Turchia verso il voto: viaggio nel Kurdistan, la polveriera che può gettare il paese nel caos

Se in tutta la Turchia sale l’attesa alla vigilia del voto anticipato di domenica, in Kurdistan l’atmosfera è ancora più tesa e drammatica. Qui il partito curdo Hdp ha messo a segno alle elezioni del 7 giugno scorso un successo senza precedenti: per la prima volta è entrato in Parlamento impedendo al partito islamico Akp del presidente Tayyp Erdogan, in piena deriva autoritaria, di ottenere la maggioranza assoluta.

Anche questa volta nell’Anatolia del Sud Est si gioca una partita decisiva ma si temono irregolarità e brogli: numerosi distretti dove l’Hdp raccoglie il 95% dei voti sono stati dichiarati “zone di massima sicurezza”, qui le urne elettorali saranno raccolte da militari e polizia mentre lo spoglio delle schede avverrà in località non ancora definite.

Prima e forse ancora di più dopo il voto, il Kurdistan può diventare una polveriera.

Nel cuore storico di Diyarbakir, 1,5 milioni di abitanti, il quartiere di Sur è stato sbriciolato dalla forze di sicurezza: tre morti, tra cui un ragazzino di 12 anni. Ne ha fatto le spese anche la cinquecentesca moschea di Fathi Pasha ed è sbarrato il portone della chiesa armena di Girargos dove in aprile si era commemorato il genocidio degli armeni del 1915. Da Diyarbakir, con la sua millenaria cinta muraria di basalto nero, imponente architettura militare protetta dall’Unesco che racconta la storia di eserciti e imperi alle porte della Mesopotamia, si osservano le conseguenze del marasma geopolitico di un’intera regione percorsa da decenni di instabilità, stravolta dalla disgregazione in Siria e in Iraq, dalle ambizioni di vecchi e nuovi raìs.

Dall’84 nel Kurdistan turco ci sono stati 35-40mila morti, tremila villaggi bruciati, un milione e mezzo di profughi, migliaia di militari e civili uccisi negli attentati del Pkk. Ma questa generazione rispetto a quelle precedenti oggi affronta anche un’altra guerra: sono gli stessi giovani che si sono arruolati volontari per difendere Kobane dall’Isil e vedono nel Rojava, il Kurdistan siriano, il magnete non solo della rivolta ma anche di un modello ideologico e sociale di autogoverno.

La deputata dell’Hdp Sybel Yigitalp sottolinea che l’affermazione politica dei curdi significa anche l’avanzamento democratico di tutta la Turchia. «Qui in Kurdistan e altrove c’è un forte impegno del nostro partito e dei movimenti delle donne per cambiare una società con tratti ancora profondamente patriarcali e feudali».

Quella del Kurdistan è una guerra manipolata, come altre del Medio Oriente. Prima dell’attentato di Ankara del 10 ottobre con oltre 100 morti, l’Isil e i jihadisti sono stati utilizzati contro i curdi. Non è un caso che le truppe speciali, quando è cominciata tra molte ambiguità la caccia ai terroristi, abbiano dovuto dare l’assalto a due casematte del Califfato in piena Diyarbakir: due morti tra i soldati, cinque tra i jihadisti.

Ma non è finita. A Cizre e Silvan sono comparsi a fianco dei militari uomini con lunghe barbe e giubbetti anti-proiettile che gridavano “Allah è grande”, minacciando di tagliare la gola ai curdi.

«Eppure qualche mese fa – racconta Hatip Diclet, capo storico del movimento curdo – la pace sembrava a portata di mano». Diclet, con dieci anni di carcere sulle spalle, ha fatto parte della delegazione che ha negoziato un accordo con i militari e i servizi di intelligence di Ankara nella trattativa condotta con il leader del Pkk Abdullah Ocalan nella prigione di Imrali. «Nel febbraio scorso eravamo arrivati a un accordo in 10 punti dopo tre anni di negoziati», dice Hatip Diclet.

Ma Erdogan in aprile ha respinto l’intesa e dopo le elezioni di giugno, con la vittoria elettorale dei curdi, ha dissotterrato l’ascia di guerra, subito seguito dalla guerriglia del Pkk. Da allora la morte in Kurdistan è tornata con cadenza quotidiana in un vortice di repressione e vendette.

di Alberto Negri -IL SOLE24ORE

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