Le donne nelle carceri di Turchia

In un Paese in cui la violazione dei diritti delle donne è sistematica e la libertà di espressione e di opposizione subiscono un continuo restringimento, sempre più donne pagano il proprio legame sentimentale con un uomo, la propria appartenenza etnica o la propria militanza politica con il carcere.

La marcia della Ong Ankara Women’s Platform contro la guerra portata dallo Stato turco contro l’enclave curda di Afrin di domenica pomeriggio è stata dispersa dalle forze di polizia con spray urticanti e lacrimogeni. Dieci di queste donne sono state poste in arresto mentre altre sette venivano fermate durante analoghe manifestazioni a Tekirdag. Non si tratta, però, di eventi isolati.

La manifestazione della cittadina nel nord del Paese così come quella di Ankara si inseriscono in un più ampio percorso di avvicinamento alla data dell’8 marzo e nel clima creato dalle leggi di emergenza successive al fallito colpo di Stato. Le manifestazioni in difesa dei diritti delle donne previste in tutta la Turchia per la giornata internazionale della donna, soprattutto quelle programmate nelle città a maggioranza curda come Diyarbakir, sono state, infatti, vietate e la tensione cresce di giorno in giorno all’avvicinarsi della giornata.

Molto si potrebbe scrivere in merito alle violenze ed alla sistematica violazione dei diritti delle donne in Turchia ed al continuo restringimento della libertà di espressione e di opposizione nel Paese. Alla luce di questo e in occasione della giornata internazionale delle donne sembra, però, doveroso trattare un argomento spesso lasciato in secondo piano. Scrivere di quelle donne che pagano il proprio legame sentimentale con un uomo, la propria appartenenza etnica o la propria militanza politica con il carcere.

Nonostante la percentuale sia ancora infinitamente minore di quella maschile (4,4% del totale della popolazione carceraria turca), dopo il fallito colpo di Stato, infatti, anche il numero delle detenute è cresciuto in maniera sostanziale. Le motivazioni sono diverse, ma possono essere ricondotte al principale trend dell’attuale politica interna turca: la repressione sistematica di ogni forma di opposizione.

Da un lato, secondo quanto riferito dallo Stockholm center for freedom (SCF), sarebbe in atto una campagna sistematica di arresto arbitrario delle donne in quanto mogli o madri di oppositori politici già in detenzione o ancora in libertà. Come evidenziato nel report “Jailing women in Turkey” dell’aprile 2017, infatti, anche molte delle donne legate a presunti appartenenti al movimento di Gulen sarebbero state arrestate con accuse inesistenti per convincere i propri mariti a consegnarsi o a collaborare diventando veri e propri ostaggi nelle mani dello Stato turco.

Allo stesso modo le degradanti condizioni di detenzione, unite con le torture e la mancanza di attenzione alla condizione di madre con la conseguente presenza di migliaia di minori nelle carceri, sempre secondo il Scf, avrebbero l’obiettivo di indebolire la resistenza delle detenute e dei propri congiunti e, parallelamente, instillare la paura in tutta la società.

Le carceri turche sono, però, affollate anche da molti altri soggetti femminili a cui viene imputato un reato attivo. Quando non si tratta di reati comuni, secondo alcune indagini spesso risultato di precedenti violenze subite, si tratta di donne arrestate, processate e rinchiuse in quanto appartenenti al mondo accademico e dell’informazione, ad associazioni, gruppi politici o semplici manifestanti che hanno espresso più o meno palesemente la loro contrarietà alle politiche di Erdogan e del suo governo.

Per molte di loro, come per molti uomini, si tratta di detenzione preventiva e, dunque, senza processo (ad ottobre 2017 circa il 39% del totale della popolazione carceraria secondo l’Institute for Criminal Policy Research). Accusate di propaganda, eversione o terrorismo, una volta giunte in carcere queste detenute sono sottoposte a violenze fisiche e psicologiche.

In questo senso risulta significativo leggere ciò che è stato evidenziato da Nils Melzer, Relatore speciale su tortura e su trattamenti inumani o degradanti in missione in Turchia. Nel suo rapporto di fine 2017, Melzer sottolinea come numerose siano le denunce di maltrattamenti, torture, violenze sessuali messe in atto o minacciate contro i detenuti e le detenute. Il contesto circostante fatto di sovraffollamento, cattive condizioni sanitarie e mancanza delle basilari tutele in termini di visite, accesso agli atti e di relazione con il proprio difensore completa un quadro di totale sospensione dei diritti una volta varcate le porte del carcere.

Il Relatore sottolinea che, a seguito del colpo di Stato e del riaccendersi del conflitto nell’area sud-ovest del Paese, l’accrescersi esponenziale della popolazione carceraria sia stato accompagnato di pari passo da un aumento degli abusi nei confronti dei prigionieri.

Molto interessante notare come lo stesso Melzer evidenzi differenze nelle strutture a secondo della loro localizzazione e del trattamento dei detenuti in base alla loro appartenenza etnica e politica. Da questo punto vista, pur non citando mai il Kurdistan in quanto tale, ma definendo l’area come sud della Turchia, il Relatore descrive il carcere di Dyarbakir o le violenze imposte contro soggetti accusati di essere vicini al PKK come i casi più gravi di violazione dello stato di diritto.

La differenziazione tra le detenute è un ulteriore tassello di un complesso schema pensato per frammentare i legami anche all’interno delle carceri e della società in generale. Nelle prigioni turche, al fianco di detenute comuni e politiche troviamo, anche molte donne che hanno fatto una scelta di ribellione armata contro lo Stato turco. L’utilizzo di metodi brutali contro le militanti curde, ben raccontata ad esempio nella biografia di Sakine Cansiz, o il tentativo di “rieducazione” delle militanti della sinistra rivoluzionaria turca non sono nuove alle politiche repressive di Ankara.

Negli ultimi anni ciò che è cambiato è la compenetrazione tra mondi diversi. La violenza portata contro le militanti politiche, in termini di tortura e di violazione dei diritti, è stata usata, così, da esempio per tutte le altre aprendo la strada alla “normalizzazione” ed alla diffusione ad ogni livello della stessa violenza.

Se si osserva da un altro punto di vista questo stesso processo, si può, però, notare quanto la comune condizione di repressione e, in seguito, di detenzione, siano riuscite a veicolare anche nuovi legami di solidarietà. In questo senso si leggano gli scioperi della fame solidali così come le manifestazioni in vista dell’8 marzo con piattaforme non esclusivamente incentrate sui diritti di genere.

Nell’esperienza comune e nella chiusura degli spazi di espressione molte donne sono, così, giunte a comprendere la condizione di uomini e donne che, prima di loro ed ora con loro, sono stati obbligati a subire la repressione violenta dello Stato turco e, da questa consapevolezza, hanno acquisito nuova forza per non accettare passivamente questo tipo di realtà. Nena News

di Francesca La Bella, Nena News
Photo di Platform for Peace & Justice, Journalist & Writers Foundation