Report da Surici-Amed/Diyarbakir
Fino ad oggi mi era difficile avere una reale percezione della situazione e quello che sto apprendendo, è che infondo nessuno sa davvero cosa sta succedendo. Ci si manda sms, anche se spesso la connessione è lenta. A Silvan hanno proclamato l autogoverno. Prima hanno tagliato tutto, elettricità, luce. Oggi hanno bombardato. Il numero dei morti e dei feriti non è ancora chiaro. Stamattina non siamo riusciti a raggiungere Lice perché la strada era chiusa e sono in corso conflitti tra Pkk e militari. Hanno ripreso ad incendiare i villaggi. Ma se non sei lì, tra gli spari e le fiamme, non ti accorgi che c è la guerra.
Perché qui c è sempre stata, e la gente non ha una reale percezione di quello che sta succedendo. E nemmeno io. Ci si chiede se si stia ritornando agli anni bui che sembravano finiti, o se se si stia andando avanti. Ma avanti dove? Quando la prima domanda che ci si fa la mattina è: ci sono stati altri morti? Dove? E come fai ad immaginare la pace quando Erdoğan dice che non ci sarà pace fino a quando l ultimo terrorista non sarà ucciso? Siamo tutti terroristi qui, tutti noi che diciamo no a questa follia.
Amed/Diyarbakir è una polveriera in procinto di esplodere. Schizofrenica, come lo è ogni guerra, perchè la gente che non muore, sopravvive ma sopravvivere alla guerra significa spesso avere profonde cicatrici dentro e grandi scissioni. In uno stesso giorno, in una stessa città, dall’isola felice dell’Università di Lice puoi passare al purgatorio di Surici dove si combatte la vera battaglia kurda, per mano dei giovani combattenti rivoluzionari dello YDG-H. Esplosioni ad ogni ora. Coprifuoco. Gas. Fuoco sulle strade. Feriti.Morti.
Oggi pomeriggio siamo entrati a Surici, accompagnati da alcuni militanti dello YDG-H. Surici è il cuore resistente della capitale Kurda. Ci sono ancora i segni delle battaglie di ieri. I muri delle case, i pali in ferro di supporto sono forati dalle pallottole della polizia. Le strette strade del quartiere a tratti sono interrotte dai muri di pietra costruiti dai combattenti per impedire alla polizia di entrare, fare fuoco sulle case ed uccidere la gente. Tre giorni fa hanno fatto irruzione in un abitazione. Dopo inutili tentativi di farsi aprire hanno sfondato la porta, preso a calci un bimbo di tre anni e messo sottosopra la casa. Il bambino ora si trova all’ospedale. Il compagno che ci fa strada ha una ferita da arma da fuoco sulla spalla.
Preferisce non farsi fotografare perchè ha paura di finire in carcere e lui deve difendere la sua gente. Entriamo nelle case, ci mostrano i tetti dove i cecchini vengono calati dagli elicotteri per sparare dall’alto sulla gente. Una donna mi chiede di mostrare quello che sta succedendo al mondo. “Qui ci stanno ammazzando”. E’ quello che sta succedendo. I giornalisti non possono entrare a Surici. La polizia fa irruzione da un momento all’altro. Mentre parliamo con la gente si sentono esplosioni non molto lontano da noi. Un uomo ci avverte che non possiamo più uscire perchè stanno bloccando le strade.
Ci sono proteste in tutta Diyarbakir per i morti di Silvan. Veniamo accompagnati verso una possibile uscita da questo labirinto quale è Surici, un dedalo di stradine tra case decadenti, ma colme di un umanità pulsante, che resiste. Una donna mi chiede di essere fotografata con il segno di vittoria “Biji Kurdistan” (Viva il Kurdistan). “La gente deve sapere cosa sta succedendo. Solo loro (in riferimento al gruppo locale dello YDG-H) ci stanno proteggendo. Stanno combattendo e rischiando la loro vita ogni giorno per impedire che la polizia faccia violenza sulla nostra gente e ci uccida. La gente deve saperlo.
Sbuchiamo su una delle strade principali che costeggiano le mura di Diyarbakir. E’ completamente vuota. Le saracinesche dei negozi sono chiuse. Nessuna macchina passa. Ci avviamo verso il centro della città. E’ stato proclamato il coprifuoco. Poco più avanti riprendiamo ad incontrare persone. Bambini che giocano sotto le mura. Un gruppo di anziani che ci fa segno di sederci con loro. Giovani che cantano canzoni kurde seduti in cerchio. Resistenza. Anche questa è resistenza. “Il problema” ci dice uno degli anziani “è che ci stanno smembrando dall’interno. Se tutta la popolazione kurda fosse unita ce la potremmo fare. Il fatto è che all’interno di una stessa famiglia trovi un guerrigliero, un poliziotto, qualcuno che ha scelto di lavorare per i servizi segreti. Abbiamo perso dentro di noi. Non fuori”.
Esplosioni. Ma la gente sembra non farci caso. Continuano a cantare. Continuano a resistere.
Ci avviamo alla macchina. Troviamo il finestrino posteriore sfondato. Chiamiamo la polizia ma ci dicono che non possono fare niente. Forse è stato un sasso che ha accidentalmente colpito il finestrino sfondandolo. Forse. Inizia l’insicurezza. Nel frattempo passa una pattuglia della polizia e ci chiedono se siamo giornalisti. Questa è Amed in questi giorni. Calda. Polverosa.
A volte qualche bomba esplode. A volte qualche essere umano muore. PKK. Corpi militari. Uomini. Ragazzi. Per la cronaca, sono sempre terroristi.
Da Amed/Diyarbakir
Marika Delila
Serkan Hagi