Donne, etica e rivoluzione

Intervista alle compagne del Rojava

Tutto il mondo trae ispirazione, ormai da due anni, dalla lotta che le combattenti curde delle YPJ portano avanti contro lo stato islamico. Tutto il movimento curdo è attraversato da questa potenza femminile, tuttavia, anche in Turchia e in Iraq (con le unità femminili di difesa civile, le YPS-J, e quelle di difesa popolare inquadrate nel PKK, YJA Star) e in Iran (HPJ). Le donne curde, tuttavia, non sono soltanto combattenti, ma in primo luogo militanti: da anni c’è chi tra loro sviluppa una concezione teorica articolata del ruolo delle donne non soltanto nella liberazione del Kurdistan, ma dell’umanità, confrontandosi tanto con il pensiero rivoluzionario e il femminismo, quanto con le culture cristiana, ezida e musulmana, o con le filosofie occidentali e orientali. Il loro punto di riferimento principale sono gli scritti di Abdullah Ocalan dal carcere, dove il presidente del Pkk ha promosso lo sviluppo di una scienza nuova, la jineoloji: la scienza delle donne o “scienza donna”.

Le militanti hanno approfondito in questi anni tale idea, cercando di svilupparla, concretizzarla, precisarla e diffonderla in tutte le aree in cui operano. La rivoluzione del Rojava e la rivolta del Bakur turco, così come l’azione politica svolta nel Kurdistan iraniano hanno rappresentato e rappresentano un vero e proprio banco di prova per la scienza rivoluzionaria delle donne curde, e di questo i quadri femminili (così usano chiamare sé stesse) dei diversi partiti curdi di sinistra sono altamente consapevoli. Le donne coinvolte nella rivoluzione del Rojava occupano ruoli di carattere molto diverso tra loro: sanità, istituzioni, comuni di quartiere, case del popolo, cooperative, unità di difesa interne ed esterne, e così via. Sono impegnate in una lotta che deve fare i conti con una società profondamente patriarcale e con una cultura diffusa che non aveva mai ammesso il loro protagonismo; e non poche donne, in Rojava, condividono tuttora la cultura patriarcale e reazionaria, essendo cresciute in una regione lasciata nel dilagante analfabetismo e nella povertà estrema, per ragioni politico-coloniali, dallo stato siriano.

Per questo le compagne di jineoloji si muovono instancabilmente per il Rojava per offrire alle donne e agli uomini – nelle comuni, nelle scuole, nelle unità di combattimento – la loro perwerde (educazione) riguardo alla nuova scienza. Le abbiamo incontrate in una località del Rojava e ne abbiamo approfittato per approfondire la loro visione della rivoluzione e del mondo.

Rojava, aprile 2016
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I.Natura e storia

Avete deciso di sviluppare una scienza delle donne, la jineoloji. Di cosa si tratta?
Il termine jineoloji compare per la prima volta negli scritti dal carcere di Ocalan, nel 2008. Quando tratta della “sociologia della libertà”, Ocalan parla di questa nuova scienza. La scienza d’impostazione positivistica ha dimostrato di non essere in grado di produrre un cambiamento sociale. Il suo epicentro è l’Europa, ma la storia dello stato, cui essa è legata, è molto più ampia e le origini dell’approccio positivista sono quindi più complesse. La scienza positivista è fondata sulla distinzione tra soggetto (colui che conosce) e oggetto (ciò che è conosciuto): questa distinzione risale alla civiltà sumera, alla distinzione tra Dio e mondo operata in quell’epoca. Questa distinzione non è neutra: la civiltà sumera è anche la prima civiltà in cui l’uomo diventa soggetto, la donna oggetto, sostituendo l’organizzazione statale alla società precedente, in cui non esisteva questa gerarchia tra uomo e donna.

Come donne dobbiamo quindi operare un mutamento rivoluzionario nella scienza. La libertà della donna, assieme all’ecologia e alla democrazia, è uno dei tre pilastri della rivoluzione secondo Apo [Abdullah Ocalan, Ndr]. La nuova sociologia non è però una sociologia che ha come argomento le donne, ma una sociologia che punta a trasformare l’intera società, ed è pensata dalle donne da un punto di vista femminile. Il termine jineoloji deriva da jin, che un curdo significa “donna”, ma denota anche il sesso della donna, e logos, che in greco significa parola, pensiero e scienza. Abbiamo diverse parole a denotare la donna in Mesopotamia: il sumero nita, il curdo zaza cin, il curdo sorani afratan, lo hurri (protocurdo) aşt, il persiano zen, l’armeno gin e così via.

L’etimologia di questi termini è molto illuminante. Nel curdo kurmanji, se jin vuol dire donna, jiyan significa vita. Vita è ti in sumero, e come detto donna è nita. Nel curdo sorani afrandin significa costruire, e la donna è afratan, nello hurri aşeti è pace, e donna è aşt. Esiste una connessione tra le parole donna, pace, vita e natura. Nella lingua sumera la parola libertà è amargi, che letteralmente significa “tornare dalla madre”. In curdo kurmanji la libertà è azadi, mentre za significa partorire. Una sociologia delle donne è quindi anche una sociologia della libertà, della vita e della natura. Altri fenomeni sono degni di interesse: in kurmanji esiste, come in molte lingue, la distinzione maschile/femminile; la parola albero è donna, ad esempio, mentre se si taglia un albero e se ne ricava del legno utile all’uso pratico, il termine che lo designa diventa maschile.

Perchè ritenete che l’approccio positivista alla scienza sia nato proprio con la civiltà sumera?
Prima della civiltà sumera esisteva ciò che Ocalan chiama “società naturale”: non esisteva la città e la società era organizzata in clan. In essa le donne erano al centro della vita sociale, sebbene non esercitassero un dominio, ciò che noi in kurmanji chiamiamo desthilatdari, che invece gli uomini hanno iniziato a esercitare dopo. Per questo ci rifiutiamo di teorizzare un “matriarcato”, perché ciò significherebbe attribuire alle donne, nella società naturale, una arché, ossia un dominio, che in verità non hanno esercitato. Semmai ciò che le donne esercitavano era ciò che in curdo chiamiamo otorite, un’autorità, che ha un significato positivo e completamente diverso da dominio, perché ha più a che fare con il dare qualcosa alla società. [Il termine autorità ha origine latina e deriva da auctor, autore: l’auctoritas era, nell’Europa del XII sec., il prestigio intellettuale di chi aveva una maggiore conoscenza, Ndr].

Ad esempio, se sto male e chiedo consigli ai miei amici, ognuno mi darà una risposta diversa, così mi rivolgo a un medico che ha le competenze per ricercare le origini del mio male. Il medico offre queste competenze alla comunità e per questo possiede un’autorità in materia di medicina, ma ciò non significa che debba usarla per esercitare un dominio sugli altri, che sarebbe diverso. L’autorità delle donne nasce in primo luogo dal loro ruolo educativo nei confronti dei figli, e negli esseri umani è un ruolo più importante, che dura più a lungo se paragonato agli animali. I sociologi dicono che la società è nata dall’economia, ad esempio dalla caccia, ma la verità è che essa è nata in primo

luogo dall’educazione che le donne hanno fornito ai loro figli. Questo ruolo educativo ha sempre avuto come scopo proteggere i figli dalle insidie della vita, e quindi proteggere la comunità nel suo complesso. Creare e costruire la società implica anche proteggerla, ed è da questo bisogno di protezione sociale che nasce la necessità dell’organizzazione.

Quali sono i caratteri, secondo voi, di quella che fu la “società naturale” in cui le donne possedevano l’autorità sociale?
Il carattere principale era la natura etica delle relazioni sociali. In una società ci sono innumerevoli tipi di relazioni, ma le relazioni etiche e politiche sono quelle su cui noi concentriamo la nostra attenzione. Ciò che in italiano è etica, in curdo è exlak, sebbene abbia un senso in qualche misura più esteso, poiché noi anche abbiamo il termine etik, che corrisponde a “etica” più fedelmente. L’etica è l’assunzione della responsabilità legata alla convivenza sociale. Questo senso originario dell’etica è stato stabilito dalle donne. I bisogni primari della società erano proteggere il cibo e proteggere la comunità dagli istinti, quello sessuale compreso. La caratteristica delle regole etiche è che sono utili per la soddisfazione dei bisogni sociali, sebbene esistano anche altri generi di regole, che sono invece utili ad altri scopi, all’instaurazione di un dominio.

Se dobbiamo condividere uno spazio è normale, ad esempio, che si debbano fare le pulizie: contribuire alle pulizie è tipicamente una regola etica, tant’è che non c’è molto da discutere su di essa, è un bisogno condiviso ed è necessario essere responsabili su questo. Analogamente, mentire e rubare sono considerate comunemente azioni cattive, perché si scontrano con l’etica della soddisfazione comune dei bisogni. Là dove esiste un comportamento etico, che si assume la responsabilità dei bisogni sociali, non c’è bisogno di molte regole, perché la gente agisce responsabilmente. Esiste un rapporto inversamente proporzionale, nella società, tra etica e legge. Maggiore è la consapevolezza etica, minore è lo spazio che occupa la legge, e viceversa.

La società sumera avrebbe quindi soppiantato questa società naturale, o etica?
Con la fase sumera della storia e l’organizzazione della società nello stato le regole diventano strumenti di dominio, sono volte al dominio anziché al soddisfacimento dei bisogni e alla protezione della società. Il cuore degli uomini si è sporcato in quell’epoca a causa di questo. In precedenza occuparsi dei bisogni sociali era responsabilità di tutti e tutti dovevano compiere il proprio sforzo, ma con la società statale introdotta dal dominio sumero alcuni hanno preteso di vivereda parassiti, sulle spalle degli altri. In una società etica, al contrario, chi intende vivere da nullafacente alle spalle degli altri è percepito come un pericolo da cui proteggersi ed è espulso dalla comunità. La società etica era etica nel suo insieme, cioè con l’apporto di donne e uomini, ma le regole erano prodotto dell’attività femminile perché le donne si occupavano di bisogni primari e di proteggere il cuore della società.

Noi non siamo mai vissuti nell’epoca pre-sumera, però, quindi non possiamo sapere come fosse la società allora, se essa fosse etica e in che senso, se in essa le donne disponessero di maggiore potere e in che modo. Su quali elementi empirici fondate la vostra convinzione che qiuesta rappresentazione della storia è esatta?

Esistono reperti archeologici che testimoniano molto sulla cultura pre-sumera, anche in rapporto al ruolo delle donne, che erano raffigurate diffusamente e poste in connessione con il divino e con la vita. Esiste l’etimologia, che ci permette di tracciare associazioni tra le parole antiche di cui siamo a conoscenza. Esiste l’antropologia, che a sua volta, studiando comunità del presente, è in grado di risalire a come l’essere umano ha vissuto nel passato. Questo ultimo aspetto, in particolare, è centrale. La società naturale non è scomparsa con l’arrivo dello stato, quindi possiamo a tutt’oggi vederne i segni resistere nel presente, studiarli dal punto di vista culturale e antropologico, imparando dalla vita di tutti i giorni.

La storia è come un fiume, che all’epoca sumera ha subito una deviazione ad opera dell’organizzazione statale, ma si è trattato di una biforcazione, perché lo stato, in quanto elemento parassitario e sovrapposto alla società, non ha potuto impedire che anche la parte etica del fiume continuasse a scorrere. La diramazione statale del fiume ha sempre attaccato quella etica, tentando di debellarla, ma non ci è mai riuscita. In medio oriente abbiamo molte tracce di società naturale, che sono espresse anche nelle forme creative, ad esempio nella musica, dove canzoni tradizionali tramandano i concetti della vita comune e della condivisione dei beni. L’etica è qualcosa che si oppone allo stato ed è incompatibile con esso, e ne vediamo tutti i giorni manifestazioni intorno a noi: se c’è, e se lo stato non l’ha creata, significa che esisteva prima dello stato.

Le evidenze etimologiche non risiedono soltanto nelle corrispondenze di cui ho detto prima, ad esempio tra donna e vita (jin/jiyan) e donna e libertà (amargi, sumero per libertà nel senso di ritorno alla madre). Il fatto stesso che la prima attestazione conosciuta di un termine che stia a indicare la libertà sia proprio amargi è un ulteriore indizio: nelle lingue precedenti la parola libertà non esisteva perché non ne esisteva il concetto, e non ne esisteva il concetto perché non ne esisteva il bisogno. Il bisogno di immaginare una situazione libera inizia con i sumeri e con lo stato, quando le persone sono oppresse.

In ogni caso noi non abbiamo una visione positivista della storia intesa come un oggetto, apprendiamo la storia dalle canzoni e dalle realizzazioni espressive, ci basiamo anche molto sulla storia orale, ecc. La società etica la incontriamo ancora nei villaggi e nelle loro comunità tribali, nei deserti, nelle montagne, dove la resistenza allo stato è maggiore.

Potete fare qualche esempio concreto?

Ci sono tanti esempi – pensiamo anche agli zapatisti del Chiapas – di popolazioni che cercano di resistere allo stato e costruire una società etica. Inoltre possiamo vedere all’opera una resistenza storica all’influenza dello stato tra i curdi, che in parte hanno accettato l’assimilazione ai quattro stati in cui il Kurdistan è diviso, in parte non l’hanno accettata. Anche le religioni sono traccia di questo conflitto. Gli ezidi mantengono una certa indipendenza dall’organizzazione statale della società. Nell’ambito cristiano le confessioni cattolica e ortodossa hanno subito ampiamente l’influenza della concezione statale, mentre il cristianesimo gnostico e le eresie l’hanno tenuta maggiormente a distanza.

Analogamente, nell’Islam, la tendenza sunnita è vicina alla concezione propria dello stato e del dominio, mentre quella alevita [Tradizione islamica alternativa a quella sunnita, diffusa soprattutto nelle popolazioni turca e curda, Ndr] ne è più lontana e in essa la posizione della donna è migliore. Non a caso in tutte queste tendenze che hanno maggiormente resistito alla mentalità statale la donna ha maggiore libertà. Va ricordato inoltre che gli stessi luoghi di culto, in passato, erano tanto luoghi di preghiera quanto luoghi di socialità e incontro, mentre assistiamo nel tempo a questo processo di progressiva restrizione di tali luoghi a certe pratiche soltanto: un altro esempio del conflitto tra etica e stato che attraversa dall’interno il fenomeno religioso.

Gli stessi tribunali e le leggi dello stato non si applicano ovunque e per chiunque. Nei villaggi, in medio oriente, è l’assemblea che stabilisce quale dev’essere la punizione di un crimine o la risoluzione di una controversia, e rivolgersi alla corte statale è fonte di vergogna per l’individuo. D’altra parte l’evoluzione storica ha talvolta privato queste assemblee del loro carattere originario, rendendole rituali vuoti. La tensione e il conflitto tra etica e stato non sono mai finiti.

La rivoluzione consiste quindi nella restaurazione della società naturale?
No, la rivoluzione deve produrre una società democratica che, sebbene non sia e non possa essere una riproposizione di quella naturale, rivitalizzi i caratteri che le furono propri e che sono stati repressi nel tempo dallo stato. La società democratica è simile a un “compromesso”, se vogliamo, tra la società naturale e ciò che è esistito dopo.

Non è problematico sostituire il riferimento alla politica con quello all’etica?

Quando si dice “politica”, al giorno d’oggi, si pensa a un pancione seduto che fuma e parla, mentendo in modo beffardo. Questo è ciò cui l’idea di politica è ridotta oggi, ma in realtà la politica si origina dalla polis, la città e, sebbene il termine nasca ad Atene nell’antichità, ciò cui il termine si riferisce esisteva ben prima di Atene e di quell’epoca ed era l’organizzazione della vita e della società. Il riferimento di questo concetto fu cambiato all’inizio dell’era statale propugnando l’ideologia secondo cui la gente non è in realtà in grado di organizzarsi, né di essere autonoma.

Abbiamo bisogno, come detto, di una nuova scienza della società e della politica. Questo è molto importante, perché abbiamo visto il socialismo reale fallire a causa dell’adozione di una scienza inadeguata. La nostra nuova scienza deve permetterci di costruire una società etica e politica nel senso originario. La società può essere osservata da molti punti di vista. Alcuni sociologi dicono che ciò che più conta è il rapporto tra società e stato, altri che è quello tra individuo e società, altri prediligono il punto di vista economico, altri ancora quello dell’esercizio del dominio. Il nostro punto di vista sulla società, al contrario, è quello della politica, intesa nel suo senso originario, e quello dell’etica.

La degenerazione della politica fu dovuta al mutamento del ruolo della donna nella società: per questo le lotte che non mettono al centro la libertà delle donne non possono produrre liberazione reale né raggiungere la verità. Se la politica è l’organizzazione della vita sociale, essa è strettamente connessa all’etica, che è il prendersi cura dei bisogni sociali.

Il termine “etica” è carico di significato filosofico nella tradizione europea. Ora è distinto dalla morale, ora vi è associato, ora vi è sovrapposto, come accade non di rado nelle conversazioni quotidiane. Per voi l’etica è sovrapponibile alla morale? Sono la stessa cosa?

No, in curdo il termine moral non indica ciò che ho descritto come etica, ma la forza d’animo [Ciò che in italiano è declinato con “il morale”, al maschile, Ndr].

II.Donne e differenze

Che cos’è una rivoluzione delle donne?
Per noi non è sufficiente, ed è inesatto, affermare che le donne devono partecipare maggiormente alla politica dello stato, o all’economia capitalista. Ciò che occorre è anzitutto cambiare il significato che viene assegnato al termine politica, ma anche all’economia, all’etica e all’estetica, alla demografia e all’educazione, e i modi di vedere che abbiamo sulla salute, sull’ecologia e sulla storia. Occorre agire secondo una nuova comprensione di tutto questo reale per la realizzazione di libertà, uguaglianza e democrazia, che sono ciò di cui ha bisogno la società per essere liberata.

L’instaurazione dello stato e il conseguente stravolgimento del significato della politica ha coinciso con la nascita di un ordine sociale dominato dagli uomini, che hanno iniziato a diffondere l’idea che le donne non fossero in grado di assumersi responsabilità sociali perché sono troppo emotive, che non sono abili nella guerra, che sono escluse di fatto dalla vita sociale a causa dei figli e per questo devono stare fuori dalla politica. Al contrario, noi vogliamo una società che sia basata sul modo di essere della donna.

Qual è questo modo di essere? Pensate che il carattere emotivo, ad esempio, appartenga realmente alla donna più che all’uomo, o ritenete sia stato l’uomo a creare questa idea, sotto forma di stereotipo per il suo dominio?
Ci sono diversi tipi di intelligenza: l’intelligenza analitica è una, ma c’è anche l’intelligenza emotiva. Ciò che pensiamo non è che quest’ultima appartenga esclusivamente alla natura della donna, ma che l’uomo abbia sostanzialmente rinunciato ad essa in favore dell’altra quando ha instaurato lo stato e la concezione positivista della scienza, mentre le donne sono state in grado di difendere maggiormente il lato emotivo della loro intelligenza, benché gli uomini l’abbiano ampiamente utilizzato per soggiogarle, usando gli argomenti che ho detto prima.

Lo stesso vale per l’idea che le donne siano più pacifiche degli uomini: non è un fatto di donne o uomini, la società ha bisogno della pace indipendentemente, la pace è un bisogno sociale. Non si tratta di affermare che le donne o gli uomini siano più o meno aggressivi o pacifici in sé stessi, bensì di ricostruire la storia del rapporto sociale tra etica e istinto. Se consideriamo l’attività della caccia, ad esempio, vediamo che in origine essa era un bisogno e non un divertimento, regolato da norme etiche che prevedevano dei limiti al numero di animali che era consentito uccidere, o che proibivano l’uccisione degli animali femmina a causa della loro particolare relazione con la vita.

Esisteva talvolta anche l’usanza di pulire il corpo dell’animale ucciso dopo la caccia, come segno di rispetto ma anche di dispiacere per il male che gli era stato fatto. Si cercava di controllare la caccia, non di lasciarla senza controllo, c’era un controllo del potere. Non si può uccidere per la soddisfazione di farlo. Il cane strangolato per la soddisfazione di uccidere permette all’uomo di percepire il suo potere. Non è che l’uomo sia più aggressivo della donna, ma con l’instaurazione del potere statale maschile l’aggressività ha perso il controllo cui era sottoposta. In questo contesto il cane che guaisce sotto la nostra violenza non è percepito come un essere vivo ma come un oggetto; anche ai suoi guaiti viene forzatamente negato il carattere di lamento, e ci si cerca di convincere che non siano che rumori, i rumori che farebbe un oggetto.

Che cosa pensate del movimento femminista?

Ci sono delle differenze tra la jineoloji e il femminismo. Il movimento delle donne ha lottato, ma queste lotte hanno avuto dei limiti. Abbiamo ottenuto il diritto di voto e nuove leggi, e una maggiore presenza femminile nella politica, ma non abbiamo trasformato il senso della politica. Sebbene sia stata una lunga e importante lotta, non sarebbe realistico parlare di successo.

Una delle maggiori differenze che ci sono tra noi e il movimento femminista riguarda la distinzione tra sfera pubblica e privata, e il suo superamento. Lo stato ha relegato le donne fuori dalla politica con l’argomento che le sfere dove le donne erano presenti, in primo luogo la crescita dei figli e l’economia domestica, erano luoghi non politici, e dunque le donne erano esseri di fatto disabituati, esclusi o inadatti alla politica. La distinzione tra privato e politico viene operata dallo stato per nascondere ciò che avviene tra le mura domestiche, la violenza e l’oppressione nei confronti delle donne. Non a caso nella torah, come nel corano, ci sono lunghi capitoli dedicati a come la donna deve comportarsi con l’uomo e viceversa, ecc.

Il movimento femminista ha giustamente e duramente lottato contro la separazione tra pubblico (politico) e privato (apolitico) dicendo che il personale è politico, ossia che questa distinzione va combattuta ed eliminata. Ciononostante non ha raggiunto questo obiettivo, ha semplicemente capovolto il problema, mantenendo un genere diverso di distinzione, dove alle donne compete soltanto quella parte della politica che è associabile alla sfera privata: abusi, violenze, aborto, famiglia, ecc. E’ come se il risultato della lotta per affermare che il personale è politico si fosse risolta nella condizione in cui soltanto il personale può essere politico per le donne.

Questo è un errore. Noi critichiamo le femministe che si occupano soltanto di “personale” o “privato”. Quando, nel 2008, è avvenuto il massacro di Roboski, dove alcuni ragazzini che camminavano sulle montagne al confine tra Iraq e Turchia sono stati uccisi dall’aviazione turca perché scambiati per militanti del Pkk, le madri hanno iniziato una campagna per la verità su quello che era accaduto e hanno chiesto il supporto delle femministe turche. Queste, però, hanno risposto che non si occupavano di guerra, ma di stupro, aborto e altre questioni “riguardanti le donne”. Noi critichiamo questa specializzazione, perché mantiene, anziché eliminare, la distinzione statale tra pubblico e privato e tra personale e politico.

Nella vostra visione fate spesso riferimento alla natura dell’uomo e a quella della donna. Siete sicure che esista qualcosa del genere?
Questa questione è sempre sorgente di contraddizioni. Nelle filosofie e nelle religioni ci sono frequenti definizioni della natura dell’uomo, della donna o della persona che sono il frutto dei rapporti di dominio e della necessità di conservarli, quindi i movimenti delle donne si sono giustamente rivolti contro quelle definizioni. La “natura della donna” nella modernità è una strumento della cultura capitalista. Dal punto di vista postmoderno sono state avanzate critiche di queste definizioni che rispettiamo e che ci piacciono, che mostrano come quando si parla di “natura della donna” ci si riferisca di fatto a costruzioni ideologiche maturate nell’ambito dei rapporti di dominio.

Ciononostante, non siamo d’accordo sul fatto che la natura dell’uomo e della donna non esistano. Prima dell’instaurazione dei rapporti di dominio nella società umana le donne e gli uomini vivevano in accordo con la loro natura, ma questo accordo è stato spezzato dall’oppressione successiva e sono iniziate le costruzioni ideologiche che è giusto rigettare, ma la natura originaria non è stata distrutta, è ancora lì, sebbene sia stata schiacciata per millenni. Ci sono tante buone analisi nella gender theory, ma non crediamo che donne e uomini siano lo stesso.

Crediamo che la natura della donna sia paragonabile a quella delle cellule staminali, che aiutano il corpo a sconfiggere il cancro. Sono i rapporti di dominio che hanno rovinato il rapporto tra la donna e l’uomo, ma la natura della donna ha sempre resistito. Non siamo d’accordo sul fatto che non esista un’essenza femminile, pensiamo invece che esista, benché non ci riconosciamo nelle posizioni “essenzialiste” secondo cui le donne sono essenzialmente pacifiche, o in quelle secondo cui tra donne e uomini non ci può essere amicizia. Al contrario, è importante costruire l’amicizia tra gli uomini e le donne.

Il problema per alcuni non è ammettere una diversa identità sociale tra uomo e donna, quanto una distinzione fondata su un’essenza naturale ben definita.

Parlare di natura femminile provoca regolarmente dei problemi e delle contraddizioni, perché come dicevamo la storia della società statale è costellata di definizioni ideologiche sbagliate della natura femminile. Ad esempio Aristotele diceva che la donna è come un uomo, ma senza l’autorità (cioè pensava in qualche modo meno intelligente), Rousseau identificava la donna esclusivamente con il ruolo di madre, Racine la riteneva un essere diabolico: si tratta di rigettare queste definizioni.

Dobbiamo soltanto guardarci attorno, uscire dalle relazioni di dominio e allora le donne e gli uomini potranno riavvicinarsi alla propria vera natura e avere rapporti improntati all’amicizia e all’equilibrio. Le donne possono educare i figli impedendo all’uomo di schiavizzarli. Le caratteristiche dell’uomo e della donna sono diverse, ma non per questo non possono convivere. Ciò che è accaduto è una degenerazione della concezione delle rispettive nature e dei loro rapporti, ma non dobbiamo arrenderci ad essa.

Come vivete, nella pratica, la convivenza tra donne e uomini negli spazi politici che attraversate?
La vita delle donne e degli uomini, nelle nostre organizzazioni, è in parte separata e questo ci fa comprendere molte cose, anzitutto su quali siano le nostre giuste relazioni, su quali siano le giuste relazioni con gli uomini e su quanto e come il sistema giochi con le nostre identità. Anche gli uomini devono riflettere su questo, perché la loro identità è determinata dal capitalismo. Gli scavi archeologici mostrano che nel neolitico e nel mesolitico, nella società naturale, donna e uomini vivevano a loro volta in spazi separati: questa è una cosa buona, uomini e donne possono vivere in spazi separati, conservando un’autonomia reciproca, completandosi a vicenda. Questo genere di relazione sana è stata poi distrutta, ma le nostre differenze devono essere protette, non distrutte.

Un’altra ragione fondamentale per cui è importante comprendere la natura della donna è che, senza la comprensione di questa natura, non comprendiamo la natura di questa società. La degenerazione è stata tanta, quindi il nostro sforzo deve essere grande e deve concentrarsi sulle donne, non sugli uomini. Se ci concentriamo sugli uomini non comprendiamo la natura della società, e neanche delle donne. Abbiamo bisogno di quell’energia femminile che anticamente poteva esprimersi e che poi è stata repressa.

Un esempio di questa repressione è la considerazione di alcune caratteristiche femminili come negative, ad esempio le mestruazioni, che in molte culture vengono viste come qualcosa di “malato” (ad esempio in curdo la donna che ha il suo periodo è detta naxwesh, “malata” appunto). Il ciclo è visto come qualcosa di sporco, ciò che fa sì che, ad esempio, che in quel periodo alle donne non sia consentito entrare nella moschea, mentre invece in origine questo era considerato un fenomeno sacro. Il termine “ciclo”, a ben vedere, connette il fenomeno mestruale con la ripetizione ad ogni mese, quindi con la posizione dei pianeti, dell’universo.

Anticamente il mestruo veniva anche usato per concimare la terra, perché si riteneva liberasse un’energia di vita. Non significa che dobbiamo metterci a fare dei rituali, significa che dobbiamo capovolgere la concezione dominante. Non dobbiamo mai smettere di chiederci come è stata considerata la donna, ricostruire la storia della sua oppressione ripercorrendo i modi in cui è stata descritta.

Alcuni ritengono che le esperienze che possono percepirsi come diverse da quella maschile femminile (gay, lesbiche, bisessuali, transgender, ecc.) trovano il loro spazio politico soltanto in una concezione in cui la distinzione tra uomo e donna è superata in favore di una moltiplicazione indefinita delle identità sessuali.

Ciascuno è libero di concepire il genere come preferisce e di lottare secondo la sua concezione del genere, ma noi siamo convinte che il patriarcato non si sconfigge annullando le differenze. Il problema delle imposizioni di genere, come del nazionalismo o del fondamentalismo, è che sono ideologie del capitalismo rivolte alla conservazione di un dominio. La differenza non è un problema, il problema è il suo uso da parte del dominio. Non è una cosa positiva annullare le identità. Non è possibile né lottare, né liberarsi senza un’identità.

Anche nei rapporti omosessuali c’è dominio, ad esempio nell’incarnazione reciproca di ruoli ad immagine e somiglianza di quelli dominanti, e se dicessimo che non è così significherebbe soltanto che la nostra analisi dei rapporti sociali non è abbastanza sottile né abbastanza profonda. La differenza che esiste tra uomo e donna non è soltanto fisica ma riguarda anche ciò che chiamiamo in curdo erbun, ossia “esistenza”. Nelle nostre organizzazioni combattenti viviamo moltissimo secondo l’identità delle donne, passiamo un tempo infinito a discutere tra donne della nostra identità, che riscopriamo nella vita comune. In questo modo anche gli uomini possono cambiare.

Togliendo le identità non si sconfigge il patriarcato. Le differenze esistono, ad esempio il potere empatico è maggiore nelle donne: potrebbe essere dovuto alla cultura o agli ormoni, fatto sta che esiste questo fenomeno di maggiore empatia. Questo non implica, peraltro, che gli uomini siano privi di empatia. Ci dobbiamo anche chiedere quale tipo di maschilità è espressione di dominio e quale va in una direzione diversa. Noi non crediamo che esistano quattro o cinque sessi, e se esistono persone che hanno caratteristiche sia maschili che femminili non è certo un problema, ma non ci aspettiamo da questo alcuna liberazione.

Viene riportato un episodio secondo cui una donna straniera, nella città di Suruc, nel Kurdistan turco, si trovò accanto a un gruppo di donne delle Ypj e disse loro che la loro liberazione non era completa, perché non erano libere di fare sesso con chi volevano. Che cosa pensate di una simile osservazione?
La rivoluzione sessuale non ha portato maggiore libertà alle donne anzi, ha portato semmai maggiore oppressione e tante situazioni in cui donne hanno dovuto crescere i propri figli da sole, magari affrontando situazioni di povertà. La sessualità ha subito un lungo processo di repressione sociale e culturale, come ha bene spiegato, tra gli altri, Foucault. Con il potere patriarcale la donna è stata perseguitata con la caccia alle streghe e quindi rinchiusa tra le mura domestiche alla mercè del marito. Molto forte è stata l’influenza della chiesa, che ha sempre visto il sesso come qualcosa di sporco.

Quando la gente si è ribellata, è esplosa ed ha esagerato e ciò che abbiamo di fronte oggi non è una soluzione. Il sesso è oggi al centro di tutto, secondo una logica che ricorda quella del Marchese De Sade. Quando si opprime troppo qualcosa, poi c’è l’esplosione e si esagera nella direzione opposta, ma questa non è libertà. Né la chiesa, né la società sessuale offrono libertà alla donna, che oggi è semmai espropriata e sfruttata sul terreno della sessualità e sottoposta a una continua pressione sessuale. Una delle organizzazioni di liberazione curde, il Pkk, ha deciso di bandire i rapporti sessuali tra i suoi militanti. Questo non perché l’istinto sia una cosa negativa, ma perché hanno detto che, finché non sono liberi e non possono unirsi liberamente, preferiscono non avere alcun rapporto piuttosto che averne influenzati da relazioni malsane.

Per ciò che riguarda le Ypj in Rojava, se vogliono possono avere relazioni e rapporti, ma prima devono essere educate affinché non cadano in relazioni ingenue e abbiano la possibilità di conoscere prima di fare esperienze. Al tempo stesso, in questa società molto conservatrice, ora la gente percepisce che qualcosa sta cambiando, che avere delle relazioni è possibile, che le cose sono più libere di prima. La rivoluzione del Rojava, d’altra parte, non può certo essere vista come una rivoluzione delle donne ormai completata, anzi abbiamo ancora molto da lottare e non possiamo dire di avere già vinto su questo e su altri piani.

A questo proposito una delle istituzioni che maggiormente possiede potere in questa società, e che ha sempre avuto una funzione delicata in rapporto all’esistenza femminile, è la famiglia.

La famiglia può essere considerata come un piccolo stato. Ciononostante, al momento non possiamo smantellarla. Forse un giorno questo sarà possibile, ma non ora. Ciò che noi portiamo avanti nelle nostre organizzazioni e nel movimento, in ogni caso, è quello che chiamiamo vita libera in comune. Appena pronunciamo questa espressione c’è chi pensa al sesso o a questioni riguardanti il matrimonio, ma non è soltanto questo, dalle comuni ai comitati rivoluzionari c’è questa vita libera in comune. I co-presidenti uomo/donna in tutte le cariche sono una sfida potentissima alla società in cui viviamo, perché presentano pubblicamente persone di sessi diversi che compaiono pubblicamente insieme senza essere sposati, ed al tempo stesso senza essere visti come asessuati, mostrando che la collaborazione e l’amicizia tra uomini e donne è possibile.

III.Etica ed economia

Appare piuttosto chiaro che per voi l’etica è il prendersi cura della collettività in modo responsabile; ma come sempre nelle questioni etiche, che cosa questo significa può dare luogo a contraddizioni.

L’etica, come l’estetica, ha sempre rappresentato un problema nella storia. È un problema stabilire che cosa è bene e cosa è male, le religioni profetiche monoteistiche hanno dedicato molto spazio a questo, perché anche nella logica del dominio di stato la separazione tra un bene e un male è essenziale. Noi dobbiamo affrontare la questione del bene e del bello attraverso la lotta. Si tende a pensare che questi termini abbiano a che fare con la filosofia o l’arte, ma hanno a che fare con la vita e con la società. La prima domanda che ci dobbiamo porre, in rapporto all’etica e all’estetica, è: quale tipo di persona ci piace, quale non ci piace? A partire da questa domanda comprendiamo quanto etica ed estetica siano legate alla vita.

Le concezioni del bene e del male, se guardate da questo punto di vista, non differiscono particolarmente da cultura a cultura. A chi piacciono i bugiardi, i presuntuosi, i parassiti? Se nascono problemi in rapporto all’etica è perché anche la questione del bene e del male è stata complicata e inquinata dalle relazioni di dominio, da una cultura della schiavitù. La rivoluzione del Rojava non è soltanto una guerra, ma anche un cambiamento sociale e personale. Dobbiamo chiederci: perché la gente mente? Perché vive sulle spalle degli altri? Dobbiamo lottare contro il nostro egoismo, la nostra disonestà, la nostra presunzione. In questo modo potremo avviare un processo in cui donna e uomo, e città e villaggio, possono trovare una nuova armonia.

Lottare contro noi stessi significa limitare anche i nostri istinti?

Negli anni Novanta la guerriglia curda ha sostenuto combattimenti drammatici e ha anche ottenuto grandi risultati, ma questo ha provocato anche una perdita di umanità da parte dei suoi combattenti. La creazione di unità femminili va inquadrata anche in una funzione di antidoto a questa degenerazione. In Rojava abbiamo lo stesso problema nelle Ypg, i giovani che riescono ad ottenere dei successi come combattenti pensano allora di essere bravi e capaci in tutto. La guerra è pericolosa. Non dobbiamo mai smettere di chiederci: quali sono i nostri principi? Quali sono le cose che ci piacciono?

Facciamo molti errori. Ad esempio, in questa rivoluzione non stiamo mettendo sufficientemente al centro le capacità espressive, il video, la musica. La musica e il cinema sono molto legati alle relazioni di potere e al problema etico. In quale canzone l’eroe è un ladro, o un bugiardo? Ci sono tante canzoni che riflettono potentemente la rivoluzione, dovremmo riuscire a far conoscere maggiormente le nostre lotte, i nostri eroi, la nostra cultura. I film capitalisti cercano di convincerci che dobbiamo vivere in sola conformità all’istinto, ma noi possiamo fare film diversi. Una persona che non è libera non è bella, chi è schiavo non avrà mai autonomia e ciò che consideriamo bello è connesso con la libertà.

La corruzione etica ed estetica del mondo deve essere combattuta dalle donne, che in questo senso possono aiutare anche gli uomini a correggersi, sebbene il compito delle donne, in questo, sia anche combattere contro sé stesse. Come si correggono gli errori? Non con la critica continua, ma mostrando l’umiltà con l’esempio. Nel capitalismo non c’è nulla che abbia valore se non è legato a un tornaconto, a uno scambio: questo produce un’influenza altissima sulla psicologia delle persone. La gente cerca di sfuggire a questa pressione, allora si inventa viaggi o vacanze, hobbies o scopre la meditazione, ma sono false soluzioni, perché sono risposte individualistiche. La psicologia materialistica o individualistica non può, però, essere cambiata aggredendo la persona, perché la sua reazione sarà peggiorare ancora di più. Occorre far comprendere che l’individualismo non aiuta, perché se si è immersi in una situazione negativa, lo si è anche da soli.

Avete nominato l’estetica, associandola all’etica; per la verità, sembra che etica ed estetica tendano a sovrapporsi nel vostro pensiero.
Tutta la tradizione filosofica associa, in un modo o in un altro, etica ed estetica, e questo è giusto. Se qualcosa è buono è anche bello, non si può davvero distinguere. Ciò che vogliamo è costruire rapporti sociali improntati alla libertà e senza principi etici non è possibile: la bellezza è legata a questo processo. Una donna bella fisicamente ma ignorante, priva di volontà, non è davvero bella, schiava e bella non è bella. L’etica e l’estetica sono strettamente connesse. Se sono giusta ma agisco con brutalità, il metodo è sbagliato. Un altro esempio: se esprimo critiche giuste (etica) ma le dico a voce molto alta nell’assemblea, in modo antipatico (estetica) sono meno efficaci. Anche in questo caso separare nettamente estetica ed etica non è possibile.

Il tema della critica nel rapporto tra militanti è molto presente nel vostro movimento.
Nell’ideologia del dominio capitalista la critica altrui è bandita, perché è vista come una limitazione della libertà dell’altro. Foucault ha mostrato che il biopotere è entrato in noi, e ne segue che è necessario ogni volta distinguere tra ciò che, dentro di noi, è davvero nostro, è ciò che è dettato dall’influsso del capitalismo. Criticare e rivolgersi in questo senso agli altri non è aggressivo e non è una limitazione della libertà, è anzi un modo per aiutarsi a vicenda. Dobbiamo cambiare modo di vedere, pensare, agire: cos’è connesso con me, che cosa con il sistema?

La psicoanalisi è la professione dell’indagare il malessere psicologico altrui, mentre noi pratichiamo l’autoanalisi: la compagna o il compagno, in alcune organizzazioni del movimento curdo, si alzano in piedi e iniziano a parlare all’assemblea di sé stessi, della propria famiglia, delle proprie relazioni sociali, delle proprie origini, ecc. Dobbiamo sempre chiederci: come sono diventata ciò che sono? Chi voglio essere? Nella dimensione collettiva dobbiamo d’altra parte essere sottili, sapere tutto ciò che accade, ad es. se una persona ha subito un lutto familiare di recente, e quindi non deve essere sottoposta a eccessive pressioni psicologiche, ecc.

Anche la critica deve essere portata avanti senza modi che nascondono un’aggressività di fatto. Alcune organizzazioni del movimento organizzano una volta all’anno una “piattaforma” in cui tutti si riuniscono e ciascuno rivolge le proprie critiche e fa autocritica. I partiti curdi danno ai propri militanti l’opportunità di trasformare sé stessi. Quando però una persona riceve molte volte lo stesso genere di critica e non cambia, significa che ha una difficoltà.

Tutto il vostro pensiero sembra orientato alle qualità soggettive del movimento rivoluzionario. Che posto ha in esso l’economia?
Come nel caso della politica, pensiamo che la nozione di economia sia stata interessata da un completo capovolgimento nel corso del tempo. La definizione attuale di economia, secondo gli specialisti, è quella di “scienza che deve soddisfare bisogni illimitati con mezzi limitati”. Questa definizione è sbagliata per come vede il mondo e anche per come le persone, al suo interno, sono di fatto concepite. Non si può concepire la natura come una “risorsa”, ossia vederla esclusivamente in relazione all’uomo; né è vero che i bisogni umani sono “illimitati”. Certo là dove l’elemento etico non esiste i bisogni dell’individuo possono essere illimitati, perché la responsabilità sociale dell’individuo è completamente oscurata; ma dove l’etica esiste, è essa stessa che provvede a limitarli. Da ciò consegue che tutte le teorie economiche sono false.

Il termine “economia” deriva dall’unione delle due parole greche oikos e nomos, casa e legge. In curdo chiamiamo l’economia abori, che significa “poter vivere”. Vediamo ancora una volta che il significato originario mette la donna al centro, poiché è al centro della vita domestica ed è responsabile per il cibo e altre questioni della casa, ma la definizione odierna la emargina, rimuove

questo elemento di centralità femminile. L’idea dell’illimitatezza dei bisogni non esisteva all’inizio, poiché in verità non abbiamo bisogno di tante cose, possiamo limitarci: i bisogni illimitati non esistono. D’altro lato la completa negazione dei bisogni è prodotta proprio dalla definizione moderna di economia: i morti per fame sono un fenomeno storico, prima non esistevano perché non esisteva l’attuale divisione sociale tra pochi ricchi e tanti poveri. Nelle società etiche la gente si aiuta, non si arriva al punto di morire di fame.

Tutto il vostro pensiero politico sembra rivolto al passato.
Non abbiamo bisogno di costruire una società “nuova”, perché esistono ancora tracce della società che fu. Critichiamo il marxismo, che intende promuovere la costruzione di una società nuova, è un errore, perché si tratta di rivitalizzare ciò che fu un tempo ed è stato schiacciato. Per i marxisti i villaggi sono sempre popolati da gente reazionaria, mentre è proprio in quei villaggi che permane la traccia etica che permette di costruire una società democratica. Ciò che accade in quei luoghi, se ci sono comportamenti sbagliati, è che ha spazio l’influenza che comunque la mentalità statale del dominio ha avuto su di essi. Noi ci rivolgiamo alla popolazione e proponiamo ad essa di tornare a conoscere sé stessa, di tornare alle proprie radici, che non erano quelle che vediamo all’opera oggi.

Quali sono le forze che, secondo voi, possono contribuire a restaurare l’eticità dei rapporti sociali nell’economia?
Ciò che oggi è chiamata economia non è tale, è ciò che Ocalan chiama “economia del furto”. Le borse, le banche, la finanza sono enti creati per rubare ricchezza alla comunità. La base reale dell’economia è data da donne, pastori, contadini, artigiani, piccoli commercianti. La donna occupa il posto centrale nell’economia reale, ma l’economia ufficiale ne marginalizza la funzione per potersi appropriare più facilmente dei frutti della sua fatica. Ora noi non ci riconosciamo nella critica marxista dell’economia politica, perché essa è fondata sull’accettazione della concezione dominante dell’economia.

La teoria del valore può essere sintetizzata attraverso l’esempio dell’albero che viene tagliato, la cui legna viene lavorata, imballata e trasportata e quindi venduta secondo un certo valore che le viene assegnato; Marx dice, giustamente, che a chi ha lavorato non viene riconosciuto il contributo determinante che ha fornito, ma commette l’errore di assegnare tutto il valore al lavoro dell’operaio, dimenticando che l’albero ha un valore in sé e che la madre, la moglie e la figlia dell’operaio hanno cucinato la colazione e il pranzo dell’operaio, hanno fatto per lui le pulizie, lo hanno aiutato in vari modi, ecc.

Tutto questo è ignorato sistematicamente, ma senza questo ruolo della donna l’economia non esisterebbe e il lavoratore non potrebbe neanche lavorare. Il lavoro della donna viene ignorato, anzi, qualificato come non-lavoro perché improduttivo, come mostra il modo di dire “non lavora, sta a casa”, come se la casa non fosse il centro dello sforzo e dell’economia. Questo stato di cose non riguarda soltanto il medio oriente, ma anche l’Europa, come ha fatto notare nei suoi libri Silvia Federici.

Un’economia libera prevede quindi una maggiore centralità delle donne?
Nell’antica società, ad esempio nell’antica Mosul (Niniveh), le donne avevano un ruolo importante. Ad esempio è noto che in quella località la produzione della birra era affidata alle donne perché si riteneva che, contrariamente gli uomini, avessero maggiore capacità di autocontrollo. Oggi, invece, abbiamo difficoltà a coinvolgere le donne nel processo economico, ad esempio nelle cooperative che costruiamo in Rojava, perché la cultura dell’esclusione economica è entrata profondamente nell’animo delle donne. Abbiamo molto casi, addirittura, in cui le donne faticano ad accettare la loro paga, perché sono abituate a pensare che soltanto gli uomini sono capaci di gestire il denaro.

Si tratta di ripensare l’economia, anche agricola, e rendere lo sforzo connesso con la soddisfazione dei bisogni qualcosa di desiderabile. Nel folklore agricoltura e cultura sono spesso associate, e del resto lo sono anche nell’etimologia. L’etica mantiene ampie tracce nel mondo agricolo, che dobbiamo riconoscere ad esempio nel fatto che i pastori usano ancora dare un nome a ciascuna delle loro pecore, ciò che mostra la considerazione sana della natura che si rifiuta di vedere la realtà economica come un oggetto. I contadini amano raccogliere i pomodori perché sanno che poi li porteranno a casa ai propri figli. Nel lavoro capitalista la gente non aspetta altro che il momento di staccare e andare a casa. L’economia deve essere connessa con i bisogni reali delle persone: così si evita l’alienazione del lavoro.

Come è possibile creare un’economia che metta al centro questa posizione etica verso la natura?
Oggi ci sono tanti oggetti tecnologici che circolano e la gente è convinta di averne davvero bisogno, ma non è vero. Occorre anzitutto cambiare questa mentalità consumistica e ancora una volta possiamo partire dai fondamenti etici dell’economia che il capitalismo non ha debellato. La gente che lavora sa che non si può avere tutto, sono i parassiti che vogliono sempre avere tutto. Nella guerriglia, sulle montagne, le persone devono compiere enormi sforzi per procurarsi anche soltanto un po’ d’acqua, o per ottenere ciò di cui sostentarsi, quindi conoscono il valore delle cose prodotte dai loro sforzi. Le favole antiche sulle cicale dimostrano che la gente, non a caso, non ama i nullafacenti che vogliono essere serviti e riveriti.

L’etica di cui parlate è quindi anche un’etica del lavoro?
Non del lavoro, che in curdo chiamiamo kar, ma dello sforzo, che chiamiamo ked. Anche Marx operò questa importante distinzione [Nel Capitale, Karl Marx usa le parole inglesi work, a denotare l’opera libera di trasformazione della natura, e labour, che invece è tale opera quando inserita nei rapporti sociali capitalistici, Ndr]. La gente vuole essere popstar o calciatore, evitare il lavoro e avere tanti soldi, ma lo sforzo è connesso alla vita, è malsano volerlo evitare ed è qualcosa che possiamo fare con felicità. L’idea che qualcuno sia esonerato da ogni sforzo crea le disparità sociali, ed esse non sono ben viste nelle società, sono considerate negativamente ovunque.

Lo sforzo può essere compiuto con piacere quando si è consapevoli che i suoi frutti saranno condivisi in una prospettiva comune. Neanche gli animali vivono senza sforzo. Per loro è normale sforzarsi per soddisfare i propri bisogni, a meno che non abbiano un padrone che gli fa trovare sempre la pappa pronta… Il sistema, invece, crea persone disoccupate e persone che lavorano ventiquattr’ore al giorno.

Lo sforzo di cui parliamo non è soltanto fisico, è anche morale, significa prendersi cura di chi si ha attorno, aiutarsi a vicenda, non lasciare nessuno solo. Non si può essere indifferenti verso le difficoltà degli altri, e in caso contrario è giusto che chi lo è vada incontro alla critica. Non insegnare a leggere e scrivere a chi non conosce la lingua non è accettabile, quindi se qualcuno non conosce qualcosa, bisogna insegnargliela. Nella vita comunalistica nessuno deve essere lasciato solo, lo sforzo etico-politico è una responsabilità sociale. In questo modo immaginiamo una modernità non più capitalistica, ma democratica.

IV.Stato e partito

Alcuni termini che il vostro movimento fa propri e rivolge contro il capitalismo e lo stato – come “politica” o “democrazia” – sono nati nell’ambito delle città-stato greche, dalla cui rappresentazione lo stato liberale trae il proprio paradigma ideologico. Perchè usate una terminologia statale per descrivere ciò che è antecedente, esterno o contrario allo stato?
Avremmo senz’altro potuto rinunciare al termine “politica” (o “democrazia”) e crearne uno nuovo, ma preservare questi termini è una nostra precisa scelta. Noi ridefiniamo le parole, cerchiamo di reincontrarle in conformità ai nostri bisogni. Cambiare il lessico significherebbe lasciare sguarnito un campo di battaglia. Gli oppressi e le donne, oggi, rifiutano la politica, perché identificano la politica con ciò che essa è oggi, nelle mani dello stato. Ciononostante non possiamo consegnare la politica al nostro nemico, né sul piano lessicale, né su quello pratico.

Dobbiamo proseguire questa lotta sul terreno della politica, non dobbiamo lasciare sguarnito questo campo come fanno alcune femministe e alcuni anarchici, dobbiamo invece smascherare i significati originari e ridefinire le parole. Abbandonare questo campo lessicale non fermerà il dominio mondiale del capitalismo. Dobbiamo lottare per diminuire l’influenza dello stato e del nemico anche sulla comprensione del linguaggio. Dire che “politica” è sempre qualcosa di sporco significa consegnare la politica allo stato ed è un metodo sbagliato di lotta.

Dobbiamo immaginare il capitalismo come un piano, sul quale è inutile costruire un’isoletta minuscola dove creiamo i nostri linguaggi e inventiamo nuovi termini, e proponiamo visioni che non riescono ad allargarsi. Ciò che dobbiamo sviluppare è una sorta di assedio del piano del capitale da vaste regioni che lo rifiutano, che si allargano e si estendono per limitarne l’influenza, e infine annullarla.

Che cos’è un’azione politica indipendente dallo stato?

La storia umana ha attraversato due grandi fasi: quella della società etica, che è durata circa 10.000 anni, e quella della società statale, che dura da 5.000 anni. Noi vogliamo instaurare la società democratica, che è la rivitalizzazione dell’etica e della politica attraverso l’eliminazione del capitalismo e dello stato. Quando parliamo di opposizione allo stato e al capitalismo, tuttavia, non immaginiamo soltanto organizzazioni politiche che si contrappongono. Pensiamo a tutte quelle forme di convivenza che esistono e che si differenziano dal modello statale di politica, perché conservano l’elemento etico della responsabilità comune nelle loro relazioni.

Da questo punto di vista pensiamo alle tribù indigene in varie regioni del pianeta, ai villaggi che conservano una struttura clanica. La nostra concezione non si accoda all’idea che vi sia stata prima una società schiavistica, poi una feudale, quindi una capitalistica; il passaggio fondamentale è stato quello da società etica a società statale. Occorre investire sul potere della vita, provare a organizzarsi senza lo stato. Questo conflitto non lo introduciamo noi, è sempre esistito, perché l’instaurazione dello stato non ha eliminato le relazioni etiche, le ha soltanto schiacciate e marginalizzate, tentando di distruggerle, ma esse hanno resistito e si sono sempre contrapposte allo stato per sopravvivere.

La società capitalista non è quindi il presupposto storico di quella comunista?

Il capitalismo è un sistema in contraddizione con la società, è come un cancro che divora il corpo sociale. Riteniamo sbagliato parlare di “società capitalista”: come può una società essere “capitalista” o “feudale”? È una contraddizione in termini: si tratta di sistemi che si sovrappongono alla società, al cui interno al contrario sono sempre esistite forze di carattere diverso che hanno resistito. Il capitalismo è un sistema che distrugge tutto ciò che incontra, come può essere il presupposto del socialismo? Non condividiamo questa concezione.

La vostra può apparire una visione manichea, che impedisce di cogliere l’ambivalenza insita nei processi storici: possibile che lo stato e il capitalismo, come eredità umane, non abbiano mai prodotto alcun avanzamento, magari paRziale, o in relazione a elementi della condizione che li ha preceduti? Possibile che, al contrario, la società clanica e tribale possieda soltanto aspetti positivi?
Per noi la società naturale è importante e non a caso, crediamo non ci sia alcun bisogno del capitalismo e dello stato, perché possiamo organizzarci da soli. Esistono problemi in qualsiasi società, ma le società etiche possiedono meccanismi per risolvere questi problemi. Tuttavia ci sono problemi di metodo. Non diciamo che la società naturale fosse perfetta, c’erano problemi anche lì, ma quel che era diverso è che esisteva un modo di accostarsi ai problemi che permetteva di risolverli, perché esisteva la responsabilità etica della comunità che gli stati e il capitalismo hanno attaccato e tentato di distruggere nella storia.

Lo stato e il capitalismo sono oppressione e null’altro. Non pensiamo ci sia bisogno del capitalismo né vogliamo essere riformisti, perché il capitalismo porta soltanto situazioni di oppressione, e lo stesso vale per lo stato. Noi cerchiamo di creare un’alternativa creando altre strutture. Tutte le forme di civilizzazione hanno portato più violenza e oppressione che miglioramenti, e anche ciò che vi è di negativo nelle comunità tribali è stato prodotto dall’influenza del pensiero legato allo stato e alle logiche di dominio. Non crediamo che non ci fossero problemi nella società naturale, ma vogliamo far comprendere come una società senza capitalismo e senza stato è possibile.

Quali sono, per voi, i presupposti storici della rivoluzione?

Viviamo in un mondo dove esiste un grande miscuglio di lingue, religioni e stili di vita, oltre che di idee politiche. Ciò è dovuto al bisogno reale di etica e politica che c’è nella società, perché ciò che cercano le persone è una vita dove i bisogni reali, e non quelli dello stato, siano assicurati. Si tratta di proteggere la vita, e di farlo con regole, compromessi, soluzioni: una società etico-politica permette a tutte le culture e tutte le lingue di convivere.

La rivoluzione deve quindi eliminare lo stato. Si tratta di un evento immediato o credete sia necessario un passaggio graduale?

Il processo di creazione delle comuni è uno dei fatti più importanti e uno dei successi più grandi di questa rivoluzione, ma anche in questo campo non mancano i problemi. La società ha le sue contraddizioni. Possiamo fare l’esempio della poligamia. Allo stato attuale le comuni non hanno la prerogativa di decidere se mantenere la proibizione della poligamia decretata dall’autonomia democratica del Rojava, o se reintrodurla. Questo potere è ad oggi del coordinamento cantonale.

Ci sono donne che si sono opposte all’abolizione della poligamia dicendo che alcune donne restano sole e, talvolta, per trovare un marito e sostenere anche la propria condizione economica, si trovano nella necessità di sposarne uno che ha già moglie. Soltanto l’educazione può risolvere, con il tempo, questi problemi. Operare dei cambiamenti su questo terreno non è facile, la legge coranica ha una forte influenza sulla popolazione e probabilmente, se oggi si desse l’opportunità alle comuni di decidere su questo punto, molte reintrodurrebbero la poligamia. Per questo non dobbiamo autorizzarle a decidere su questi temi al momento, almeno fino a che non avremo condotto un’azione educativa molto forte all’interno della società.

Permane quindi una distinzione tra popolazione e organizzazione rivoluzionaria.
La società o il popolo non sono il partito, e la funzione primaria del partito è portare l’educazione tra la gente, affinché inizi a ragionare in modo democratico. Quando ciò sarà avvenuto, quando la gente sarà in grado di organizzarsi da sola, allora il partito dovrà farsi da parte, perché non sarà più utile. Per ora, però, il partito ha dei quadri nei consigli, benché la maggioranza delle figure dei consigli sia già costituita da persone che provengono dalla popolazione e hanno attraversato una fase di educazione, o che comunque contribuiscono alla rivoluzione senza appartenere alla nostra organizzazione. Se non accettassimo la partecipazione popolare e la presa di responsabilità delle persone provenienti dal popolo, commetteremmo lo stesso errore che portò al fallimento della rivoluzione sovietica: la società deve essere messa in condizione di autogovernarsi. Noi vogliamo coinvolgere tutti in questo processo e investire tutto nell’educazione, per lasciarci alle spalle 5.000 anni di oppressione.

A cura di Infoaut.org e Radio Onda d’Urto