Report dalla carovana per il Newroz 2015

Non sono un esperto della storia e delle lotte del popolo Kurdo, lo dichiaro come premessa, perché una delle ragioni fondamentali del viaggio che ho intrapreso è stata la conoscenza ed il desiderio di condivisione politica e perciò umana.

Certamente sono molti anni che seguo le vicende della lotta per l’indipendenza dal popolo kurdo. Nel mio studio pieno di libri e carte ammucchiate a strati tempo fa ho riesumato un volantino della associazione Ya Basta del 1999 “Il cuore d’Europa”. Si racconta dell’assalto alla Turkish Airlines a Roma con l’ariete, dei treni collettivi contro le frontiere, delle manifestazioni per la libertà di Ocalan che sono state le mie prime esperienze politiche fuori da Bologna.

Più recentemente attraverso gli articoli dell’ottima rivista Nunatak e grazie alla rete internet ho conosciuto la nascita dell’esperimento di autogestione ed autonomia locale in senso comunista dei Cantoni Curdi del Rojava, nel nord della Siria. Poi ci sono stati due eventi che mi hanno convinto a non accontentarmi della simpatia passiva: l’articolo di David Greaber in sostegno alla rivoluzione in Rojava e la notizia che il giovane Karim del centro sociale Arvultura di Senigallia, dopo un breve soggiorno nei campi profughi sulla frontiera di Suruc, aveva scelto a Gennaio di arruolarsi nelle YPG, le forze armate del PKK in Siria. A Novembre in collaborazione con dei compagni anarchici del Piemonte abbiamo contribuito ad organizzare un ciclo di incontri a Rimini, Urbino, Ancona, Chieti etc. che hanno riscosso molto interesse. Infine sono interessato ad approfondire i punti di contatto e le differenze sociali e politiche tra l’esperienza della “democrazia radicale” zapatista in Messico che ho conosciuto molto bene ed il progetto del “confederalismo democratico” in Kurdistan.

Il 17 Marzo siamo partiti in due compagni autonomi, dalla costa Est, con la iniziativa “Carovana per il Newroz 2015” della Rete Kurdistan, promossa da Uiki Onlus, l’ufficio di informazione del Kurdistan in Italia. Il numero dei partecipanti è stato il primo dato notevole, 136 persone da tutta Italia. Insieme al numero è stata presente una notevole varietà umana e di provenienze geografiche e politiche, che ha fatto sicuramente la ricchezza della delegazione ma ha portato anche a qualche limite organizzativo e di coesione del gruppo.

Poiché volevamo raggiungere almeno Kobane per avere un contatto diretto con i compagni e le compagne del Rojava, ci siamo iscritti nel gruppo di osservatori che è stato basato a Sanliurfa nel sud-est della Turchia. E’ una città molto grande con più di un milione e mezzo di abitanti, ricca di storia stratificata nel suo centro e densamente costruita nei sobborghi pieni di palazzoni, negozi e viali frutto del boom immobiliare. L’itinerario organizzato ci ha portato a compiere una serie di viste divisi in gruppi di 20 persone che si alternavano nei vari giorni a visitare nell’ordine: i campi profughi Ezidi e la municipalità dell’HDP di Viransehir, 60 km ad Est sulla strada per Diyarbakir, l’organizzazione per la difesa dei diritti umani IHD di Urfa, i rappresentanti e militanti di base del partito HDP di Urfa, la municipalità della città di Suruc sulla frontiera con la Siria dove sono situati la maggior parte dei campi rimasti sul lato Turco. In questa città abbiamo visitato il centro culturale Amara, alcuni campi profughi autogestiti dal municipio dell’HDP ed il villaggio di Mesher per mesi in prima linea nella lotta per la liberazione di Kobane e per l’accoglienza dei profughi.

Ad Urfa e Viransheir abbiamo partecipato alle festività del Newroz. La celebrazione ha l’aspetto di un grande festival di musica, balli, comizi si svolge in grandi spazi pubblici e vede la partecipazione di tutte le classi sociali e le età. Intorno uno dispiegamento di polizia in numero moderato vigila, perquisice gente agli ingressi, qualche compagno italiano sporadicamente viene fermato senza troppa convinzione, basta che ci facciamo sotto in gruppo per dissuadere la polizia da ulteriori azioni. Entrambe le feste, come la maggior parte di quelle che si sono svolte in Kurdistan, finiscono senza scontri, per la prima volta in trent’anni. Nell’aria c’è un tentativo avvio di un processo di pace tra il PKK ed il governo, promosso dalla proposta di Ocalan che dal carcere invita a lasciare la lotta armata in Turchia in cambio di una reale riforma costituzionale democratica. Tanto basta per calmare gli animi in strada, ma solo per qualche giorno. E’ notizia di ieri che sono ricominciate le operazioni militari contro il PKK in territorio turco e la repressione contro i movimenti ad Istanbul ed Ankara a suon di arresti e feriti.

L’accoglienza a Suruc non è stata delle migliori. Per giorni i nostri accompagnatori curdi avevano provato a dissuaderci dal raggiungere l’obiettivo di entrare a Kobane per non precisati problemi di sicurezza ed organizzativi. In realtà nel corso delle assemblee che siamo riusciti ad organizzare con la delegazione, non erano emerse motivazioni esplicite per riunciare se non il rischio di essere bloccati dal potere discrezionale della autorità militari. Così abbiamo spinto, anche contro il parere delle parti più moderate della delegazione, per inoltrare comunque la richiesta alle autorità di frontiera per l’ingresso di tutti e 60 i membri della delegazione. Era infatti importante secondo noi rendere esplicito il sostegno politico all’esperienza del Rojava, il nostro tributo di rispetto e pietà per i morti nella difesa di Kobane, la nostra solidarietà militante. Putroppo il 21 marzo è iniziato sotto i peggiori auspici. La sera prima è arrivata la notizia della doppia autobomba contro il newroz curdo di Hasake, nel cantone di Cizire, Rojava orientale. Mentre il conto dei morti continuava a salire la pioggia cadeva fitta. Siamo arrivati comunque con due furgoni con 40 persone sul confine senza nessun accompagnatore locale. La città appariva tristissima sotto il cielo grigio, grigie le tende dei campi profughi, grigi i palazzi sbrecciati e la strada infangata. I militari di guardia al confine hanno dissuaso l’autista anche solo a sostare, fuori la pioggia cadeva battente, i furgoni sono tornati indietro. Avremmo voluto fare di più per tentare altre forme di protesta e manifestazione sul confine ma non era chiara la volontà dei nostri interlocutori curdi a questo proposito e la delegazione non era unanime sui modi e i tempi dell’azione.

Il giorno dopo siamo tornati a Suruc, abbiamo incontrato il sindaco curdo del municipio che scusandosi per il disagio del blocco del giorno prima ci ha spiegato come anche per i curdi e per altre delegazioni il blocco della frontiera sia un problema grave. Per non parlare dei tanti combattenti e profughi morti bloccati sulla frontiera. Mentre l’esercito turco infatti dava riparo e cure negli ospedali delle città di frontiera ai combattenti di Isis, ha lasciato morire decine di combattenti kurdi dissanguati nelle auto e nelle ambulanze. Nel villaggio di Mesher splendeva il sole e sotto una capanna di terra cruda ci hanno mostrato un piccolo santuario nascosto con decine di foto di caduti del PKK, del JPG e YPG, tra cui ho riconosciuto anche la foto di Ashley Johnston, Australiano, caduto in combattimento nelle scorse settimane.

Riusciamo a fermarci sulla linea di frontiera. In militari ci spiano dalle torrette con i binocoli. Noi guardiamo di là, a poche centinaia di metri Kobane, uno scheletro grigio da cui si alzano sul fare della sera dei fuochi di bivacchi. Sventolano le bandiere triangolari delle JPG, la stella rossa per ora ha vinto. Intorno gli animali pascolano sul prato attorno ai reticolati che dividono l’inferno dal resto del mondo, i bambini giocano e si fanno fotografare. Parliamo con gli abitanti che raccontano storie terribili, la violenza della frontiera contro i combattenti curdi, la connivenza dei militari con i terroristi di Isis, la solidarietà della gente comune, i tentativi di sfondare il cordone militare per portare aiuto alla città assediata.

Oggi la fase della resistenza armata di Kobane sembra finita, ma non è certo arrivata la pace, anzi lo schieramento militare sul confine è imponente ed il nemico sono come sempre i curdi. Dopo la liberazione di Kobane, molti profughi hanno già iniziato a fare ritorno anche se ci raccontano come dall’altra parte della frontiera la situazione sia tutt’ora precaria e rischiosa. Tra le delegazioni presenti nella carovana è sicuramente la più importante quella della Mezzaluna Rossa Kurdistan, basata a Livorno e sostenuta da tanti compagni e compagne italiani e curdi. Il loro obiettivo immediato è assistere il ritorno dei profughi e la ricostruzione del cantone di Kobane ed il sostegno alle altre necessità urgenti nel Rojava. Mi è sembrato che il loro approccio alla cooperazione “dal basso” sia di buona qualità, cosciente dei limiti ma anche delle potenzialità di una iniziativa indipendente dalle grandi ONG ed agenzie governative. In queste settimane stanno completando una ricognizione sul terreno e poi hanno lanciato alla delegazione la proposta di promuovere per il 25 aprile delle iniziative in sostegno alla lotta per l’autonomia e l’autodeterminazione in Kurdistan che personalmente sostengo nelle Marche.

Il bilancio dell’iniziativa è per me comunque positivo, con qualche criticità sulle modalità dell’organizzazione, viziata da una mancanza di organizzazione e di coordinamento politico che avrebbe potuto essere più inclusivo verso chi non aveva nessuna preparazione né conoscenza specifica del contesto e più decisa nel manifestare un sostegno politico da parte di compagni di base al progetto di autonomia democratica del Rojava. Infatti la mancanza di coordinamento e di coesione tra i vari compagni/e autonomi ed anarchici nella carovana ha lasciato tutto il risalto alle figure istituzionali e sindacali con cui le autorità curde cercano comunque una interlocuzione privilegiata. Se questo è comprensibile per motivi tattici ed anche di affinità politica da parte dei compagni curdi, non giustifica la mancanza di iniziativa e di proposta politica organizzata dentro la carovana di quelle componenti che da anni fanno dell’autonomia politica e dell’autogestione una parte fondante della propria identità e pratica. Sta infatti a noi compagni e compagne della tendenza autonoma essere in grado di proporre un discorso ed una capacità di ascolto ed organizzazione all’altezza dei bisogni del presente. Infine un ultimo appunto: la nostra delegazione arrivata sulla frontiera non è stata in grado di comunicare nulla. Troppi compagni/e della delegazione si sono comportati come turisti, fotografando tutto prima ancora di presentarsi e di conoscere dove erano arrivati. Poca o nessuna riflessione è stata fatta sulla nostra presenza. Purtroppo la qualità umana del nostro comportamento, il superamento dei pregiudizi eurocentrici e maschilisti è il primo passo da compiere quando ci si relaziona con dei contesti simili, pochi lo fanno. Tuttavia come compagni rivoluzionari, abbiamo aperto una piccola porta, su una realtà molto grande e complessa, spazio e tempo a chi potrà per approfondire un terreno di lotta molto importante ed interessante per quello che verrà.

di V.S., assegnista in sociologia dell’Università degli Studi di Urbino e militante politico di base.