Fanno più paura i curdi liberi o l’Isis?
Strano destino quello del popolo curdo. Sulle loro terre si sta combattendo una guerra di libertà, ma l’Occidente è ambiguo.
Che cosa sta succedendo su quell’incrocio di destini e popoli che è il Kurdistan sezionato dai confini iracheno, siriano e turco? Quello che vediamo e che viene mediaticamente sottolineata è la discesa in campo, con tanto di raid aerei, di Erdogan contro l’Isis. Obama deve averlo convinto a mettere a disposizioni le sue basi e a darsi da fare. In cambio di che cosa? Ai più attenti lettori di questioni internazionali non sarà sfuggito il fatto che nei raid Erdogan ha messo nel mirino l’Isis, ma ha colpito Pkk, il Partito Kurdo dei lavoratori che in questa fase storica così opaca sta combattendo sul fronte contro i fantasmi neri del Califfato. Il pessimo primo ministro deve aver avuto il via libera americano in cambio di un aiuto contro Isis.
Niente di nuovo. Ogni guerra è un assestamento di potere. E non sorprende neanche la distrazione con la quale i media italiani provinciali e conformisti abbiano trattato la strage di Suruç? Ragazzi che portavano solidarietà, pacifisti, ambientalisti del movimento di Gezi Park. Per chi non ha avuto modo di informarsi (Globalist ha dato puntuale informazione su questo episodio di terrorismo selettivo) occorre dire in sintesi che si è trattato di un avvertimento dell’Isis contro chiunque intendesse uscire fuori dallo schema binario: Isis/attentati, guerra giusta al terrorismo come risposta militare. Dico questo perché si fanno tante chiacchiere sull’Isis, ma c’è pochissima attenzione verso chi lo combatte davvero, verso chi prova a costruire un’alternativa politica, sociale, di solidarietà all’idea di Stato Islamico e all’idea di un mondo dominato dai gorilla del terrore e dell’antiterrorismo guerrafondaio.
Parliamone, quindi. Suruç si trova in Turchia, al confine con la Siria. Tutti i giovani, i volontari, tutti quelli che si sono spesi per portare solidarietà alla resistenza di Kobane sono passati da questo snodo. E si sono fermati al centro culturale Amara, il luogo della strage. Dove cittadini di tutto il mondo mettevano in pratica l’idea di solidarietà internazionale con la lotta kurda. La bomba dell’Isis ha causato la morte di trentadue giovani giovani, di sinistra, che protestavano in una conferenza stampa proprio per le ambiguità della Turchia di Erdogan. Ambiguità che si rivelata ancora più grande con i raid sia contro Isis che contro Pkk.
Il caso Rojava. Che cosa ha avuto in cambio, oltre lo scalpo di Pkk, la Turchia di Erdogan? La possibilità di creare il famoso cuscinetto nella zona siriana per spegnere sul nascere l’esperienza militante e rivoluzionaria kurda del Rojava? Beh, sì. Anche perché la Turchia teme più l’unione dei kurdi di sinistra e combattenti che l’Isis. Così come l’Occidente teme il fatto che l’Isis possa essere combattuto da una resistenza civile e politica, oltre che militare. E che lo spauracchio nero non è imbattibile. Lo dimostra quello che avviene nel Rojava. L’Isis è stato respinto e sconfitto a Kobane, ma non solo, le forze kurde di sinistra hanno riconquistato la città strategica di Tel Abyad. E questo da una parte allarma l’Isis, sconfitto militarmente sul campo. Immaginate il tanto celebrato Califfato quanto può vedere di buon occhio un progetto kurdo laico, di sinistra, socialmente includente, nel quale esistono unità militari interamente femminili (Ypj). Ma non solo, allarma anche la Turchia di Erdogan che non intende certo aprire la strada a un Kurdistan libero e indipendente. E laico. Diciamo che è apparso a diversi analisti che il confine turco-siriano, blindato per i kurdi, sembra meno ferreo verso le unità dell’Isis.
Bello leggere, per chi crede nella democrazia vera e non quella esportata con le bombe, la Carta del Contratto Sociale del Rojava, adottata nel febbraio del 2014: “Noi popoli che viviamo nelle Regioni Autonome Democratiche di Afrin, Cizre e Kobane, una confederazione di curdi, arabi, assiri, caldei, turcomanni, armeni e ceceni, liberamente e solennemente proclamiamo e adottiamo questa Carta.
Con l’intento di perseguire libertà, giustizia, dignità e democrazia, nel rispetto del principio di uguaglianza e nella ricerca di un equilibrio ecologico, la Carta proclama un nuovo contratto sociale, basato sulla reciproca comprensione e la pacifica convivenza fra tutti gli strati della società, nel rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, riaffermando il principio di autodeterminazione dei popoli.
Noi, popoli delle Regioni Autonome, ci uniamo attraverso la Carta in uno spirito di riconciliazione, pluralismo e partecipazione democratica, per garantire a tutti di esercitare la propria libertà di espressione.
Costruendo una società libera dall’autoritarismo, dal militarismo, dal centralismo e dall’intervento delle autorità religiose nella vita pubblica, la Carta riconosce l’integrità territoriale della Siria con l’auspicio di mantenere la pace al suo interno e a livello internazionale. Con questa Carta, si proclama un sistema politico e un’amministrazione civile fondata su un contratto sociale che possa riconciliare il ricco mosaico di popoli della Siria attraverso una fase di transizione che consenta di uscire da dittatura, guerra civile e distruzione, verso una nuova società democratica in cui siano protette la convivenza e la giustizia sociale”.
Le parole di questa carta rimandano ai valori di libertà, eguaglianza, laicità e solidarietà di cui l’Occidente afferma di essere portatore. Ci sono chiare istanze ecologiste, il riconoscimento del principio di integrità territoriale della Siria, nel rispetto delle diverse minoranze. Allora verrebbe da dire: perché i kurdi di Rojava non possono essere considerati gli alleati ideali e democratici, efficaci sul campo di battaglia, con cui cooperare per fermare l’Isis?
Perché si stanno giocando evidentemente partite diverse, e i kurdi siriani, legati al Pkk di Ocalan, rappresentano nonostante tutto un “pericolo” in grado di sparigliare le carte. E dimostrare che il fine non è la democrazia, la laicità, il bene dei popoli. Ma il loro attenersi al ruolo di schiavi di un sistema di potere che attraverso guerre e terrorismo vuole tenere in scacco i cittadini.
Globalist