“Noi non combattiamo contro ISIS soltanto col corpo…”

È da alcuni giorni in Italia Nessrin Abdalla, 36 anni, comandante delle YPJ. Alcune di noi hanno avuto modo di partecipare ad uno degli incontri che si sono svolti con lei, proprio nei giorni del nuovo e sanguinoso tentativo di offensiva di ISIS a Kobane.

Oltre all’audio del suo intervento, abbiamo pensato di riportare alcuni stralci dalle interviste che sono state registrate. Questi stralci sono selezionati e “montati” in modo da costituire un approfondimento delle tematiche che il nostro blog ha più volte messo in risalto, in particolare per quanto riguarda la condizione delle donne in Rojava e la loro partecipazione al processo rivoluzionario in atto.

Quanto sia incisiva la partecipazione delle donne lo dimostra non solo il fatto che le donne siano presenti e attive su tutti i piani della lotta, dell’organizzazione sociale e della gestione del quotidiano, ma anche il modo in cui si è trasformato il linguaggio. È, infatti, assai consueto trovare nei comunicati ufficiali l’espressione “sorellanza tra i popoli” [sisterhood, nella traduzione inglese dal kurdo] e questo ci sembra un particolare non da poco, dopo secoli di fratellanze e fratriarcati che dell’oppressione delle donne ne hanno fatta la propria cultura e bandiera…

Quando le persone riescono a resistere, allora riescono ad essere artefici del proprio tempo, della propria epoca. E noi oggi stiamo agendo la nostra storia. Nella resistenza del Rojava alcune cose sono andate da sé, in modo naturale, senza pressioni; però altre cose hanno avuto bisogno di organizzazione per andare avanti.
La donna kurda non sta partecipando per la prima volta a formazioni armate. Prima della rivoluzione del Rojava – della resistenza in Rojava – le donne kurde sulle montagne di Kandil da anni stavano combattendo contro i nemici e contro il sistema patriarcale, maschilista; si chiamano YJA Star.
Le YPJ, invece, possiamo definirle un frutto della storia della rivoluzione delle donne.
Ciò che è differente rispetto al passato, è che per la prima volta c’è una partecipazione così ampia delle donne alla rivoluzione.
Le donne del Rojava si sono organizzate su due piani. Da una parte hanno lottato per la propria nazione, e mentre facevano la lotta per difendere il proprio paese contro un nemico internazionale, questa lotta è diventata una lotta internazionale delle donne. Dall’altra parte c’è la lotta delle donne per sviluppare la propria identità: le donne nella rivoluzione del Rojava non hanno solo preso in mano le armi ma hanno anche preso parte – con ruoli organizzativi – alla politica, alla società, alla diplomazia; le donne partecipano in ogni ambito della vita, si occupano di quello di cui c’è bisogno e che va amministrato e gestito.
Dal punto di vista militare, le YPJ sono organizzate autonomamente su tutti i piani: come gruppi, come comando, come addestramento. Le YPJ sono un tetto sotto cui stanno migliaia di gruppi e migliaia di donne che decidono da sé, con la propria insegnante-comandante.
Far parte delle YPJ non significa solo avere un’arma e combattere, ma anche avere un’ideologia, un sistema di pensiero che è contro la mentalità maschilista e patriarcale. Quella che stiamo combattendo contro ISIS è la rivoluzione delle donne, perché le donne sono riuscite a rompere con la mentalità e con il sistema patriarcale e maschilista.
Tutte le forze del mondo non sono riuscite a fermare ISIS, né in Medio Oriente, né in Nord Africa; ci sono riuscite le YPJ, le Unità di difesa delle donne. Le donne hanno combattuto contro ISIS con grande dignità, con una forza incredibile per i nemici delle donne e i nemici dei popoli. Con uno schiaffo, con un pugno delle donne ISIS ha perso tutto il suo controllo e sta crollando. Le donne hanno detto che non si arrenderanno mai: resisteranno fino alla fine e faranno vedere cosa è in grado di fare la dignità delle donne.
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La nostra contro ISIS non è solo una resistenza fisica. ISIS ha perso contro la dignità, l’anima, la mentalità, il sistema. Noi non combattiamo contro ISIS soltanto col corpo, ma anche con la nostra anima, con la nostra filosofia. È questo che ha fatto cadere ISIS, che era un mostro per tutto il mondo.
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La resistenza in Kurdistan va avanti da quarant’anni con le sue proprie forze, senza appoggi dall’esterno. Il popolo kurdo ha fatto tante volte resistenza e rivoluzione contro le stesse ideologie, gli stessi gruppi; e questa lotta non si è mai fermata. L’attuale resistenza in Rojava è la continuazione di questa storia di resistenza: il popolo kurdo ha dimostrato ancora una volta che può resistere come prima. Questa rivoluzione di oggi, questa resistenza, contiene tutte le rivoluzioni dei kurdi nella storia.
La resistenza attuale ha fatto un’autocritica della storia per capire dove i kurdi avessero sbagliato; solo con questa esperienza hanno potuto resistere. La vittoria di oggi è un frutto della resistenza nella storia e ciò ha rafforzato il sentimento di autonomia e libertà nel popolo kurdo.
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Finché non capiamo la storia della resistenza, non possiamo capire ciò che succede oggi.
Ci sono poi altri fattori. L’organizzazione: siamo organizzati bene. E un punto molto importante è che ci sono anche le donne. A differenza delle primavere arabe, noi avevamo una guida; perciò siamo potuti arrivare a questo punto. Abbiamo seguito due strade contemporaneamente: da una parte la resistenza nel senso della difesa militare; d’altra parte abbiamo organizzato i posti pubblici, la vita quotidiana nella lotta. E così ogni persona nel suo territorio ha trovato la propria posizione nella lotta e vi si è aggiunta.
Per vincere una lotta come quella contro ISIS, il popolo deve sapere difendersi. Questo è ciò che ci ha dato un supporto.
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Questa resistenza, che abbiamo fatto con la nostra dignità, sta continuando. Non avevamo armi moderne o tecniche moderne per combattere; abbiamo combattuto con le nostre armi personali: il nostro corpo, il nostro coraggio e la nostra dignità.
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Le YPJ sono unità autodeterminate. Una donna può far parte delle YPG, ma un uomo non può entrare nelle YPJ e questo significa che siamo autonome. Non è una questione mediatica. Siamo organizzate autonomamente come donne. Le YPJ fanno riunioni e conferenze autonome; le decisioni le prendono le YPJ, non altre persone o altri gruppi. Nessun altro, tranne le YPJ, può decidere per le YPJ. Questa è l’unica cosa che non si può cambiare nella nostra organizzazione.
Ci sono delle accademie, campi di addestramento per le donne, gruppi speciali. Ovunque ci sono gruppi autonomi che sono sotto il tetto delle YPJ.
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Ho partecipato alla lotta dall’inizio, nel 2011. Prima ero giornalista. Anche la mia famiglia partecipa alla lotta. Quando è cominciata la rivoluzione in Siria, la partecipazione della mia famiglia alla lotta e il fatto che fosse anche una lotta delle donne mi ha spinta a prenderne parte.
Siamo donne di diverse età e generazioni; ci sono donne minorenni e maggiorenni. Per le minorenni ci sono dei campi che però non sono di addestramento militare, ma sono educativi, servono a conoscere la storia del femminismo, che ovunque è parte della storia e del suo sviluppo. Per le maggiorenni, invece, c’è anche l’addestramento militare, ma non solo. Io a Ginevra ero portavoce di questi campi e ho firmato l’accordo: fino a 18 anni le donne vengono educate su questioni che riguardano la vita quotidiana; dopo i 18 anni decidono loro a cosa vogliono partecipare e dove vogliono arrivare. Chiunque, maggiorenne, voglia partecipare alle YPJ può. Viene addestrata ed educata all’autodifesa, e quando sente di essere pronta partecipa alla brigata, alla lotta.
Nella parte formativa, le ragazze e le donne vengono educate a supportare questa vita, resa difficile dall’oppressione. L’educazione riguarda la scienza, la storia, la filosofia. Poi quelle che vogliono partecipare alle YPJ vengono addestrate anche militarmente, per diventare combattenti; mentre quelle che preferiscono avere un ruolo nella società vengono educate e informate sulla vita quotidiana, la scienza, la storia, la filosofia da insegnanti donne. Per le minorenni, quindi, non c’è addestramento militare.

[L’intervistatrice le chiede se sia vero che le YPJ non si possono sposare]
Se una vuole si può sposare. Io, personalmente, non mi voglio sposare, ma ci sono compagne che si sono sposate e poi si sono arruolate nelle YPJ.

[L’intervistatrice le chiede quale sia il rapporto coi combattenti uomini]
Combattiamo insieme. Perché siamo compagni e compagne, non è che siamo diversi! Combattiamo insieme e decidiamo insieme; però le YPJ decidono da sole, senza chiedere a YPG: siamo autonome. Invece nelle YPG si decide insieme, donne e uomini.
Per noi c’è una sorta di linea rossa su donne e femminismo; poi c’è la lotta in generale. I nostri compagni lo sanno – sanno che un uomo non può decidere per una donna – e non toccano le questioni importanti che ci riguardano.
[…]Contro il sistema maschilista di oggi, noi vogliamo vivere insieme, in un’uguaglianza di genere, senza pressioni, con gli stessi diritti, non solo dal punto di vista della democrazia, ma anche della giustizia per tutti quelli e tutte quelle che abitano lo stesso territorio.

[…]Ciò che tiene in piedi la rivoluzione in Rojava è che tutte le cose si muovono insieme: l’organizzazione, l’amministrazione, l’autodifesa… Tutto insieme! Forse è questo che ci ha aiutati a vincere. Tutte queste cose sono importanti; non è che qualcosa lo è di più e qualcos’altro meno.

[…]Sia le YPG che le YPJ non sono soltanto le forze del popolo kurdo, ma sono ormai diventate internazionali: ci sono diverse etnie e le persone vengono da tutte le parti del mondo. Ci sono cinesi, americani, inglesi, francesi, tedeschi. Ci sono vari gruppi che hanno creato una brigata – anzi, due o tre brigate – di cittadini europei e di tutte le parti del mondo.

[…]La resistenza che noi stiamo facendo è internazionale, per tutti i paesi, contro la barbarie dell’ISIS. Alcuni la chiamano “rivoluzione del Rojava”, ma noi la chiamiamo rivoluzione del mondo, rivoluzione dei popoli, non solo del Rojava.

Per vincere contro questi mercenari, per rovesciarli, abbiamo bisogno di un sostegno internazionale. Per questo stiamo facendo questi incontri e chiediamo ai paesi europei i materiali per combattere con ancora maggior forza. Per esempio, per sminare ci servono i materiali e i tecnici, e noi non li abbiamo. Cerchiamo supporto tecnico per finire un po’ più in fretta ed avere meno morti.

[…]Noi sappiamo che nessun governo, nessuno Stato può difendere il popolo, perciò ogni popolo dovrebbe avere strutture di autodifesa. Le YPG sono unità di autodifesa e tali resteranno.

YPG/YPJ sono sigle, sono nomi. Possono cambiare i nomi, possono cambiare i simboli – oggi usano la bandiera verde, domani quella blu… – però rimarranno come unità di autodifesa per difendere il popolo, perché nel nostro sistema, nella nostra filosofia, l’autodifesa è la cosa principale contro tutte le minacce, sia esterne che interne.

YPG/YPJ non dovete pensarle come le forze armate in tutte le altre parti del mondo. Sono forze di autodifesa: non fanno attacchi, ma quando ci sono minacce difendono il popolo. Perciò se domani avremo il potere di distruggere tutto il mondo, noi come filosofia non combatteremo. Difenderemo dalle minacce le popolazioni con cui viviamo nel nostro territorio. Il ruolo delle YPG/YPJ è questo, non ne ha altri.

AGGIORNAMENTO: Mentre stavamo pubblicando questo articolo, abbiamo appreso che bande di ISIS hanno tentato di rientrare a Girê Spî e sono attualmente circondate dalle/dai combattenti di YPJ/YPG