Turchia, il 7 giugno ci saranno le elezioni politiche. In ballo le riforme costituzionali di Erdogan
Il 7 giugno avranno luogo in Turchia le elezioni per rinnovare il parlamento ora guidato dal Primo Ministro Ahmet Davutoglu, delfino di Erdogan, l’uomo che guida lo stato turco da tredici anni. Erdogan, da un anno Presidente della Repubblica, ha in questi anni applicato una politica ambigua provando a rinnovare la giovane repubblica fondata da Atatürk promuovendo un’inclinazione più marcatamente islamica, tentando di affermarsi come nuova potenza regionale nel frammentato caos del Medio Oriente.
La Turchia sta vivendo da tempo un’allontanamento dal baricentro europeo, in parte dovuto alle promesse infrante dell’UE in merito all’entrata del primo paese islamico nell’Unione, prospettiva osteggiata in particolare da Francia e Germania, in parte perché si fa sempre più strada nel premier turco la volontà di recuperare l’eredità del panarabismo alla Nasser e porsi alla guida di ciò che uscirà dal magma mediorientale.
Erdogan promuove da anni una revisione dei costumi e della politica sociale riportando in auge i valori e la morale islamica, mettendo in dubbio ad esempio la posizione della donna nella moderna società turca ed esaltando un modello familiare in cui la donna è principalmente moglie e madre. Allo stesso tempo ha intrapreso una campagna di screditamento e arginamento delle voci a lui contrarie nella pubblica opinione: è del dicembre l’arresto di 27 persone in diverse città con l’accusa di essere coinvolti in un’associazione terroristica, tutte legate al colosso dei media turco Samanyolu, editore di Zaman, il quotidiano più letto del paese e vicino al predicatore ex alleato e ora concorrente di Erdogan, Fethullah Gulen, in esilio negli Stati Uniti. Ora il grande traguardo da raggiungere è la riforma costituzionale con cui Erdogan vuole cambiare l’assetto parlamentare del paese in senso presidenziale definendo quello esistente inappropriato e inefficiente a trasformare il paese in una potenza mondiale (come riportato da Yüksel Sezgin sulle colonne del Washington Post). Sarebbe un nuovo stravolgimento dell’assetto statale turco dopo l’approvazione della legge del 20 gennaio 2014 con cui è stata rivoluzionata l’elezione del capo dello Stato e le sue prerogative: elezione diretta da parte dei cittadini, il che fornisce una non trascurabile legittimazione politica, e nuovi poteri che gli permettono di avere un ruolo decisionale molto più attivo sia in politica estera che negli affari interni.
Con questa prassi pochi mesi dopo è stato eletto Presidente della Repubblica, figura che nel vecchio ordinamento era più che altro rappresentativa e che Erdogan ha trasformato nel vero centro decisionale del governo guidato dal suo AKP, oltre a fare in modo di poter essere rieletto al termine del mandato. Il capo di stato inoltre dovrebbe, nel modello turco, essere una figura super partes, che si pone al di sopra delle beghe di partito specialmente durante le elezioni. Erdogan si è schierato chiaramente in appoggio all’AKP, il Partito di Giustizia e Sviluppo, da lui fondato nel 2001 e di cui rimane una figura chiave, che nelle elezioni amministrative del 2014 portò a casa il 46% dei voti e che viene posto oggi tra il 40 e il 45%. Nonostante questo sia un buon risultato, che continuerebbe a porre nelle mani del partito al governo la guida del paese, non è però abbastanza per permettere ad Erdogan di mettere in atto il suo ambizioso progetto di riforma costituzionale.
L’AKP avrebbe infatti bisogno di una maggioranza dei 2/3 del Parlamento o di un minimo di 367 seggi su 550 per varare la riforma e traghettare la Turchia verso un sistema presidenziale “stile turco”, non specificando in cosa esso consisterebbe ma avvicinandolo alla monarchia costituzionale britannica. A gennaio infatti tentò di portare l’esempio della Gran Bretagna per giustificare il suo disegno presidenziale, spiegando che la figura della regina si avvicina molto alla sua idea, essendo capo dello stato ma senza esercitare un ruolo esclusivamente di facciata. Le elezioni si stanno svolgendo in un clima tutt’altro che disteso: l’entrata in scena lo scorso anno dell’HDP, il Partito Democratico dei Popoli, di ispirazione filo-curda, potrebbe rappresentare l’ostacolo più infido per l’AKP: nel caso dovesse superare la soglia del 10% impedirebbe di fatto ad Erdogan di raggiungere il numero di seggi necessario alla riforma.
Questa tensione si sta cristallizzando in diversi attentati alle sedi dell’HDP, che ha registrato vari attentati a tre settimane dalle elezioni in più di cinquanta sue sedi, due delle quali avvenuti a Mersin e Adana, nel sud-ovest della penisola, in cui attacchi dinamitardi hanno provocato sei feriti, tre in gravi condizioni. Tra i feriti di Mersin c’è anche Hüseyin Beyaz, co-presidente provinciale del partito, vittima di una serie di aggressioni all’HDP che secondo lo stesso Zaman, la cui linea editoriale si è posta in chiave anti-governativo dopo l’esilio del suo ispiratore Gulen, hanno lo scopo di intimidire il partito in corsa e di spaventare suoi potenziali elettori.
Anche il maggior partito di opposizione, il CHP, Partito Popolare Repubblicano, si sta muovendo su due fronti: da una parte si sta mobilitando per impedire le frodi elettorali poiché, secondo il suo leader Kemal Kılıçdaroğlu, l’AKP sta pianificando di dichiarare più voti di quanti ricevuti, dall’altro tenta di superare l’ambizioso progetto di infrastrutture del governo promuovendo la costruzione di una megacittà nel centro del paese.
Il CHP, il partito di Atatürk e maggiore formazione di centro-sinistra, si propone inoltre di rivedere interamente la politica estera turca, chiudendo i confini con la Siria supposti di essere attraversati regolarmente da guerriglieri dell’ISIL, e di non fornire armi a qualsiasi formazione siriana, riferendosi alla discussione suscitata dal sostegno dell’AKP all’Esercito Libero Siriano nel gennaio 2014.
Che l’AKP sia comunque destinato ad accaparrarsi la maggior parte dei seggi in Parlamento sembra fuor di dubbio, ma se dobbiamo tener conto delle percentuali odierne e prevedendo un superamento della soglia di sbarramento da parte dell’HDP, il suo progetto di riforma costituzionale non sarebbe comunque attuabile. Recenti sondaggi inoltre evidenziano come la maggior parte dei turchi non sia d’accordo con la politica accentratrice promossa dal suo leader e siano dubbiosi sulla strada intrapresa dalla Turchia di Erdogan: il 50% ritiene che i cambiamenti in atto siano in peggio contro un 36% che pensa si stiano evolvendo in meglio (riporta Foreign Affairs). Un sondaggio di Metropoll, il maggior ente sondaggistico turco riporta che ci sia in corso un aumento degli elettori stanchi dell’AKP, il 55% dei quali è contrario al sistema presidenziale proposto da Erdogan e solo il 32% è a favore.
Questo si spiega in parte anche a causa della perdita della spinta propulsiva dell’economia, che nei primi anni di Erdogan come Primo Ministro gli aveva fornito i mezzi per pianificare uno sviluppo statale in grado di migliorare il benessere della popolazione, cosa che all’epoca gli riuscì. La percezione degli elettori turchi in merito alle condizioni dell’economia è molto cambiata rispetto i primi anni del 2000: un sondaggio promosso dalla Koc University ha mostrato come dal 2014 al 2015 la parte di elettorato che crede l’economia sia in fase di declino è aumentata dal 30% al 48%, con il 40% convinto che il problema più grave con cui si sta confrontando la nazione sia la disoccupazione. L’erosione del consenso si registra anche tra le file degli elettori dell’AKP di cui solo il 31% ritiene che il partito che vince le elezioni debba prendere unilateralmente le decisioni in merito alle questioni concernenti i fondamenti dello Stato, come la costituzione e il tipo di governo. La capacità di tenuta del partito di Erdogan dipenderà principalmente da come verranno gestite alcune crisi interne tra i personaggi chiave al potere e le tensioni internazionali, non ultime quelle registrate ad Aprile 2015 con la cancelleria vaticana, dopo che Papa Francesco ha esortato al riconoscimento delle stragi degli armeni come “genocidio” a cui è seguita una risoluzione del Parlamento Europeo.
Risoluzione che non è stata ben accolta dalla governance e dall’opinione pubblica turca, specialmente dopo i timidi ma pur sempre importanti sforzi fatti dal governo per normalizzare i rapporti con gli armeni, concentrati nella parte nord-occidentale del paese che coinciderebbe con l’Armenia orientale.
Che venga posta la questione del genocidio da parte dell’UE in coincidenza con la presa di posizione del Papa, a fronte di un diverso trattamento per pulizie etniche corrispondenti come quella del Ruanda o non tenendo in considerazione l’uccisione di migliaia di turchi musulmani da parte degli armeni cristiani, sottintende un atteggiamento di superiorità morale che allontana un importante partner strategico in un momento delicato per tutto il Medio Oriente e rafforza la linea dura di Erdogan.
La Turchia è la porta orientale dell’Europa, come dimostra il costante flusso di migranti iracheni e siriani che dalle sue coste si riversa nelle isole greche per poi avventurarsi verso il i paesi del Nord, il che la rende doppiamente importante sia per la gestione di queste migrazioni, sia per il controllo che può operare alle sue frontiere orientali, impedendo a guerriglieri radicali islamici di entrare nell’Unione tra i rifugiati di Siria e Iraq. Anche se probabilmente Erdogan riuscirà ad instaurare un governo dell’AKP, il continuo discredito che la sua immagine sta vivendo, anche a causa del tradimento di un disegno pluralista di governo, potrebbe portare altri partiti ad osteggiare in modo più convinto le sue politiche contando su un crescente supporto popolare. La direzione che prenderà la Turchia in futuro dipenderà molto dalla capacità di far approvare le riforme costituzionali che stravolgerebbero l’inclinazione laica e pluralista dello stato turco e che per ora sembrano destinate a rimanere un sogno per il Sultano.
Di Anastasia Latini