Biji Newroz!: raccontare un popolo che non si arrende

Quando da piccolo partivo in vacanza con la mia famiglia, mio padre diventava l’obiettivo di tanti scherzi tra gli amici di famiglia perché riusciva a trovare “compagni” in ogni angolo della terra. Io non riuscivo bene a inquadrare il termine. Per abitudine lo associavo a qualcosa di buono, che ti fa sentire di essere parte di una famiglia più grande. Poi con gli anni l’ho riempito di contenuti politici ed esperienze umane, buone e cattive.

Ricordo che nelle steppe turche o in una qualche taverna greca dispersa in mezzo ai monti, mio padre, parlando solo italiano ma comunicando in un’infaticabile sequenza di gesti riusciva a entrare in sintonia con degli sconosciuti. Condividendo una sigaretta o un bicchiere di vino, si girava verso di noi e con un sorriso a trentadue denti sentenziava: – è dei nostri, è un compagno!

Questo generava immancabilmente le risate dei nostri amici, ma io ci trovavo un qualcosa che mi trasmetteva tranquillità, come a farmi sentire a casa.

Quella parola lui l’ha imparata nella sua storia di emigrante dentro le fabbriche di Milano o tra gli operai di mezza Europa in una città industriale del nord della Francia e rimandava a una qualche idea originaria di condivisione, sicuramente delle stesse condizioni di vita.
È stato proprio lui, un giorno, a spiegarmela così, a me ancora bambino: -Vedi, il mondo non è una marmellata indistinta, ovunque ci sono oppressi e oppressori. Noi comunisti stiamo dalla parte degli oppressi. Per questo puoi trovare compagni in tutto il mondo, ognuno può aprirti le porte di casa sua e introdurti nel suo mondo. Così attraverso gli stessi occhi possiamo capire meglio il luogo in cui siamo. Questo è il bello dell’essere comunisti: ovunque vai trovi gente come noi… trovi dei fratelli!-

Negli anni ho continuato a ritrovare questo insegnamento prezioso nei viaggi fatti all’insegna della solidarietà internazionale: dai territori occupati palestinesi ai quartieri repubblicani dell’Irlanda del Nord, dalle strade in fiamme di Atene alle taverne del popolo nei paesi baschi fino alle realtà ribelli d’Italia e d’Europa.

Sono appena tornato dalla mia prima carovana in Kurdistan. E come ogni volta è difficile dipanare quella matassa di emozioni che lasciano esperienze del genere.

Ci proverò a partire da una fotografia: il Newroz a Diyarbakir.
Ogni anno il popolo curdo festeggia nei giorni dell’equinozio di primavera il proprio capodanno. E’ una festa antichissima e non religiosa e tutte le città e i villaggi allestiscono festeggiamenti tra il 18 e il 21 di marzo. Il più grosso si tiene proprio a Diyarbakir, Amed in curdo, la capitale.

Partiamo da Sanliurfa in furgone e sulla strada facciamo sosta in un autogrill semiabbandonato in mezzo al nulla. Nel pieno di una bufera con un freddo becco e una pioggia violenta e laterale, poco a poco anche altri furgoni si fermano e in un attimo esplode la festa, ragazzi e ragazze si uniscono in cerchi di danze e canti di resistenza. Non resta che scrollarsi il freddo di dosso, bersi l’ennesimo çai e rimettersi in viaggio con fiducia: questo era solo un assaggio di come il Kurdistan intero si sia messo in moto per raggiungere Amed.

Ma ecco che davanti a noi si apre un fiume di gente a perdita d’occhio che confluisce dentro un mare colorato di persone, chi in vestiti tradizionali chi in fogge da combattente, famiglie, donne, vecchi, bambini e adolescenti in subbuglio, tra fango, pioggia e vento.
Venditori di sciarpe e magliette, banchetti improvvisati di çai, kebab, baklava, profumo di carne grigliata e l’eco lungo e potente dell’amplificazione dal palco. E poi, in mezzo alla folla infinita, cerchi di uomini e donne abbracciati al ritmo dei balli tradizionali. Ragazze vestite da guerrigliere, in omaggio alle combattenti del YPJ/YPG, eroine ed eroi popolari entrati nella leggenda per la liberazione di Kobane.

Il faccione di Ocalan è ovunque.
Un colpo d’occhio impressionante, una massa di persone impossibile da contare.
In mezzo, attirano la nostra curiosità le bandiere arcobaleno dei gruppi lgbt e quelle rossonere dell’anarchia. In realtà niente di strano, è la testimonianza che nel mondo dei curdi c’è posto per tutti.

Noi, parte di una delegazione italiana, ci uniamo al fiume mentre le casse sparano l’Internazionale: siamo ragazzi sensibili e questo regalo ci gonfia il cuore – Questo si che è un benvenuto!- La cantiamo in italiano e da qui in avanti, riconoscibili dalla gente attorno a noi, saremo letteralmente abbracciati da questa folla con una grazia e un’ospitalità commoventi.

E’ bello ritrovare una sintesi delle parole cercate in anni di militanza e attivismo proprio qui, tra le mille bandiere di un popolo che ha scelto di non rinchiudersi dentro un confine: anticapitalismo, democrazia diretta, uguaglianza di genere, ecologia, autogoverno. Senza paura di apparire un po’ naif si può tranquillamente dire che c’è parecchio da imparare da queste parti.

Viene sicuramente da respirare a pieni polmoni.

Perchè il Newroz, festa pagana e simbolo dell’identità curda, ha sempre incontrato solo repressione da parte del governo turco mentre ora, compreso che è impossibile cancellare questa storia, cerca pateticamente di appropriarsene annacquandone il portato simbolico.
Mi faccio spiegare da un signore il significato del Newroz, lui mi racconta una storia: – c’era un re dispotico che pretendeva i figli dal suo popolo da dare in pasto al suo drago. Un giorno Kawa, un fabbro di umili origini e padre di sette figli decide, quando gli rapiscono l’ultimo figlio rimasto vivo, di reagire ed entrare nel castello del re per ucciderlo. Non sapeva che suo figlio era riuscito a mettersi in salvo scappando tra il popolo delle montagne e stava organizzando la resistenza contro il re. Una volta ucciso il re, il castello venne bruciato e questo fu il segnale della liberazione. Per questo ancora oggi accendiamo grandi pire!

In questa leggenda c’è una storia di ribellione su cui si fonda la memoria collettiva di un popolo che la dice lunga sul suo spirito indomito e combattivo.

Arriva il momento della lettura, in curdo e turco, del messaggio di Ocalan. La venerazione per un leader è cosa difficile da spiegare dalle nostre parti, eppure mi basta la spiegazione che ci dà Yasmine, dirigente del BDP: -io sono cresciuta parlando solo turco. Ocalan ci ha ridato un’identità e ci ha insegnato a riprenderci la nostra dignità di popolo- ricordando come lo stato turco ha represso l’utilizzo della lingua curda per lungo tempo. Un leader che è ancora in grado di indicare una strada e avviare un processo di rinnovamento dei propri riferimenti culturali e politici, nonostante sia rinchiuso in carcere da quindici anni.

Il messaggio, come ci spiegano, non è nulla di nuovo rispetto all’anno scorso: ribadisce la volontà di chiudere la stagione della lotta armata in Turchia e trasformarla in lotta politica. Propone la convocazione di un congresso che affronti la questione del disarmo e passa la palla al governo turco. Ora spetta a loro dare un segnale. Gli attivisti ci dicono che il congresso del partito accetterà la proposta in cambio del rilascio dei prigionieri politici.
Dentro al discorso si fa riferimento al superamento dello stato-nazione e alle sue derive nazionaliste e razziste, in una narrazione che trasuda di pensiero libertario.

Intanto una colonna di fumo nero e denso si alza al cielo: è la pira al centro della piazza che sta bruciando. Inizia un nuovo anno.

È bello sentirsi a casa.

di Niccolò di Milano
http://milanoinmovimento.com