Quanto è difficile fare opposizione in Turchia

Intervista a Nazan Üstündag è una sociologa, docente universitaria e fa parte dell’«Iniziativa della donne per la pace»

Nazan Üstün­dag è una socio­loga, docente uni­ver­si­ta­ria e fa parte dell’ «Ini­zia­tiva della donne per la pace». Col­la­bora con il quo­ti­diano Ozgür Gün­dem ed è una dei fir­ma­tari della let­tera scritta in pro­te­sta da 100 acca­de­mici prima della recente visita di Angela Mer­kel in Turchia.

Che tipo di clima si respira nel Paese alla vigi­lia delle ele­zioni?
È certo che non si tratta di ele­zioni che susci­tano entu­sia­smo. Per­ché ci sono già stati troppi appun­ta­menti elet­to­rali quest’anno e anche per­chè il risul­tato atteso è lo stesso delle con­sul­ta­zioni del 7 giu­gno scorso. Ci sono però dif­fe­renze che riguar­dano la fase pre-elettorale. Non che in occa­sione delle ele­zioni pre­ce­denti non ci fosse una dise­gua­glianza tra i par­titi poli­tici, ma que­sta volta la situa­zione è più mar­cata. Nelle ele­zioni pre­ce­denti c’erano dise­gua­glianze che da una parte deri­va­vano dalle leggi elet­to­rali tur­che, dall’altra per il fatto che il pre­si­dente della Repub­blica Tayyip Erdo­gan non si com­por­tava in modo impar­ziale nei con­fronti dei par­titi. Que­sta volta, però, stiamo assi­stendo ad un pro­cesso elet­to­rale com­ple­ta­mente ine­quo e ingiu­sto. Il par­tito demo­cra­tico dei popoli (Hdp) non è riu­scito ad effet­tuare comizi a causa dell’attentato di Ankara e allo stesso tempo non ha potuto rea­liz­zare altri lavori elet­to­rali per i lin­ciaggi che ha subito. Non è riu­scito nean­che a con­durre la cam­pa­gna elet­to­rale in tele­vi­sione. Gli sono stati riti­rati inol­tre i comu­ni­cati elet­to­rali. Da tutti que­sti punti di vista ci tro­viamo di fronte a delle ele­zioni che ricor­dano quelle effet­tuate in Siria e Tuni­sia con Assad e Ben Ali. Va poi aggiunto che c’è anche una sorta di accet­ta­zione della situazione.

Accet­ta­zione da parte della società?
Sì, per­ché anche se non la accet­tano non rie­scono a vedere una via di uscita. È così dif­fi­cile orga­niz­zare un’opposizione, fare qual­cosa insieme in que­sta situa­zione di paura creata dagli atten­tati dello Stato isla­mico , assieme al fatto che è venuta alla luce una chiara man­canza o forse un’intenzionalità da parte del governo nella man­cata pre­ven­zione di quanto acca­duto. C’è poi lo stato d’assedio in alcune zone curde del Paese. Qui la gente è stanca, sia per i divieti di uscire per strada, sia per gli epi­sodi dei cec­chini che hanno spa­rato sui civili uccidendoli.

Lei è stata di per­sona a Cizre, una delle città inte­res­sate dal copri­fuoco, con il gruppo “Ini­zia­tiva delle donne per la pace”. Come vivono le donne e i gio­vani que­sta situa­zione?
Ci sono state alcune cose che mi hanno col­pito molto. Ci è stato detto che durante i tre anni del pro­cesso di pace, la pres­sione eser­ci­tata [dalle auto­rità] è sì dimi­nuita, ma il numero dei fermi e degli arre­sti non è dimi­nuito. I gio­vani hanno ini­ziato a sca­vare dei fos­sati per impe­dire i fermi. Dopo­di­chè è stato dichia­rato il copri­fuoco. La poli­zia ha cer­cato di entrare nei quar­tieri della città, men­tre i gio­vani hanno cer­cato di impe­dire che entras­sero. Almeno 22 per­sone sono morte, la mag­gior parte per essere stati col­piti dai cec­chini, altri per non essere riu­sciti a rag­giun­gere l’ospedale. Quando siamo arri­vate in città c’era aria di lutto, ma anche una grande rab­bia. Mi sono sen­tita dire da più per­sone: «che ven­gano e ci bom­bar­dino fino in Iraq, ci ucci­dano e si libe­rino di noi, e così anche noi ci libe­riamo». E nono­stante ciò c’era anche la volontà di fare pace, non si vogliono più altri morti. E al con­tempo c’era anche l’orgoglio di aver difeso i pro­pri quar­tieri. È una situa­zione estre­ma­mente com­plessa quella che ho assi­stito a Cizre. È come se lì ci fosse una situa­zione che non siamo in grado di capire con i nostri con­cetti e il modo in cui con­ce­piamo il mondo nor­mal­mente. Lutto, volontà di pace e resi­stenza coe­si­stono. È inol­tre un esem­pio di come il pro­getto di pace, così come por­tato avanti fino ad ora, è molto dif­fi­cile da pro­se­guire. Quelle per­sone vedono la poli­zia e i mili­tari tur­chi come degli invasori.

Eppure per circa tre anni gli scon­tri tra l’esercito e il Pkk (par­tito dei lavo­ra­tori del Kur­di­stan) si erano fer­mati. Cos’è stato a inter­rom­pere il pro­cesso di pace?
La nostra ini­zia­tiva per la pace ha seguito da molto vicino per tre anni la costru­zione dei comandi di poli­zia e delle dighe nella zona. E la popo­la­zione per due anni si è sem­pre ribel­lata alla loro edi­fi­ca­zione. I comandi per la popo­la­zione curda sono qual­cosa di ter­ri­bile, soprat­tutto per le donne. Sono luo­ghi in cui negli anni ’90 sono state vio­len­tate, mole­state. E se lo ricor­dano. Quindi vedere che que­sti posti veni­vano edi­fi­cati nuo­va­mente ha creato una dif­fi­denza. I guer­ri­glieri curdi, poi, sono i loro figli. Le donne pen­sano che quelle strut­ture siano costruite con­tro i guer­ri­glieri. Alla fine, cosa si aspet­tano que­ste per­sone dal pro­cesso di pace? Aspet­tano di riab­brac­ciare i figli. Quindi nella zona era già forte la dif­fi­denza, noi l’abbiamo osser­vato e scritto diverse volte. Tut­ta­via la spe­ranza c’era sem­pre. Ma con l’inizio dei bom­bar­da­menti di Qan­dil in modo così mas­sic­cio, seguito dai copri­fuoco con l’intenzione di bloc­care la rea­zione della gente, sono stati colti alla sprov­vi­sta. A ren­derli spe­ran­zosi era anche stato il fatto che il Par­tito demo­cra­tico dei popoli (Hdp), che poi è il par­tito soste­nuto prin­ci­pal­mente dalla base elet­to­rale curda, otte­nesse il 13% dei voti alle con­sul­ta­zioni del 7 giu­gno. Que­sto suc­cesso elet­to­rale li ha por­tati a pen­sare che final­mente erano stati accet­tati dalla Tur­chia e che sareb­bero potuti essere rap­pre­sen­tati in qua­lità di curdi. La gioia era così grande che sarebbe dif­fi­cile tro­vare le parole. Il fatto che una tale con­di­zione sia stata annul­lata in così poco tempo ha disil­luso le per­sone, smor­zando le loro spe­ranze. Ma a dif­fe­renza delle per­sone che abi­tano nelle zone occi­den­tali del Paese, che ten­dono a rin­chiu­dersi su se stesse quando sono disil­lusi e dispe­rati, i curdi ini­ziano subito a rior­ga­niz­zarsi, hanno que­sta qua­lità. E ancora adesso non hanno rinun­ciato alla pace, ma non vogliono più un pro­cesso di pace che non sia tra­spa­rente e che non abbia imme­diati risvolti al livello della società.

In Tur­chia si dice sem­pre che affin­ché lo Stato deponga le armi è neces­sa­rio che sia prima il Pkk a farlo. Ma que­sta affer­ma­zione negli anni non ha por­tato a nes­sun risul­tato, ripro­du­cendo sem­pre lo stesso cir­colo vizioso. La cri­tica dei curdi sem­bra però rivolta soprat­tutto allo Stato che non riten­gono essere sin­cero nelle sue pro­messe. È così?
Ci sono cose che la popo­la­zione curda si è aspet­tata dallo Stato, cose pic­cole, se le vogliamo defi­nire così. Come ad esem­pio il rila­scio dei pri­gio­nieri malati. Oppure, il rila­scio o l’avvio dele udienze dei bam­bini del car­cere di Sah­ran che si tro­vano lì in base alla legge anti­ter­ro­ri­smo e ai quali sap­piamo che è stata fatta vio­lenza ses­suale. Sono cose che riguar­dano la vita quo­ti­diana della gente, e che riguar­dano le per­sone da loro amate. Sono richie­ste sem­plici e di carat­tere giu­ri­dico mai rea­liz­zate in tre anni. In que­sto con­te­sto è dif­fi­cile com­pren­dere per la popo­la­zione curda per­ché il Pkk debba lasciare le armi. Per­ché, per tutto quello che ha vis­suto fin dagli inizi della Repub­blica, non si sente al sicuro, non si sente come un “avente diritto” in qua­lità di cit­ta­dino. Sic­come non si sente in pos­sesso del pro­prio diritto cerca di assi­cu­rar­selo in un altro modo. Uno di que­sti modi è rap­pre­sen­tato dal Pkk, l’altro è la guer­ri­glia messa in atto dai gio­vani. Biso­gna poi ricor­dare che il Pkk, quando ancora le trat­ta­tive non erano state inter­rotte, aveva annun­ciato che avrebbe dichia­rato che non avrebbe uti­liz­zato più le armi con­tro la Tur­chia quando una com­mis­sione di vigi­lanza [per seguire il pro­cesso di pace] si sarebbe inse­diato all’isola di Imrali [sede del car­cere di Abdul­lah Oca­lan, nda] e sareb­bero ini­ziate uffi­cial­mente le trat­ta­tive con l’accordo di Dol­ma­ba­hce. Ma il pre­si­dente Tayyip Erdo­gan ha detto di non rico­no­scere que­sto accordo. E que­sta pos­si­bi­lità è così sva­nita. Terzo punto: fin quando l’Isis pren­derà così aper­ta­mente di mira i curdi, e non verrà con­dotta una vera lotta con­tro l’Isis da parte dello Stato turco, è molto dif­fi­cile che il PKK abban­doni le armi. Il pro­cesso di pace è sal­tato quando ormai la pace sem­brava vera­mente raggiunta.

Cosa serve, secondo lei, affin­ché il pro­cesso di pace possa essere riav­viato?
Le orga­niz­za­zioni della società civile non cre­dono che il pro­cesso possa ripren­dere dopo le ele­zioni. La poli­tica del pre­si­dente nei con­fronti di Rojava, della poli­tica con­dotta nei con­fronti dei curdi, l’incuria nei con­fronti dell’Isis ci indica un’altra dire­zione. Ossia che si intende con­ti­nuare que­sta situa­zione che causa così tanti morti. Qua­lun­que sia l’esito delle ele­zioni, fin­chè il pre­si­dente resterà al potere o fino a quando un gruppo all’interno dell’AKP si sol­le­verà e lo lascierà in mino­ranza, penso che sia una even­tua­lità molto dif­fi­cile da rea­liz­zare. Spero di sba­gliarmi, ma è quello che penso.

Si finirà per tor­nare agli anni ’90?
No, non si tor­nerà agli anni ’90, le con­di­zioni sono ormai estre­ma­mente diverse. La popo­la­zione curda è molto più orga­niz­zata, lo Stato a quei tempi riu­sciva a nascon­dere al resto della popo­la­zione i suoi misfatti. Ma non è più così. Vedremo le cosid­dette “guerre nuove”, quelle non “uffi­ciali”, con­dotte con­tro la popo­la­zione, dove si cer­cherà allo stesso tempo di met­tere con­tro le varie orgniz­za­zioni tra di loro. Qual­cuno teme che ci possa essere una guerra civile. Ma penso che non lo si per­met­te­rebbe, visto che il numero di pro­fu­ghi che in quel caso cer­che­reb­bero di fug­gire in Europa di decu­pli­che­rebbe. Credo che ci spet­terà affron­tare una vita di costante pressione.

E le donne? Quale deve essere la loro posi­zione in que­sto con­te­sto?
Le donne rap­pre­sen­tano il gruppo più effi­cace nella ricerca della pace. Per­ché si sono atti­vate e hanno preso con­tati con tutte le parti coin­volte, dal par­la­mento, alle donne di Qan­dil, met­tendo insieme donne delle fasce più dispa­rate della società. Si sono costi­tuite in nume­rose asso­cia­zioni. Con­ti­nuiamo a fare mani­fe­sta­zioni per strada a orga­niz­zare con­fe­renze. Ma non basta. È neces­sa­rio che anche le donne dell’AKP si uni­scano, che si trovi una unione delle donne che si col­lo­chi sopra le dif­fe­renze par­ti­ti­che. Se tro­vano una base sociale che le sostenga, pos­sono fare molto. Ma biso­gna anche pren­dere atto del fatto che le donne non sono in posi­zioni deci­sio­nali. E que­sto limita certo la loro capa­cità di influen­zare la poli­tica turca.

di Fazila Mat -Il Manifesto