Massacro di Roboski – due anni dopo
L’anno era il 1993. Gli abitanti del borgo di Tarlabaşı nel distretto di Uludere della provincia di Şırnak furono costretti a fuggire dalle loro case quando le forze armate turche scaricarono 150 bombe sul loro borgo. Poi 40 di loro vennero costretti a diventare guardie del villaggio. Ma non era finita li. Se altri di loro non avessero acconsentito a diventare guardie del villaggio, le loro case sarebbero state bruciate e le famiglie uccise.
I loro frutteti e giardini, le loro uniche proprietà, gli vennero tolte e trasformate dall’esercito in campi minati. Si trasferirono a Bijuh (Gülyazı) e Roboski’ye (Ortasu). Non ricevettero nulla in cambio delle loro proprietà. L’unica cosa che potevano fare era il commercio al confine. O quello che le autorità chiamavano contrabbando, motivo per il quale meritavano la morte.
Questo commercio è continuato sin dalla formazione della Repubblica turca, nonostante la riga sulla cartina geografica, tra le quattro parti del Kurdistan. Innumerevoli persone sono state uccise mentre svolgevano questo commercio, “per aver rifiutato di fermarsi” quando veniva ordinato dai soldati o uccisi dai soldati per “intimidire” o “minacciare”.
Il 28 dicembre 2011, iniziato come una giornata normale, è finito con la strage di 34 persone. Quello che ha reso l’incidente al confine di Roboski diverso dall’ “uccisione di contrabbandieri” è che è stato eseguito con un bombardamento aereo e il forte sospetto che l’ordine provenisse da Ankara. Fu un massacro pianificato? O solo una ricorrenza del destino del popolo curdo?
Forse si è trattato di entrambe le cose ….
I guardiani del villaggio consegnarono le loro armi
La regione Botan del Kurdistan è sempre stata una delle aree dove la politica di occupazione e assimilazione dello stato era al massimo della sua intensità. Diventare un guardiano del villaggio in quel luogo era più una questione di sopravvivenza che una scelta volontaria. E così è stato per la gente dei villaggi di Roboski e Bijuh. Ma dopo il massacro del 28 dicembre, la maggior parte dei guardiani consegnarono i loro fucili. Il governatore si rifiutò di accettare le dimissioni, ma senza mandare in missione coloro che avevano perso del figli, ma le madri tennero duro dicendo: “le foto dei 34 e queste armi non possono essere appese le une accanto alle altre sullo stesso muro.”
34 persone decidono di dichiarare l’obiezione di coscienza
34 persone, tra cui 19 di Roboski, incluse giovani donne hanno dichiarato che non saranno strumenti dello stato e si sono rifiutate di prendere le armi. Anche giovani provenienti da Ankara, Istanbul e Diyarbakır per il secondo anniversario del massacro hanno deciso di dichiararsi obiettori di coscienza.
Le donne dicono che dato che donne e bambini sono i più colpiti dal conflitto non manderanno i loro figli in guerra.
Elçi: Le famiglie sono state molto pazienti
Il presidente dell’associazione Şırnak Bar, Nuşirvan Elçi, ha detto: “Per due anni le autorità hanno fatto del loro meglio per coprire il massacro. Hanno anche multato famiglie che sono andate sul posto e che hanno lasciato garofani nel 500esimo giorno dall’evento. Sono stati multati persino quelli che non ci sono andati. Questa lotta continua e le organizzazioni, i media, chiunque si definisca democratico deve partecipare e fare la sua parte. Le famiglie di Roboski hanno una sola richiesta: trovare i responsabili. Non vogliono indennizzi. È una questione di onore. Sono stati molto pazienti e perseveranti nella loro lotta perché vengano resi noti i colpevoli. Continueremo la battaglia legale fino a quando avremo esaurito gli strumenti disponibili a livello nazionale. Se non bastano andremo alla Corte Europea per i Diritti Umani. Le famiglie non hanno mai voluto altro che scoprire e far emergere la verità. È nostro dovere sostenerle.”
Non siamo ‘contrabbandieri’. Siamo commercianti di confine
Abbiamo parlato con i guardiani dei villaggi e con i contrabbandieri a Roboski e Bijuh. Hanno detto all’ANF che quello che fanno non è ‘contrabbando’, come dicono i media, ma commercio al confine.
‘Anche ufficiali militari sono coinvolti nel commercio al confine’ (commerciante di confine di 20 anni)
“Sono dieci anni che faccio questo. Un giorno prima del massacro ero andato oltre il confine. Quel giorno avevo da vendere il mio gasolio e così non avevo taniche vuote. Altrimenti oggi non sarei qui! Tiriamo ancora avanti. Abbiamo parenti dall’altra parte. Questo non è contrabbando, è commercio di confine. Perché persone che fanno lo stesso a Samsun o Edirne non sono contrabbandieri e noi lo siamo? C’è un ufficiale che ha un mulo e manda un abitante del villaggio oltre il confine per lui. Perché lui non è un contrabbandiere e noi lo siamo?”
‘Hanno bruciato i nostri alberi di noce e fatto un campo minato’ (commerciante di confine di 27 anni)
“Io devo fare questo lavoro. Sono responsabile di una famiglia di 13 persone. Ci hanno tolto la nostra terra, bruciato i nostri alberi di noce e l’hanno trasformata in un campo minato. Ci hanno sparato, ucciso i nostri parenti e costretti a diventare guardiani del villaggio. Questo è l’unico lavoro che possiamo fare. Per 100 lire turche a settimana. Io continuo ad andare con il mio mulo nel freddo e nella neve, se non lo faccio moriamo di fame.”
‘Ogni volta che passo provo le stesse sensazioni’ (commerciante di confine di 21 anni)
“Io vado due volte a settimana. Guadagno circa 80-90 lire turche. Ho da sostenere una famiglia di 11 persone. Non c’è altro lavoro. Non diventerò guardiano del villaggio, neanche se mi uccidono. Mio fratello è morto nel massacro. È successo nel nostro borgo. Lo chiamano confine, lo tracciano dove gli pare. Ogni volta che passo in quel posto piango. Quando una persona piange mentre altri passano, tutti si fermano e iniziano a singhiozzare. Prima o poi qualcuno urlerà al cielo: ‘prendete anche noi’. È traumatico, non possiamo superarlo. Sono diventato obiettore di coscienza l’anno scorso. Rifiuto il militare e le armi. Io non andrò!”
‘Non accetteranno le mie dimissioni’ (guardiano del villaggio di 48 anni)
“Hanno preso il nostro borgo e tracciato un confine. Poi ci hanno costretti a diventare guardiani del villaggio. Non avevamo altra scelta. Ho prestato servizio per 20 anni. In cambio lo stato mi ha ridato mio figlio ridotto in pezzi. Ho consegnato le mie dimissioni in molte occasioni, ma rifiutano di accettarle. Non ci mandano in missione perché non si fidano di noi. Non possiamo appendere i nostri fucili sullo stesso muro sul quale sono appese le foto dei 34. Io non sono più un guardiano del villaggio. Non voglio indennizzi, niente compenserà la perdita di mio figlio.”