Una settimana nell’assedio di Kobane

Siamo riusciti ad entrare nella città simbolo della resistenza all’avanzata del Califfato Islamico. Sono rimasti solo 7mila civili, tra cui mille bambini. Tra viveri che scarseggiano e ospedali distrutti, la popolazione cerca di continuare a vivere normalmente ed è convinta di poter respingere gli integralisti dell’Is. Grazie al coraggio delle donne, sempre più protagoniste dei combattimenti

KOBANE – Kobane è sotto assedio da cento giorni. Kobane, Kurdistan siriano al confine con la Turchia, regione del Rojava, alla fine dell’estate aveva centomila abitanti. Oggi ci sono seimila civili adulti e mille bambini. L’esodo ha conciso con l’inizio della guerra. La città, svuotata dall’assedio, vive ancora. A Kobane non ci sono solo combattenti, come racconta la propaganda dell’Is. Siamo stati per sei giorni con i guerriglieri curdi dell’Ypg (la milizia di difesa popolare) e le guerrigliere dell’Ypj (la formazione femminile). Gli eredi del Pkk di Abdullah Ocalan. Siamo stati con i loro bambini. Dalla notte di sabato 6 dicembre alla notte di venerdì 12.

Il filo spinato che segna la frontiera è a cinquecento metri dalle case basse della periferia nord. Ci si entra di frodo, pagando, poi correndo. È difficile entrare a Kobane. Nei cento giorni d’assedio il varco è rimasto aperto solo lo scorso 29 novembre, i militari turchi hanno lasciato passare un camion bomba dell’Is. Il kamikaze si è fatto esplodere tra le case: rase al suolo, otto morti, venticinque feriti. Il grosso dei resistenti sono nativi di Kobane, insieme a loro anche chi è fuggito da Sérane, Helinc, da Leherè, i villaggi più vicini dove l’Is ha compiuto vere e proprie stragi. Uccisioni sommarie, stupri delle donne e molto peggio ancora. Dopo queste incursioni, gli uomini del califfato nero hanno lasciato in vita pochissime persone alle quali consegnano le immagini dei massacri in modo che poi possono fare arrivare la “voce” del terrore. E’ anche di tipo mediatico l’assedio che viene posto. Tutti i video prodotti in questi mesi dagli uomini neri puntano proprio a terrorizzare e a diffondere l’idea che gli integralisti siano una forza invincibile.

Ma l’esercito “invincibile” di fronte a Kobane si è fermato. E da cento giorni non riesce a entrare, a sfondare. Dal 16 settembre a in città non c’è più denaro, non serve. Non si compra più nulla, si distribuisce. La risposta curda mira infatti a ribaltare l’assioma guerra e distruzione rispondendo con l’autorganizzazione e la cooperazione. In città viene garantito un servizio di distribuzione di acqua e pane, l’erogazione di energia elettrica tramite generatori e persino la raccolta dei rifiuti che conferisce alla parte di città risparmiata dai combattimenti un aspetto di normalità. Tutto ciò che è rimasto insomma è a disposizione di tutti. Acqua e benzina iniziano a scarseggiare, ma la Turchia, che ha lasciato passare il camion con l’esplosivo, non apre corridoi per far arrivare i rifornimenti. Eppure basterebbe un chilometro protetto.
Kobane, i volti della città in trincea
12 di 18
Immagine Precedente Immagine Successiva
Slideshow

{}
{}

Condividi

Le donne a Kobane vanno in battaglia e occupano ruoli di organizzazione sia militare che di organizzazione logistica. Le sniper (i tiratori scelti) sono proprio donne. Quelle che scelgono le armi rinunciano a una vita che potrebbe essere certamente se non più comoda meno rischiosa. Queste donne combattenti rinunciano agli affetti e alla prospettiva di avere una famiglia pur di perorare la causa curda. Qada, 55 anni, una delle comandanti dello YPJ, da non confondere con i peshmerga che sono un esercito regolare che arriva dal Kurdistan iracheno, ci fa da guida: “Non si poteva che ripartire dalle donne se si vuole davvero dare un futuro a questo popolo martoriato da troppo tempo. Non si poteva che ripartire dalla vita per sconfiggere questa aurea di morte che circonda non solo Kobane ma tutto il popolo curdo. Partire dalla vita e da chi la genera; le donne”.

La convinzione che traspare dalle sue parole è che è proprio questo l’aspetto che può fare la differenza in un conflitto che vede YPJ e YPG (i combattenti maschi) in netta inferiorità per quanto riguarda armi e tecnologie di guerre. Questo gap è colmato dalla forza di volontà e persino, verrebbe da dire, dalla gioia con cui questa battaglia di resistenza è portata avanti. E le donne cecchino sono anche il terrore dei miliziani integralisti, convinti che nel caso fossero uccisi da una di loro non andrebbero in paradiso in quanto vittime di un “essere inferiore”.

Le armi dei resistenti di Kobanê sono pistole e fucili, i kalashnikov e gli Ak-47 li hanno sottratti agli assedianti catturati o uccisi. Hanno portato via ai nemici i documenti, e hanno scoperto che tra le milizie del califfato ci sono ragazzi belgi, inglesi, francesi. Hanno preso i loro documenti, le loro carte di credito. E un forziere di stimolanti e amfetamine che gli assedianti usano prima degli assalti. “Abbiamo volontà e gioia e guardiamo sempre un po’ più in là – aggiunge Qada – I curdi sono senza confini, i confini sono il limite di un popolo”.

Nessuno a Kobane si sente condannato alla sconfitta. Tranne rare eccezioni i ragazzi e le ragazze sotto i 21 anni non devono andare alla guerra. Stanno nelle retrovie, organizzano i pasti e gli spostamenti. “Sono loro il futuro, è per loro che si resiste”. Non combatte neppure chi è avanti con gli anni. Gli ospedali sono crollati. Rasi al suolo dal martellamento dei mortai che non si ferma mai e che di notte diventa più intenso. I quindici medici e i trenta infermieri lavorano in tende addossate ai muri. I feriti più gravi vengono trasferiti in Turchia: li curano e li arrestano, sono combattenti di un esercito regolare e nemico. Dice ancora Qada: “I Dais, (letteralmente “quelli là”, come i curdi chiamano i miliziani dell’Is, ndr) in un mese li cacciamo”. Ma in questi giorni che precedono il Natale sono aumentate le incursioni, ci sono più cecchini appostati. In sei giorni a Kobane hanno perso la vita tre bambini, un anziano e un combattente che ha cercato di salvarlo. Quelli dell’Ypg hanno risposto spezzando in due la strada che da su porta al centro. “Dal cielo gli alleati bombardano”, afferma Qada, “ma servono a poco. La salvezza di Kobane ce la giochiamo qui”.
Tra le rovine di Kobane
12 di 13
Immagine Precedente Immagine Successiva
Slideshow

{}
{}

Condividi

In balia di troppi interessi
di ALBERTO STABILE
BEIRUT – Cento giorni sono trascorsi da quando, il 16 settembre, l’esercito dello Stato Islamico (Is, o Isis, o Isil, secondo le varie denominazioni avute nel tempo) ha lanciato la sua offensiva su Kobane, la cittadina del Kurdistan siriano, chiamata in arabo Ayn el Arab, al confine con la Turchia. Da allora, quello che è stato definito “l’assedio di Kobane”, ha assunto le lente cadenze di una guerra d’attrito tra le milizie curde, sostenute dalle aviazione della coalizione anti-Is guidata dagli Stati Uniti, e le forze jihadiste agli ordini del Califfo Abu Bakr al Bagdadi. E la battaglia, allontanatasi dalle campagne per ingolfarsi in uno scontro casa per casa, ha raggiunto una fase di stallo.

Il che, se ha determinato un allentamento dell’attenzione da parte dei media internazionali, sempre impazienti di eventi definitivi possibilmente di breve durata, non ha ridotto l’importanza di Kobane, diventata un simbolo per gli apparati propagandistici e un test dell’efficienza militare di tutte le parti in causa.

Forse c’è una punta d’esagerazione nella retorica dei dirigenti curdi che hanno definito Kobane “la nostra Stalingrado”. Di sicuro, la battaglia divampata intorno a questo piccolo centro di cinquantamila abitati creato all’inizio del secolo scorso intorno a quella che avrebbe dovuto essere una stazione di rifornimento della linea ferroviaria Berlino-Baghdad, ha trasformato la narrativa fiorita intorno ai curdi, il popolo (10 milioni di persone) “senza terra” per antonomasia, diviso e disperso in quattro paesi (Iran, Siria, Turchia e Iraq) dalle fallimentari alchimie della grandi potenze convenute a Versailles nel 1917 per spartirsi le spoglie dell’Impero Ottomano. Qualcuno ha detto che, con la battaglia di Kobane, non è più la Tragedia, ma la Resistenza il marchio impresso sul destino dei curdi.

E che quella delle milizie curde sia stata una resistenza fino ad ora efficace, contro uno esercito preponderante, agguerrito e molto meglio attrezzato, lo dimostra l’andamento dello scontro. Dopo un primo tentativo, per saggiare le acque, condotto a luglio, l’esercito jihadista che aveva già conquistato la seconda città dell’Iraq, Mosul, e minacciato la stessa capitale del Kurdistan iracheno, Erbil, lancia la sua offensiva contro il Kurdistan siriano nell’evidente tentativo di stringere in una tenaglia, da Nord e da Sud, la regione curda al confine tra Siria e Iraq, regione-chiave a cavallo tra i due paesi, ricca di imponenti risorse petrolifere.

L’avanzata su Kobane è travolgente. Bombardati dai cannoni e dai carri armati americani, sottratti all’esercito iracheno in rotta, cadono uno dopo l’altro i 352 villaggi che rappresentano l’hinterland della cittadina. Una marea di 400 mila persone si riversa in cerca di rifugio alla frontiera con la Turchia. Alcuni vengono respinti dalle autorità turche ma la maggior parte riesce a passare, salvandosi. L’artiglieria dello stato islamico colpisce il centro di Kobane, mentre le unità mobili jihadiste accerchiano la cittadina su tre lati, il quarto lato, quello su cui passa la frontiera con la Tuchia, è per i difensori curdi di Kobane una porta sbarrata.

I comandanti delle Unità di autodifesa popolare (YPG), braccio militare del Partito di Unità democratica, nato come una costola del partito indipendentista curdo PKK, di base in Turchia, lanciano drammatici appelli all’opinione pubblica mondiale perché sia evitato il massacro. Lo stesso presidente turco, Erdogan, allora soltanto primo ministro, annuncia l’imminente caduta di Kobane, avvertendo ancora una volta gli alleati della Nato che il suo Paese non può reggere un ulteriore ondata di rifugiati, e per giunta curdi alleati dei separatisti del PKK, contro i quali la Turchia combatte una guerra sanguinosa che va avanti da oltre 20 anni.

Dopo aver tergiversato per qualche giorno, gli Stati Uniti decidono che gli aerei della coalizione araba e occidentale voluta da Obama “per degradare e infine distruggere” l’esercito del Califfato possono intervenire in aiuto dei curdi. E il 27 Settembre partono i primi raid contro l’esercito jihadista che assedia Kobane.

E’ il punto di svolta della battaglia, la carta che cambierà il gioco sul terreno. Esposti ai bombardamenti alleati, i jihadisti, che nel frattempo hanno conquistato la metà di Kobane, oltre a tutta la provincia, cominciano a subire pesanti perdite, accusano difficoltà a tenere le posizioni occupate nel centro cittadino, pur mantenendo il controllo delle alture vicine, su alcune delle quali hanno issato la bandiera nera dello Stato Islamico.

Assieme a migliaia di rifugiati curdi in Turchia, mi è capitato di assistere alla battaglia di Kobane dalle colline in territorio turco che sovrastano il confine. Uno spettacolo di suoni di guerra, esplosioni, raffiche, boati, di fumi di incendi e di ombre che scivolano tra le macerie visibili a occhio nudo, mentre i curdi al di qua della frontiera, muniti di binocolo e telefonini, ricevevano gli aggiornamenti sull’andamento dello scontro dai loro amici e parenti asserragliati a Kobane. Tutto questo davanti all’imponente schieramento dell’esercito turco, condannato dal calcolato immobilismo di Erdogan ad assistere senza intervenire, indifferente, alla tragedia impellente di un popolo. Era ed è tuttora evidente che senza un intervento della Turchia il destino di Kobane sarebbe rimasto, così com’è rimasto, appeso a un filo chissà per quanto tempo.

Ma la distanza tra gli obbiettivi che gli Stati Uniti e la Turchia si propongono di perseguire nella guerra contro il Califfato sono troppo lontani per sperare che la situazione a Kobane, così come sulla fascia di territorio siriano al confine con la Turchia (circa mille chilometri), possa cambiare.

Per i governanti di Ankara gli indipendentisti curdi rappresentano una minaccia alla stabilità del Paese quanto i jihadisti di al Bagdadi, con i quali – accusano però i curdi – corrono rapporti di complicità. E, comunque, per Edogan l’obiettivo principale della coalizione resta l’abbattimento del regime di Assad, anche se questo potrebbe favorire la vittoria dello Stato Islamico con la relativa conquista della Siria. Così, la risposta alla richiesta americana di permettere agli aerei della coalizione di utilizzare la base di Incyrlik per condurre i loro raid in Siria ed Iraq è un secco no. Così come negativa è la risposta del governo di Ankara alle richiesta della resistenza curda di permettere il passaggio attraverso il territorio turco di rinforzi e armamenti diretti a Kobane. Il permesso accordato più tardi da Erdogan a 150 Pesh Merga, i guerriglieri curdi iracheni, di accorrere in aiuto dei difensori di Kobane, rappresenta una mossa propagandistica per sottolineare gli ottimi rapporti economici e commerciali tra Ankara e il governo della regione autonoma irachena di Erbil, che alla Turchia fornisce il suo petrolio. E comunque il Kurdistan iracheno di Massud Barzani, a gli occhi di Erdogan, non ha niente da spartire con il PKK di Abdallah Ochalan. Dividi et impera.

Quanto agli assedianti, non c’è dubbio che i bombardamenti alleati hanno permesso alla resistenza curda di articolare azioni di contrattacco e costretto gli islamisti ad abbandonare gli avamposti nel cuore della città. Questo riallineamento fa il paio con l’apparente rallentamento delle azioni militari dei jihadisti in Iraq dove, ad esempio, i curdi hanno riconquistato la città di Sinjar capitale della regione dove viveva la minoranza degli Yazidi, fino a quando non sono stati costretti dagli islamisti a fuggire sulle montagne e le loro donne sottomesse in schiavitù. Di più, si parla di malumori affioranti tra gli estremisti islamici provenienti dai paesi occidentali, delusi dalla ferrea disciplina interna. Circolano addirittura indiscrezioni su esecuzioni di miliziani colpevoli di insubordinazione, si narra di defezioni di gruppo. Si può vedere, allora, perché quella di Kobane è diventata una battaglia in qualche modo decisiva per tutti i protagonisti sulla scena. Per gli Stati Uniti, è in gioco l’efficace della strategia basata sui bombardamenti della coalizione. Per lo Stato Islamico, invece, è l’occasione per dimostrare che né gli aerei, né i bombardamenti americani possono fermare le sue conquiste. La Turchia vede in Kobane un ulteriore motivo per dare l’agognata spallata al regime siriano. I curdi, di contro, vi hanno trovato la fonte e il laboratorio di un nuovo nazionalismo. Mentre Assad continua a rivendicarne l’appartenenza alla Siria, anche se nessuno crede che il passato possa tornare..

FOTO ALBUM

http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2014/12/19/foto/kobane_la_citt_sotto_assedio-103311970/1/

di IVAN COMPASSO, con un commento di ALBERTO STABILE, montaggio di PAOLO SARACINO
Repubblica.IT

http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2014/12/19/news/una_settimana_nell_assedio_di_kobane-103321956/?ref=HRER1-1#gallery-slider=103317789