Erdogan invade il Rojava: la rivoluzione è sotto attacco

Nuova offensiva turca nel nord della Siria con la benedizione degli USA e del Cremlino.Obiettivo: fermare il confederalismo democratico. I Curdi , rischiano ora di essere moneta di scambio tra Erdogan, Obama e Putin.

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Alcuni tweet lanciati da attivisti curdi nella tarda serata di martedì 23 agosto preannunciano l’inizio dell’operazione. La città di Karkamis, gemella di Jarablus sull’altro lato del confine turco-siriano è stata evacuata. Dopo 3 giorni di bombardamenti contro “ISIS e PYD” centinaia di truppe e decine di carri armati sono schierati per chilometri lungo quella striscia di terra che la Turchia condivide da oltre 2 anni e mezzo con ISIS. Poche ore dopo viene lanciata ufficialmente l’operazione “Scudo dell’Eufrate”.
“Scudo dell’Eufrate’”: impedire che Jarablus venga liberata dai curdi

Alle 4 di notte la Turchia invade ufficialmente il nord della Siria sconfinando con oltre 30 carri armati e circa 1000 uomini immortalati in una lunga fila indiana mentre marciano verso il confine. Piuttosto che prepararsi alla battaglia per la liberazione di una città occupata da Daesh, sembrano più impegnati a scattare selfie, posare per i fotografi e salutare alzando talvolta le armi, talvolta facendo il “gesto delle corna”, il saluto fascista utilizzato dal movimento dei lupi grigi legato a doppio filo con il suo braccio politico, il partito dell’MHP.

Accompagnati dai tank e dai comandanti turchi ci sono gli uomini che Erdoğan e l’Occidente hanno sempre definito i “ribelli moderati”. Stiamo parlando di un pezzo di quella galassia di sigle che sta sotto la definizione di Free Syrian Army e che possiamo racchiudere in particolare nel “battaglione del nord”.

A prendere parte ufficialmente all’operazione con l’esercito turco sono le formazioni Harakat Nour al-Din al-Zenki, Jaish al-Tahrir, Sultan Murad Division e la 13th Division. Stiamo parlando di formazione jihadiste che hanno operato per lo più nella zona di Aleppo e Latakia, soprattutto per quanto riguarda la brigata turcomanna (comandata da Alparslan Çelik, membro dei lupi grigi) che poi è la stessa passata agli onori della cronaca per aver ucciso i piloti russi abbattuti dall’aviazione di Erdoğan. In ogni caso tutte queste formazioni hanno ricevuto l’appoggio diretto, soprattutto in termini finanziari, di Arabia Saudita e Turchia, ma anche degli Stati Uniti che le ha rifornite di armi pesanti quali i missili anticarro BGM-71 TOW.

Tutti questi gruppi sono stati accusati di crimini di guerra da diverse ONG internazionali come Amnesty International. Solo di pochi mesi fa è il terribile video che mostra miliziani di Harakat Nour al-Din al-Zenki torturare e infine decapitare ad Aleppo il bambino palestinese Abdullah Issa. Inoltre da diverse fonti pare confermato che nei giorni immediatamente precedenti all’operazione, sia avvenuta una opera di reclutamento all’interno dei campi profughi AFAD in Turchia.

Una fonte che vuole rimanere anonima ha dichiarato ai microfoni di Firat News: “Questi gruppi si sono avvicinati ai campi AFAD per reclutare membri. Hanno reclutato centinaia di ragazzi di età compresa tra i 14 e i 16 anni dietro il pagamento di una somma di 300 dollari a persona”.

Verso metà mattinata i media turchi che seguono in diretta le operazioni danno la notizia che le truppe sono entrare 3 km in territorio siriano, mentre dall’alto gli aerei da guerra della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti danno man forte all’operazione lanciando diversi raid su Jarablus. In breve giungono notizie di 29 civili uccisi durante i raid, che aumenteranno poi a 49 a fine giornata.

In contemporanea l’artiglieria turca bombarda postazioni YPG a Derik nel cantone di Cizire, circa 430 km a est di Jarablus ferendo un combattente.

Nel frattempo circa 3000 persone lasciano Jarablus e si dirigono verso le aree liberate dalla coalizione SDF subito a nord di Manbij.

Dopo neanche 12 ore dall’inizio dell’operazione, Turchia e gruppi FSA annunciano di aver raggiunto il centro di Jarablus prendendo il controllo della città. Video postati su twitter mostrano i miliziani aggirarsi in una città totalmente deserta.

Una liberazione lampo avvenuta senza neanche sparare un colpo: nessun segno di battaglia, nessun membro del Daesh ucciso o anche solo ferito, nessuna presenza di mine ed esplosive che pure rappresentano il maggior pericolo nelle città appena liberate dal controllo di ISIS. Basti pensare che l’operazione lanciata dal consiglio militare di Manbij per liberare la città è durata 73 giorni con pesanti scontri, circa 4000 miliziani Daesh uccisi e poco meno di 300 combattenti SDF caduti nell’impresa di scacciare ISIS, oltre ad una città disseminata di mine che hanno provocato diverse vittime, tra cui molti bambini.

In effetti diverse fonti locali hanno riportato di come ISIS abbia iniziato il ritiro dalla città a partire dalla settimana precedente, spostandosi oltre confine (in Turchia) oppure verso sud andando a rinforzare la linea del fronte nella battaglia contro la coalizione guidata dai curdi.

Altri pare abbiano solamente cambiato divisa, indossando quella dei gruppi FSA e unendosi a loro, così come annunciato via tweet da uno dei leader della città. Un abitante di Karakuyu, villaggio situato a 12-13 km da Jarablus, ha poi confermato in un’intervista l’assenza di scontri e come miliziani di Daesh, a gruppi di 10-15 per volta, abbiano abbandonato la città dirigendosi verso il confine turco a bordo di veicoli privati.
L’antefatto

Così come avvenuto nell’estate dello scorso anno quando dopo il massacro di Suruç la Turchia lanciò un’operazione contro ISIS, ma che nei fatti colpì da subito le basi del PKK, anche l’operazione “Scudo dell’Eufrate” è partita prendendo come pretesto l’attentato bomba che ha colpito un matrimonio curdo a Gaziantep, cui partecipavano militanti ed esponenti del partito HDP.

Da qui la necessità di “proteggere i confini della Turchia” e “prendere le dovute misure per proteggere il paese”, dichiarazioni che hanno ricevuto il supporto internazionale dell’Occidente verso la Turchia e il suo presidente Erdoğan.

Ma non solo. Il 22 agosto, ovvero solo 2 giorni prima dell’entrata turca in Siria, veniva annunciata la formazione del consiglio militare di Jarablus per la liberazione della città. Così come già avvenuto per Manbij, nel solco dell’autonomia e dell’autodeterminazione dei popoli, brigate, formazioni, unità di difesa popolari locali si erano riuniti come primo passo verso l’operazione che voleva portare alla liberazione della città ed alla scacciata di ISIS.

A solo 3 ore dalla conferenza stampa, il comandante generale Abdulsettar El-Cadirî, lo stesso che aveva dato lettura del comunicato, è stato assassinato da due agenti del MIT, poi successivamente catturati vivi. Un preambolo di ciò che sarebbe accaduto da lì a poco con l’invasione turca.
Jarablus per la Turchia: sostegno a Daesh, guerra ai curdi

Jarablus è una città di confine a ovest dell’Eufrate, ufficialmente occupata dall’ISIS dal 6 Gennaio del 2014 dopo aver scacciato gli altri ribelli anti-Assad che la controllavano dal 20 Luglio 2012.

Città storicamente a maggioranza curda, come altre paesi e villaggi nel nord della Siria, ha subito i processi di arabizzazione e assimilazione forzata iniziati con Assad padre e continuati negli anni successivi dall’attuale presidente Bashar Al-Assad.

Oggi la città è abitata in maggior parte da arabi, curdi e turcomanni. Questa piccola città di confine ha da subito assunto un ruolo di importanza strategica tanto per ISIS quanto per la Turchia. Dal momento in cui Daesh ha assunto il controllo dell’area, e in particolare dopo l’avanzata delle forze curde dello YPG successiva alla liberazione di Kobane (Gennaio 2015) e Tall Abyad (Giugno 2015), questa striscia di terra che corre lungo il confine turco-siriano per 90 km ha rappresentato per Daesh il maggior punto di transito in termini di rifornimenti di uomini, mezzi, armi e fertilizzanti utilizzati per produrre esplosivi.

Lungo quel confine è stato documentato – da parte di diversi media internazionali – come i volontari che vogliono unirsi alle fila dell’IS possano transitare con una certa facilità partendo dalla Turchia, e come in Turchia – proprio nella provincia di Gaziantep – avvenga lo smistamento del petrolio che lo stato islamico raffina nei giacimenti sotto il suo controllo nelle zone di Raqqa e Mosul.

Foto risalenti all’estate dello scorso anno hanno immortalato miliziani Daesh e soldati turchi a pochi metri l’uno dall’altro mentre si salutano, o gruppi di uomini del Califfato attraversare proprio quel confine, totalmente impermeabile invece per i profughi in fuga dalla guerra.

Dietro le “operazioni” e i “passaggi” al confine è spesso documentato il coinvolgimento del MIT, i servizi segreti turchi, come ad esempio nel gennaio 2015 quando due autobus scortati proprio dagli 007 turchi prelevarono 72 miliziani del gruppo armato jihadista nel campo di Atme in Siria per poi accompagnarli, via Turchia, fino alla cittadina di confine di Tall Abyad, dove gli uomini del califfo Al-Baghdadi stavano lanciando una nuova offensiva contro YPG e YPJ.

E ancora nel mese di ottobre 2015, a poche settimane dalle elezioni nazionali del 1° novembre, un video mostra un bus elettorale dell’AKP (il partito di Erdoğan) girare proprio per le vie di Jarablus nella mani di Daesh, mentre lancia slogan elettorali e diffonde la musica dell’inno imperiale ottomano.
Perché la Turchia entra in Siria?

È bastata solo qualche ora per chiarire che l’obiettivo della Turchia non era difendere il proprio confine da ISIS, bensì impedire la creazione di un “corridoio curdo”. Lo stesso Erdoğan ieri mattina ha dichiarato durante una cerimonia, che il principale obiettivo dell’operazione è il PYD (Partito dell’Unione Democratica) ovvero il maggiore attore in campo nella battaglia contro Daesh (YPG e YPJ sono le ali militari del partito) e fautore della rivoluzione del Rojava. Non c’erano dubbi a riguardo.

Prevenire il “corridoio curdo” nei fatti significa evitare a tutti i costi la scacciata di Daesh da quel pezzo di confine, che segnerebbe l’unione dei 3 cantoni del Rojava e la continuità territoriale finora mai realizzata dall’inizio della rivoluzione nel 2012. Si tratterebbe inoltre di mettere i bastoni tra le ruote a un progetto più ampio, che non riguarda solo i curdi, ma tutte le popolazioni e le etnie che vivono nel nord della Siria.

Con la conquista dei territori a ovest dell’Eufrate si realizzerebbe di fatto il progetto della “Federazione del nord della Siria”. Un progetto politico ufficializzato con il congresso tenutosi a Rmeilan il 16 marzo 2016, che esprime la volontà di autogoverno nel solco del confederalismo democratico, da parte delle popolazioni del nord della Siria.

Proprio della nuovo sistema federale farebbe parte il 4° cantone, quello di Shahba, che geograficamente va proprio da Jarablus fino al cantone di Afrin a ovest di Aleppo, e che vede Manbij come “capitale”.

La guerra oltre il confine: il doppio fronte

Nel complicato puzzle che si va a formare in queste ore, è da tenere in considerazione che la Turchia, con l’invasione di fatto del Rojava, apre un nuovo fronte di guerra oltre quello interno che da un anno a questa parte ha ripreso vigore.

Un anno di guerra contro la popolazione curda nel sud-est del paese attraverso le dichiarazioni di coprifuoco e le distruzioni delle città, la repressione politica contro l’opposizione HDP e i bombardamenti sulle montagne di Qandil, hanno spinto il PKK a riprendere il conflitto con la Turchia con una intensità che non si verificava da anni. Gli ultimi mesi hanno segnato una débâcle militare per gli uomini di Ankara.

Rispondendo ai massacri compiuti dall’esercito turco e all’isolamento a cui è sottoposto il leader curdo Abdullah Ocalan, il PKK ha compiuto un salto di qualità nella guerra contro l’invasore turco.

Secondo i dati forniti da HPG (ala militare del PKK) nell’ultimo anno quasi 3000 tra militari, poliziotti e forze speciali turche sono state uccise dalle azioni portate avanti dalla guerriglia. Le ultime settimane si sono contraddistinte per continui attacchi portati non solo contro le basi militari nelle aree rurali, ma anche e soprattutto nelle città, colpendo stazioni di polizia e caserme, come avvenuto a Elazig dove a morire sono stati 105 tra forze speciali e poliziotti. Nonostante la propaganda l’esercito turco sembra essere in pesante difficoltà e le perdite sono considerevoli.

E’ evidente che l’aggressione della Turchia verso il Rojava porterà a un innalzamento del livello di conflitto, tanto a livello militare con HPG, quanto come proteste della popolazione, visto che per il 1° settembre il movimento curdo ha annunciato una giornata di mobilitazione.
Lo scenario internazionale: la banderuola e l’alleato di sempre

In contemporanea con l’avvio dell’operazione “Scudo dell’Eufrate” il vice-presidente USA Joe Biden atterrava ad Ankara per incontrare il premier turco Binali Yıldırım per la prima volta dal tentativo di golpe del 15 Luglio.

Dopo le accuse turche rivolte agli Stati Uniti di essere dietro al tentativo di golpe, la prima visita americana in Turchia non poteva che preannunciare un riavvicinamento tra le due parti, tanto più che tra le prime dichiarazioni fatte da Biden all’arrivo c’era quello del supporto di Washington all’operazione.

Più tardi in conferenza stampa tutto è divenuto più chiaro: l’operazione è stata concordata con gli Stati Uniti e con l’appoggio aereo della coalizione. “Lo diciamo chiaro. Le forze curde devono ritirarsi ad est dell’eufrate, diversamente non avranno nessun appoggio da parte della coalizione” e ancora “Possiamo dire senza subbi che gli Stati Uniti sono il miglior alleato della Turchia” queste le parole di Biden.

A molti queste dichiarazioni sono suonate come una coltellata nella schiena alle forze curde che proprio a ovest dell’Eufrate, nella liberazione di Manbij, avevano trovato il supporto di USA e coalizione internazionale.

Un comportamento apparentemente schizofrenico, che in realtà rivela quanto era già chiaro, in primis alle forze YPG e SDF. Ovvero che l’appoggio di Stati Uniti fosse totalmente tattico, strumentale e condizionato dai rapporti internazionali, con la Turchia in particolare, da sempre il più forte alleato nell’area nonché secondo esercito più importante della NATO.

Attendendo le condizioni giuste gli Stati Uniti sono ritornati a fare comunella con la Turchia, che in realtà non hanno mai smesso di sostenere, in particolare per quel che riguarda la politica interna e la guerra al PKK.

Il riavvicinamento Russia-Turchia ha sicuramente influito nell’operazione, così come i colloqui Turchia-Iran. L’attacco sferrato dalle milizie di Assad e dai gruppi affiliati Hezbollah in quel di Hasake, terminato con la scacciata delle truppe di Assad dalla città, va certamente a inserirsi in una partita geopolitica giocati sulla pelle di migliaia di persone.

Ieri si è verificato quanto le forze curde avevano chiaro da sempre: il voltafaccia degli Stati Uniti sta nella normalità di essere protagonisti di una rivoluzione assolutamente scomoda per le forze imperialiste, per gli stati-nazioni e per tutti coloro che hanno grossi interessi economici nell’area. Questo i curdi, a differenza degli anti-imperialisti di casa nostra – sempre buoni a sentenziare seduti comodamente in poltrona – lo hanno avuto sempre chiaro. Così come il ruolo tattico della collaborazione con la coalizione internazionale.

“No friends but the mountains” sembra oggi più che mai una frase che non può essere smentita.

Una verità a metà: i curdi certamente non hanno amici tra i potenti, tra i governi e gli Stati. I loro amici sono i popoli e la solidarietà che hanno sempre cercato e ottenuto è arrivata esclusivamente da questi. È complicato oggi immaginarsi quali saranno gli scenari futuri. Ieri mattina Ankara ha inviato nuovi rinforzi sul confine e altre decine di carri armati sono entrate in territorio siriano.

E di fatto ieri l’avanzata delle forze SDF verso Jarablus è continuata, arrivando a 7 km dalla città e iniziando lo scontro con le milizie FSA supportate dalla Turchia. Gli scontri sono continuati per tutta la notte portate avanti soprattutto dalle milizie arabe guidate proprio dagli abitanti di Jarablus. I gruppi supportati dalla Turchia non hanno guadagnato un centimetro, 3 nuovi villaggi sono stati liberati e per il momento i gruppi jhiadisti hanno dovuto ripiegare nuovamente verso il confine.

Oggi la rivoluzione del Rojava è più che mai sotto attacco. Il nuovo quadro del conflitto siriano rischia di mettere alle strette il sogno del confederalismo democratico. Ma dalle YPG è arrivato un messaggio chiaro: “Questa è casa nostra, stiamo combattendo e morendo per la libertà di questa terra. Non prenderemo ordini da nessuno. Continueremo a resistere.”

di Luigi D’Alife, Dinamopress