Turchia: è ancora guerra nelle strade fra esercito e curdi

Sfollamenti. Cecchini. Carri armati. Civili uccisi. Dal 13 dicembre è ripreso il conflitto nelle regioni del sud est turco. Fra coprifuoco e assedi. Che colpiscono tutti

Carri armati. Cecchini. Sfollamenti. Case distrutte. Spari, spari notte e giorno. È così che si avvicina il 2016 nel sud est della Turchia. Ufficialmente “non in guerra”. Concretamente sotto assedio civile . Il 13 dicembre il primo ministro Ahmet Davutoglu aveva annunciato: «Faremo pulizia di tutti gli elementi terroristici nei centri urbani». Il suo messaggio è diventato il giorno stesso la restaurazione del coprifuoco in molte città a maggioranza curda, e la ripresa di quel conflitto che aveva già insanguinato la regione ad agosto e poi a novembre dopo le elezioni.

Il 13 dicembre stesso, invitati con una lettera dal ministero dell’Istruzione a lasciate i territori curdi, tremila insegnanti hanno abbandonato le loro scuole. Da quella notte a Cizre, Silopi, Sirnak, Nusybin, Merdin, e anche nel cuore di Diyarbakir, la “capitale” informale del Kurdistan turco, i quartieri che avevano alzato barricate per “autodifendersi” dalla polizia dopo gli scontri di agosto sono stati attaccati. Carri armati per strada. Cecchini. Secondo i rappresentanti del partito filo-curdo Hdp, quasi 200mila persone hanno dovuto abbandonare le loro case. Fra loro ci sono il padre e le sorelle di Ozgur Taskin , un ragazzo di 18 anni che era stato ucciso a Cizre durante il coprifuoco di agosto, ammazzato da una pallottola mentre andava verso casa dello zio, l’unico ad avere un generatore per l’elettricità.

Si sta tutto ripetendo di nuovo. Gli attacchi dell’esercito sospendono la corrente. Gli abitanti restano al buio, chiusi nei seminterrati, con scorte di cibo raccolte ormai due settimane fa. «Siamo sotto assedio», ripetono. E se l’esercito ha detto di aver ucciso solo nell’area di Cizre 122 giovani militanti del Pkk che organizzavano la difesa dei quartieri “ribelli”, a morire nell’indifferenza restano ancora una volta i civili, i residenti. Almeno 23 sarebbero stati uccisi nelle ultime settimane per mano del loro stesso Stato, secondo l’Hdp. Un ragazzo di soli 16 anni è stato ammazzato pochi giorni fa a Diyarbakir, mentre partecipava a una protesta pacifica contro le azioni di polizia. Da luglio i bimbi morti negli scontri sarebbero 44, 52 i feriti.

Sapere cosa sta succedendo esattamente nei quartieri assediati è quasi impossibile. Una giornalista dell’agenzia locale Jinha è stata arrestata mentre informava da Diyarbakir. E le strade sotto coprifuoco restano talmente isolate che per gli abitanti è impossibile anche solo recarsi all’ospedale. In quattro casi sarebbe stato riportato addirittura che nemmeno l’accompagnare i corpi dei morti al cimitero è ormai concesso. Restano in casa. I cadaveri. Con i vivi. In uno Stato civile.

Alcune organizzazioni turche per i diritti umani, il sindaco di Diyarbakir e osservatori internazionali stanno cercando da giorni di denunciare quella che definiscono una “pulizia etnica” più che un’azione anti-terrorismo. E ora anche il partito curdoislamista e normalmente pro-Akp Huda Par è arrivato a criticare l’azione di forza del governo: i cecchini dell’esercito infatti avrebbero sequestrato le case di alcuni loro militanti, occupandole senza chiedere alcun consenso, per sparare. Esponendo così anche gli abitanti meno inclini alla guerra. A una guerra che non ha ancora questo nome . Ma gli stessi effetti.

di Francesca Sironi, Espresso