Turchia come ISIS: distrutto sito archeologico cristiano in Siria. La vergogna continua
Aerei da guerra turchi hanno bombardato e distrutto l’importante sito archeologico di Barad, a sud di Afrin e non lontano da Aleppo, in Siria. A renderlo noto è stato il direttore generale per le antichità e i musei del regime di Damasco, Mahmoud Hamoud.
Il bombardamento sarebbe avvenuto mercoledì scorso ma solo ieri in serata se ne è avuta la conferma.
L’esercito turco ha distrutto molti importanti resti archeologici cristiani trai quali la tomba di San Marone, padre della chiesa maronita, e la chiesa di Julianos, una delle più antiche chiese cristiane del mondo che fu costruita alla fine del IV secolo D.C. e nella quale erano custoditi importanti mosaici bizantini.
Il sito ospitava anche altre chiese cristiane ricche di mosaici bizantini e di opere di pregio che purtroppo ora sono andate distrutte.
Quello della Turchia è lo stesso tipo di atteggiamento avuto da ISIS per altri importanti siti archeologici come quello di Palmira e di Ninive, distrutti solo perché secondo gli estremisti islamici erano una offesa a Maometto.
Mahmoud Hamoud ha esortato la comunità internazionale a condannare duramente la distruzione del sito archeologico di Barad, dal 2011 inserito anche nella lista dell’UNESCO dei patrimoni dell’Umanità, anche perché non c’è nessuna giustificazione al bombardamento turco se non per ragioni religiose visto che il sito era completamente deserto e non forniva rifugio a nessuno. Dall’inizio dell’offensiva di Afrin l’esercito turco e i miliziani islamisti alleati di Ankara hanno distrutto diversi siti archeologici senza alcuna motivazione se non quella religiosa.
«Erdogan sta finendo il lavoro iniziato da al-Baghdadi» ha detto il direttore delle antichità siriano letteralmente costernato da quanto sta avvenendo nel totale silenzio della comunità internazionale.
Anche ieri il Consiglio d’Europa si è limitato a condannare le azioni turche nel Mediterraneo e nel Mar Egeo ma non ha detto una parola sull’aggressione alla regione di Afrin. E la vergogna continua.
di Sarah G. Frankl
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