamente mutato rispetto a quello del passato. Le compagne e i compagni impegnati a combattere nel sud-est della Turchia e nel nord della Siria (oltre che nel nord-ovest dell’Iraq) sembrano impegnati nel tentativo di proporre un progetto che possa interpretare la fase di superamento di confini ed equilibri istituzionali che duravano da circa un secolo.

Ciò che l’Inghilterra, e poi l’Europa, hanno definito “medio oriente” (l’Asia sud-occidentale) è stato un luogo contrassegnato, un tempo, tanto dalla creazione artificiale di nazioni, quanto da conseguenti nazionalismi che, pur essendo teorizzati da elite e basando la propria forza sulle gerarchie militari, hanno assunto tra gli anni Cinquanta e Sessanta, talora, tinte socialiste (lasciando aperta tutta l’ambiguità politica di cui storicamente è carico questo termine). La crisi di questi nazionalismi, spesso trasformatisi in burocrazie al servizio di potenze lontane, si è dispiegata almeno dagli anni Settanta, dando luogo ad una loro critica che, nel mondo musulmano, ha rigettato l’idea di nazione come prodotto coloniale, rivalutando quella di comunità dei credenti (umma) quale elemento universalistico che trascende le divisioni storico-linguistiche e recupera l’unità perduta con la fine dell’Impero Ottomano (1920).

La rivoluzione iraniana del 1979 e la resistenza afghana all’invasione sovietica, iniziata nello stesso anno, hanno inaugurato la comparsa di una tendenza insurrezionale globale fondata sul concetto di jihad (lo “sforzo” del credente per promuovere la sottomissione di sé stessi e del prossimo all’unico Dio) e su una rete mondiale di combattenti (mujaheddin). La resistenza afghana contro l’invasione statunitense (dal 2001) e quella irachena (2003) sono state la declinazione compiuta dell’egemonia islamica sulla ribellione politica orientale nel nuovo secolo. Anche le vicende palestinesi, dall’Intifada Al-Aqsa (2000), la vittoria elettorale di Hamas (2006) e la conseguente rottura istituzionale con l’Olp (2007) sembrano inserirsi a loro volta in questa tendenza.
Gli eventi del 2014-2015 consegnano in qualche modo una novità, rendendo il quadro più complesso. Con l’emersione territoriale dello Stato Islamico emerge il carattere di guerra interconfessionale (sunniti contro sciiti) che i diversi “jihad” hanno assunto dalla fondazione dell’organizzazione Al-Qaeda in Iraq (divenuta successivamente “stato islamico in Iraq”) da parte del militante Abu Musab al-Zarqawi (2005). Le due tendenze insurrezionali a sfondo religioso emerse nel 1979 (iraniana e afghana) mostravano in fin dei conti di non poter che combattersi secondo direttrici sociali, ideologiche e geopolitiche, dilaniando la “comunità dei credenti” del mondo musulmano, e affiancando alla lotta contro l’influenza neo-coloniale “dell’Occidente” quella contro minoranze religiose, ateismi e cosiddette “apostasie”.

Sull’altro versante, proprio lo stato islamico ha letteralmente “incontrato” sulla sua strada un percorso completamente diverso, quello dell’unione delle comunità curde (Kck) presenti in Turchia, Iran, Iraq e Siria. Questa istituzione “pancurda” e sovranazionale, rifiutando il modello politico offerto dai partiti curdo-iracheni già alleati degli Stati Uniti (Pdk e Upk), e facendo propria invece la linea politica del Pkk, conduceva dal 2005 un’opera di costruzione di sovranità popolare, da un lato, e di superamento dell’ottica nazionalista classica, dall’altro, sperimentando forme di autogoverno plurale e a-confessionale, soprattutto nel nord della Siria e nel sud-est della Turchia. L’azione delle comunità curde era improntata al coinvolgimento di altri segmenti di popolazione in un progetto erede del cosmopolitismo comunista, riletto secondo una chiave sperimentale che mette al centro il protagonismo sociale e l’avvio immediato della trasformazione dei rapporti.

Rispetto alla situazione del primo decennio del secolo, dunque, in cui unici attori dell’area sembravano essere l’insurrezionalismo di matrice religiosa e l’occupazione delle forze statunitensi ed europee, oggi lo scontro appare prodursi tra un riferimento al Corano predominante nella comunità araba sunnita e la sperimentazione comunistica e pluralistica promossa dall’organizzazione egemone tra le comunità curde, interessate a coinvolgere altri attori regionali e globali nel loro progetto. Una situazione che succede in modo enigmatico, ma sicuramente non irrelato, alle esplosioni sociali avvenute in nord Africa, in Mesopotamia, in Turchia e nel Levante a partire dal 2011, che hanno condotto o a precarie restaurazioni (Egitto, Tunisia) o a perduranti guerre civili (Libia, Siria, Yemen).

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In questo quadro, una delle forme di partecipazione che possiamo immaginare al conflitto in corso è studiare e conoscere la proposta politica dei compagni che combattono e (cosa non meno importante) tentare di comprendere l’esperienza che vi sta alle spalle. Questa elaborazione non va accolta acriticamente né mitizzata, quasi che per noi non vi sia che la strada del paternalismo orientalista o l’adorazione ambigua per gli idoli del politicamente esotico. Non è necessario neanche che, di punto in bianco, le compagne e i compagni di tutto il mondo si sentano in dovere di abbeverarsi passivamente alle lapalissiane verità del pensiero di Ocalan, in un’insostenibile riedizione della già patetica importazione acritica che aveva trasformato in zapatesimo (europeo) il pensiero zapatista negli anni Novanta; e di tutto abbiamo bisogno, in un mondo come quello di oggi, tranne che di innamorarci di un popolo o dei suoi costumi, della sua lingua, ecc. Non è scegliendo di volta in volta “popoli buoni” che si raggiungono grandi risultati.

Del resto, nessuna di queste ingenuità viene suggerita dai movimenti rivoluzionari del Rojava e del Bakur. Il nocciolo del nuovo corso nelle lotte per l’autonomia, in quelle regioni, è la decostruzione non soltanto dell’organizzazione-stato, ma del feticcio della nazione. Decostruzione che non significa annichilamento o disprezzo: i viaggi attraverso il Kurdistan permettono di percepire il grande amore che la popolazione ha per le danze, la musica, la lingua e la mitologia curde, così come l’interesse e il rispetto profondi per le differenze che sorgono dall’incrocio con i compagni o combattenti armeni, siriaci, arabi, circassi o persiani. I compagni, ben lungi dal considerare queste eredità un che di retrivo, le considerano fonte di forza e bellezza; e se esiste un che di apolide nei guerriglieri che attraversano da decenni tutti quei confini tra una pluralità di catene montuose, è proprio l’ammirazione sincera per la pluralità incredibile che anima la cultura diversificata che si sviluppa tra il Tigri e l’Eufrate.

Le popolazioni si trovano ad abitare stati a maggioranza turca (armeni, greci, curdi, circassi) o araba (assiri, curdi, turcomanni, ezidi) in contesti dove le differenze linguistiche e culturali non si sovrappongono plasticamente, ma anzi vengono intersecate e sparigliate dalle differenze di fede (musulmani sunniti e non, cristiani cattolici, caldei e ortodossi di diverso rito, ezidi); senza contare l’onnipresenza di comportamenti, costumi e stili di vita improntati allo scetticismo o all’ateismo, e il frequente miscuglio, anche all’interno degli stessi nuclei familiari, di lingue e pratiche cultuali; elemento che supera e tiene l’elemento identitario nel momento in cui lo riconduce alla radice materiale che gli è propria: quella di condizione psicologica.

La scelta del Pkk, anima politica del Kck, di superare la fase nazionalista della sua storia (basata sulla rivendicazione dell’ottenimento di uno stato indipendente e socialista) deve essere collocata in questo contesto. Un certo genere di militante europeo storce il naso di fronte a un simile atteggiamento, ma ciò che appare interessante nell’istante dell’incontro tra militanti europei e curdi (al netto delle mitizzazioni di alcuni) è la siderale distanza per ciò che concerne il rapporto tra parole e fatti, connotato talvolta da una proporzionalità inversa. In Europa, “culla” del pensiero “radicale”, e talvolta radicalissimo, oltre che delle numerose elaborazioni teoriche sulla trasformazione, la comune o l’Impero, il livello di scontro sociale che le soggettività rivoluzionarie sono state in grado di provocare è, ad oggi, minimo. Nelle vaste regioni curde, invece, l’idea della pace e del cambiamento sociale attraverso la convivenza è portata avanti senza arretrare di fronte all’ipotesi del comitato di salute pubblica e della guerra.
Vuol forse dire che mitra e mortai designano la radicalità di un pensiero (soprattutto se pensato all’estero…) in un’ottica puramente quantitativa? Tutt’altro. Sono proprio alcuni ambiti europei a ragionare troppo spesso in questi termini. Ben al di là di questa di sproporzione (che resta comunque ironica) è la creazione dei presupposti sociali per uno scontro ad ampio respiro che segna la sostanza di questa differenza; e a poco servirebbe invocare una “diversità di contesto”, giacché è proprio sulla capacità di comprendere questo contesto (ed essere in grado di agirvi in modo efficace) che la distanza tra noi e i compagni curdi si fa, al momento attuale, significativa. Ciò che fa del movimento rivoluzionario curdo una potenza reale nella regione è la sua capacità strategica e politica, il suo essere punto di riferimento per composizioni sociali che sopravanzano e scavalcano la dimensione ideologica come quella nazionale.

La gerarchia capovolta tra parole e fatti è condensata proprio nella pratica dell’autogoverno: avviare un mutamento delle proprie condizioni di vita qui e ora, nei limiti del possibile. È partendo dalla “moderazione” e dai tempi dilatati di questo possibile che si riesce a forzarne i limiti, ad esempio difendendolo dallo stato islamico a sud e dall’esercito turco a nord, e producendo una sensazione di potenza che ispira le popolazioni a immaginare anche ciò che non avevano pensato. In fondo, il progetto del confederalismo democratico avanzato dal Pkk in Turchia e dal Pyd, suo alleato, in Siria, si basa sull’idea per cui le persone che compongono i mosaici linguistico-religiosi delle diverse città debbano riunirsi in assemblee e assolvere ai propri bisogni sociali, comportandosi come se gli stati, il capitalismo o il patriarcato non esistessero più, anziché considerandoli moloch astorici, impossibili da mettere in discussione se non al prezzo di una catastrofe.
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Autogestione, assemblee, democrazia “dal basso”: è facile essere scettici di fronte a queste parole d’ordine, fin troppo familiari. È facile, anche, essere tentati di affermare, laconicamente, che non è niente di nuovo. Occorre tuttavia rinnovare lo sforzo contro la pigrizia del concetto che si sottomette all’abitudine, e chiederci se davvero simboli traducibili, avanzati nell’insubordinazione, si riempiano sempre delle stesse esperienze (leggi: degli stessi contenuti, o delle stesse intuizioni). Tradizionalmente, la società curda è una società fortemente gerarchica, organizzata in clan molto ampi, i cui capi sono gli aga. Il nazionalismo curdo tradizionale, che ha vissuto la sua epopea bellica più significativa in Iraq negli anni Sessanta e Settanta, ha sempre rivendicato questa struttura sociale come sua fondamentale caratteristica culturale. Oggi il partito democratico del Kurdistan in Iraq (Pdk), erede di quella concezione, governa la regione autonoma del Kurdistan iracheno secondo una declinazione semplicemente non più soltanto agricola, ma anche petrolifera del sistema clientelare clanico.

L’insistenza del Pkk sulla dinamica assembleare come luogo della decisione politica deriva dalla sua essenza di movimento che, fin dall’inizio, ha lottato contro la società curda e le sue strutture tradizionali prima ancora di volgersi contro lo stato turco, ed estendersi quindi a tutti i territori del Kurdistan. Il Pkk è stato fin dalle origini un partito per la lotta di classe e contro il patriarcato all’interno del Kurdistan, come unico mezzo per spezzare quelle catene clientelari che, nella maggior parte dei casi, portavano l’intera comunità a dividersi in guerre tra clan e a sottomettersi al colonizzatore straniero in grado di comprarsi gli aga (dal punto di vista storico, questa è una delle ragioni della mancata creazione di un’entità statuale curda attraverso i secoli). Il successo della coniugazione tra rivoluzione sociale e indipendenza tentata dal Pkk dalla fine degli anni Settanta è probabilmente dovuta anche all’evidenza del freno rappresentato dalla condizione storico-sociale delle popolazioni curde per ogni tentativo di liberazione.
Negli anni 1978-1982, non a caso, il maggiore sforzo del Pkk non si rivolse contro lo stato turco, ma contro gli aga curdi (anche perché accusati di essere collaborazionisti dello stato) e contro gli altri partiti curdi, di destra ma non solo. Il ruolo del Pkk ha condotto la popolazione a una dura, sanguinosa e travagliata trasformazione sociale, in modo non molto diverso dai fedayn di al-Fatah o di al-Qawmiyyun al-Arab nei campi profughi palestinesi degli anni Cinquanta: la diffusione di una resistenza popolare e non elitaria, condotta dai giovani (o dalle donne) e non diretta dagli anziani, avviò e inaugurò una trasformazione profonda della società. Non è forse un caso che, là dove i movimenti comunisti scelsero altre strade (il compromesso con il nazionalismo militare o il filo-sovietismo), come tra le popolazioni arabe, sunnite e non, di Iraq e Siria, il mancato attacco alle strutture claniche della società rende oggi i clan unico punto di riferimento sociale nel desiderio di recidere il legame sempre più oppressivo contro lo stato-nazione artificiale e perciò brutale per eccellenza, quello medio-orientale (è su questo elemento che si appoggia ampiamente lo stato islamico nelle regione controllate in entrambi i paesi).

Se è errato parlare di “curdi”, quando nominiamo l’elemento rivoluzionario nella regione non è soltanto perché ormai sono tante le lingue e le identità che formano l’Hdp o le Forze democratiche siriane (Fds), ma anche perché non tutti i partiti curdi sono disposti ad affrontare il compito della rivoluzione come trasformazione dei rapporti sociali in senso comunistico e a sovranità popolare. Si tratta, anzi, di un genere molto particolare di curdi che, grazie alla propria capacità politica, sono divenuti sì il “movimento curdo” per eccellenza, ma a prezzo di uno sforzo quarantennale di non cedere alle lusinghe di un nazionalismo a buon mercato approfondendo effettivamente – in modo radicale – tutti i problemi che si trova di fronte un progetto di liberazione.
In questo contesto, contrassegnato oggi più ancora di ieri dalla sfida di potere dei clan su città e villaggi (in connessione con entità sovrastanti che possono essere i vecchi stati nazionali o le nuove velleità di costruire un califfato panislamico globale), si vede come la centralità assegnata all’elemento della “comune di quartiere”, del “parlamento cittadino” o “dell’assemblea” non sia un vezzo idealistico, ma il dato dirimente dello schierarsi per il protagonismo popolare non commettendo l’errore di credere, ideologicamente, che l’alternativa alla prossimità del clan con la vita sociale dei centri abitati possa essere l’impersonale ed astratta burocrazia delle istituzioni esistenti legate a doppio filo al Fondo monetario internazionale. Il confederalismo democratico è pensato in medio oriente anche perché parla a una certa sensibilità storica del medio oriente.

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Mentre finiamo di sbobinare queste interviste e le mettiamo in ordine per la pubblicazione, l’intero Bakur è sotto attacco. La gente muore sulle barricate, o mentre esce di casa sfidando il coprifuoco per comprare del cibo o per portare cure ai feriti, o ancora attraversando la strada con una bandiera bianca, e finendo crivellata dai proiettili, o intrappolata in uno scantinato sotto i bombardamenti. Le amiche e gli amici che abbiamo lasciato in Bakur ci scrivono che hanno paura di morire, proprio come alcuni ragazzi intervistati qui di seguito ci avevano detto, con le armi appoggiate dietro la sedia e tè e caramelle in mano, che sapevano di andare sicuramente incontro alla morte. Uno di loro, Muslum (22 anni) è stato il primo a cadere nella difesa di Silvan, che avrebbe visto una ritirata umiliante dell’esercito turco soltanto dodici giorni dopo. A lui, e a tutte le ragazze e i ragazzi come lui, vorremmo dedicare questo contributo.

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