Tra la Turchia di Erdogan e noi non è solo questione di sedie
Tutto si può accettare tranne l’ipocrisia. L’episodio che ieri ha suscitato un’indignazione unanime ad Ankara non può essere derubricato a un’esclusiva manifestazione di maschilismo. Quello c’è sicuramente, sta nel codice genetico dell’erdoganismo (basta ricordare che la moglie del Presidente è la prima first lady turca a mostrarsi col velo in pubblico) e nella regressione che il più grande paese laico al mondo a maggioranza musulmana ha vissuto in questi ultimi venti anni di dominio incontrastato del Partito della Giustizia e dello Sviluppo. Vorrei ricordare a tutti che fino a qualche anno fa Erdogan partecipava stabilmente alle riunioni del Ppe ed era considerato un interlocutore affidabile per l’ingresso della Turchia nell’Ue. Michel ha sbagliato a non pretendere una riparazione immediata per quella sedia mancante, che escludeva la Von der Leyen dal colloquio? Certamente sì. E’ stato complice di un’umiliazione. Peraltro gratuita. Fossi in lui penserei a gesti eclatanti perché ha perso credibilità verso larghissimi strati della popolazione.
Ma il problema secondo me non sta solo qui.
Con Erdogan abbiamo fatto affari e continueremo a farne. E lì non mi pare che né Michel né la Von der Leyen abbiano impresso chissà quale svolta.
Innanzitutto sui migranti, ancora una volta esternalizzati e affidati al buon cuore del sultano, previa corposa corresponsione di denaro sonante. Vale per i deputati di opposizione arrestati, perché ormai si contano sulle dita della mano quelli a piede libero.
Vorrei ricordare che l’Hdp, Partito democratico del Popolo, il cui leader Selahattin Demirtas è in carcere in attesa di processo da quasi cinque anni, è membro osservatore del Pse. Ma questo evidentemente non sposta nulla.
Per non parlare dei magistrati, giornalisti, intellettuali sindacalisti, artisti, dipendenti pubblici arrestati ed allontanati brutalmente dalla vita pubblica. Se poi pensiamo alle minoranze etniche, curdi ma non solo, possiamo guardare con un certo disprezzo all’afasia delle classi dirigenti occidentale che prima li hanno applauditi quando hanno combattuto e respinto l’Isis e poi li hanno dimenticati quando Erdogan ha stabilito che la ricreazione era finita.
D’altra parte, bisognerebbe interrogarsi sul perché i militanti che da tutto il mondo arrivavano per andare a sostenere il Daesh passavano indenni dagli aeroporti di Istanbul e Ankara senza che nessuno li controllasse. Ma questa è una domanda che andrebbe girata ai topi di laboratorio che per anni hanno pianificato guerre e giocato a nascondino con il fondamentalismo islamico per qualche goccio di petrolio in più. Ovviamente dimentichiamo alcuni dossier caldi, tra i quali la Libia e il Mediterraneo, dove abbiamo lasciato campo libero al neo-ottomanesimo del sultano, che non esita a giocare alla battaglia navale anche con paesi alleati che sono appartenenti alla NATO. NATO di cui la Turchia è il secondo esercito, non dimentichiamolo mai.
Dunque, quando finalmente ci accorgiamo in cosa si è trasformata la Turchia di Erdogan perché un video è diventato virale, non dovremmo limitarci solo a reclamare una sedia in più. Dovremmo avere una strategia che dica a Erdogan che il limite è stato passato da tempo. E che ci sono valori che non sono compatibili né con l’Ue né con l’Alleanza atlantica. Altrimenti, spiegatemi cosa siano l’europeismo e l’atlantismo. Visto che ogni giorno siamo costretti ad assistere sui giornali e nelle tv a lezioni impartite da improvvisati cattedratici a corto di memoria e, soprattutto, di argomenti. Perché io comincio a fare fatica a sopportare questo suprematismo morale che si indigna solo sui protocolli e non fa i conti con la realtà della politica.