Vita a Diyarbakir
Ci svegliamo ogni giorno nella Guest House. Roj bash! I compagni curdi hanno preparato la colazione e ci mettiamo a tavola mentre chiacchieriamo, tra le risate, sulle nostre differenze linguistiche. Heval, compagno in curdo.
A Diyarbakir sono sempre pronti a offrirti e a condividere il tè. La loro è l’ospitalità di un popolo che condivide la vita, la comunità li fa diventare più forti, più presenti. La moschea si fa sentire puntuale all’ora della preghiera, ma qua non tutti sono musulmani, non tutti parlano turco nonostante lo Stato insista ad essere presente. L’anno scorso sul castello di Diyarbakir sventolava una gigantesca bandiera, questo lunedì ce n’erano due: tutti dobbiamo sapere che siamo ancora in Turchia.
Il silenzio curdo, ormai, si è rotto da tanti anni: “Durante il colpo di Stato, per noi, è stato il periodo più tranquillo. Allora pensavo che magari così i turchi avrebbero potuto capire come noi viviamo ogni giorno da tanti anni”. Umut ce lo racconta mentre camminiamo per le strade della loro città. In un piccolo cortile un gruppo di anziani cantano ad alta voce quelle canzone curde che oggi, purtroppo, molti genitori hanno paura di insegnare ai loro figli.
Una piccola Diyarbakir esiste a 20km a sud della città. “Qua la vita non è più vita”, ci dice Semo, nel campo. Lei ci abita da due anni. Ci arriviamo con il pullman e la loro musica che non può mancare mai. Cantano sempre e comunque, il ballo fa parte della loro vita.
Spas, grazie. Xêr hatìn, benvenuti. Il campo rifugiati di Diyarbakir è nato nel 2014 come campo di transizione, ma ormai le frontiere sono chiuse e le circa 1.300 persone che ad oggi ci vivono rimangono qui senza sapere con certezza quando potranno partire, chissà se per tornare a casa oppure per andare in Europa. Semo, di 63 anni, madre di 11 figli e di tanti altri, come dice lei, ci racconta come siano dovuti scappare da Dugur. Avevano solo un’ora per mettere la loro casa in una valigia. Non hanno più i documenti e neanche soldi per immaginarsi un domani fuori dal campo. Per fortuna, dice, uno dei suoi figli è riuscito ad arrivare in Germania. Si sentono ogni tanto.
Rifugiato è ormai una parola lontana, ogni famiglia ha il suo percorso e la sua storia. Il parco, di 260.000 metri quadri, dove prima si facevano i picnic, oggi accoglie persone che non non sono riconosciute dalla legge, però tutti sanno che ci sono. In maggioranza arrivano dall’Iraq e sono yazidi (1). Loro non dimenticano: sulle loro tende c’è scritto 3/8, in ricordo del genocidio compiuto dall’Isis a Sinjar, il 3 agosto 2014. È difficile sapere quanti se ne vanno e quanti arrivano al campo. Ci dicono che durante l’anno sono andate via circa 17.000 persone, ma nessuno ci sa dire dove. La quotidianità, nel campo, scorre in un clima di stagnante transizione. La loro volontà di partire subito si scontra con l’indifferenza del Governo verso le loro vite.
Ci sono domande a cui è difficile rispondere. Le donne vestono di viola, il colore della donna curda. Si prendono cura dei figli e si occupano del cibo, della famiglia, dei ricordi: “Durante il giorno siamo sedute, preghiamo per loro, per noi, ci prendiamo cura dei nostri e cuciniamo per tutti”. Negli ultimi due anni ci sono stati solamente 4 matrimoni nel campo, ormai le persone sono attente a non stringere troppo le relazioni. Sposarsi vorrebbe dire avere una morte in più da piangere. Non è una questione di età, molte di loro sperano solo di morire: “Hanno ucciso così tanta gente, che ormai non ho più paura”. Lei ha 20 anni, abita a Diyarbakir e ci dice le stesse cose di Semo.
La domanda sui bambini è sempre quella più difficile da fare. Il campo di Diyarbakir è gestito dalla municipalità, responsabile della sua manutenzione: acqua, elettricità e cibo sono forniti dal Consiglio cittadino, sempre curdo. L’assistenza medica è precaria e gestita da volontari che coprono turni di 5 giorni alla settimana, in una casetta del campo. L’educazione e la sanità sono gestite solo dal governo. Quello stesso governo che la settimana scorsa ha chiuso il canale TV dei cartoni animati e alcune sedi di giornali, lo stesso governo che “accetta i curdi solo se diciamo di essere turchi”. È così che i bambini non hanno più una scuola dall’anno scorso e non hanno più assistenza medica garantita.
La nostra presenza non ha fatto altro che evidenziare una realtà.La presenza di 30 giovani stranieri riesce a rompere la monotonia del campo, i bambini ci sorridono e spremono le loro quattro parole in inglese. Alcuni sono nati nel campo, altri ricordano bene la loro casa e ce la fanno vedere nei loro disegni. Jamal, di 22 anni, insegna inglese 3 volte alla settimana. 200 bambini assistono alle sue lezioni, ma “non è abbastanza: i giorni passano e, senza una scuola, niente riesce a staccarli della stagnante realtà del campo”.
I genitori si avvicinano, spas. Il tempo nel campo sembra prendere un altro ritmo, magari perché dieci giorni non sono abbastanza per conoscere tante storie. Tutti loro ci chiedono una sola cosa, sempre la stessa: portatevi a casa questa realtà, fate conoscere la nostra storia, organizzate campi per i bambini. Loro sono ancora in tempo.
Il sole a Diyarbakir tramonta presto. Alle 18.30 andiamo via dal campo e salutiamo tutti. Per loro il sole è la luce che fa germogliare la vita, il verde della loro bandiera è la terra per la quale lottano e il rosso è la ribellione che li mantiene in piedi. Per alcuni di noi è stata la prima volta in Kurdistan, altri c’erano già stati. In ogni caso, tutti abbiamo imparato che la solidarietà è quello che ci unisce a questo popolo.
Alberto, Daniele, Stefania, Gaia, Luca, Azzurra, Francesco e Helena
1)Yazidi: gruppo religioso di origine curda, concentrato soprattutto nella Regione Kurda dell’Iraq.
L’articolo è stato scritto dai/dalle volontari/ie che hanno partecipato al training “Refugee Solidarity“, dal 30 settembre al 9 ottobre 2016.