La liberazione della donna, pilastro del confederalismo democratico

Intervista all’attivista e ricercatrice curda Dilar Dirik

di Patrizia Fiocchetti

«Sono cresciuta come tanti bambini curdi, sapendo che sulle montagne del Kurdistan turco c’erano donne combattenti. La mia coscienza si è plasmata in questa consapevolezza che mi ha dato una prospettiva altra da cui osservare ai fatti della vita. Per questo ho deciso di dedicare il mio lavoro accademico a illustrare e comprendere la realtà delle donne combattenti, le loro ragioni e l’evoluzione della loro azione con il mutare del contesto storico-politico in Medio Oriente».

Sono a colloquio con Dilar Dirik, una giovane – ha solo 24 anni – nonché acuta studiosa appartenente al movimento delle donne curde. Ci troviamo nella sede dell’Ufficio d’informazione del Kurdistan in Italia (Uiki) vicino piazza Vittorio a Roma, tappa nel suo viaggio di ritorno dal Rojava in Gran Bretagna. Il 7 e 8 marzo ha tenuto, in occasione della giornata internazionale della donna alcune lezioni sulla democrazia diffusa presso le università Sapienza e Roma Tre.

«Mi considero una rifugiata da sempre. A soli tre anni di età con la mia famiglia sono fuggita da Antiaka la mia città natale nel Kurdistan turco a causa della dura repressione dell’esercito di Istanbul. Sono cresciuta in Germania, precisamente in una cittadina in provincia di Francoforte; mi sono laureata in Storia delle scienze politiche e ho un master in studi internazionali. Attualmente sto completando il mio dottorato di ricerca in Sociologia presso l’università di Cambridge. Ho sempre considerato il mio lavoro accademico imprescindibile dall’impegno politico: nel 2012 la mia tesi ha riguardato la storia del movimento delle donne nel Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) su cui non c’era nessun interesse se non strettamente legato al giudizio di terrorismo attribuito al partito che si opponeva in armi contro lo strategico alleato Nato, la Turchia appunto. Eppure la guerra contro il Daesh era già in corso, pur se ignorata a livello internazionale».

Sorride. «E pensare che proprio la notorietà internazionale di cui improvvisamente hanno goduto le combattenti di YpJ (Unità di protezione delle donne) in Rojava alla fine del 2014 mi ha costretto a cambiare le direttrici della mia ricerca che si è spostata sui movimenti delle donne resistenti in Iraq e in Siria, nel mettere a confronto i due differenti contesti in cui agiscono. Tutto il 2015 ho viaggiato nella zona. Ho fatto interviste e raccolto una documentazione fotografica».

«Considero un compito essenziale far conoscere alle persone il modello e la pratica del confederalismo democratico, unitamente a spiegare il ruolo centrale ricoperto dal movimento delle donne all’interno di questo sistema rivoluzionario. Sto cercando di rendere il mio lavoro accademico proficuo sul piano politico, poiché ritengo che gli studi universitari si siano depoliticizzati. Ma cerco contemporaneamente di dare all’attivismo politico una cornice scientifica. Insomma, provo un equilibrio non sempre facile».

Parlando del confederalismo democratico, volevo chiederti quanto l’opera di donne quali ad esempio Sakine Cansiz, cofondatrice del movimento di liberazione curdo e del movimento delle donne curde, assassinata a Parigi il 9 gennaio 2013, sia stata importante per la sua definizione ideologica.

«Il movimento rivoluzionario delle donne curde ha una storia di sacrificio e coraggio di cui donne come appunto Sakine sono state precursori e protagoniste. Il primo enorme nemico da affrontare era la società curda, estremamente tradizionale e patriarcale, dimostrando con la pratica quotidiana che le donne sono altro dal ruolo precostituito assegnatogli – madri, sorelle, mogli, sono essenzialmente individui indipendenti. Il nucleo fondante del Pkk vedeva la partecipazione delle donne, Sakine ne è stata la più importante, e la questione della liberazione femminile fu sin dagli inizi tematica centrale. Sakine era ferma su questo punto e Ocalan l’ha sempre sostenuta. L’azione di resistenza messa in atto nelle carceri turche dalle donne del Pkk è stata motivo di ispirazione e coraggio per molti detenuti del braccio maschile. Le prigioniere subivano torture e violenze più crude – prima tra tutte gli stupri, eppure erano loro a organizzare scioperi, proteste per richiedere condizioni migliori. Proprio nel carcere, scuola ideologico-politica per molti membri del partito, gli uomini hanno legittimato la lotta di liberazione di genere delle loro compagne. Oggi, in Rojava dove i rapporti di parità di genere sono una realtà portante della democrazia diffusa, le persone comuni sono divenute protagoniste del destino del proprio territorio nell’esatto momento in cui le donne hanno preso le armi facendo diventare la guerra di difesa che appariva lontana e non propria, una responsabilità storica di tutti.

Sakine Cansiz, membro di primo piano del Pkk con la propria azione concreta ha mostrato alla gente del proprio villaggio prima, e poi alla società curda come il ruolo di una donna non si svolga all’interno delle mura domestiche. Combattendo contro uno stato come quello turco che usava tecniche sessiste per piegarne la resistenza, le donne curde non hanno svelato solo gli strumenti tipici del patriarcato assunti a mezzi di terrore e vessazione, ma soprattutto la stretta correlazione storica millenaria tra Stato e patriarcato.

Pertanto senza l’azione concreta di donne come Sakine il pensiero di Ocalan non avrebbe avuto alcun senso. Ma è un fatto che senza le parole di Ocalan la pratica delle attiviste curde non sarebbe stata accettata dalla società.

Nelle accademie da voi fondate nel Kurdistan studiate la storia dei movimenti femministi nel mondo. Vorrei chiederti quali differenze hai rilevato e quali a tuo avviso sono i punti di debolezza del femminismo occidentale.

«Una differenza fondamentale è che fin da subito il nostro movimento si sia rivolto non solo alle donne istruite o con una formazione socialista, ma alle donne comuni, le contadine, le povere, analfabete, madri con anche dieci figli. Seguendo in questo la linea perseguita dal Pkk. Una guerrigliera intervistata un paio di anni fa mi disse che ad aprirle la porta di casa nei villaggi vicino le montagne, per darle rifugio erano le donne della famiglia. Mentre gli uomini non le amavano, le loro mogli, figlie le accoglievano segretamente proprio in quanto donne che conducevano una battaglia contro uno stato violento e repressivo. Comprendevano in maniera immediata che la guerra non era solo un affare da uomini. Fin dagli albori il femminismo del Pkk ha sfidato la tradizione della società patriarcale curda, non solo verso l’esterno ma soprattutto all’interno. Non c’era solo il nemico esterno da combattere ma una cultura di appartenenza da cambiare: è necessario affrontare le intime attitudini che rendono possibile l’esistenza del patriarcato, come io stessa contribuisco alla sopravvivenza di tale sistema e quale l’alternativa che voglio costruire. Il passaggio logico consequenziale è tradurre tale idea rivoluzionaria in una lingua comprensibile a tutti e in una pratica accettabile dalla società.

Abbiamo imparato molto dalle esperienze del femminismo internazionale, soprattutto dai movimenti di resistenza di liberazione nazionale, come per esempio nella rivoluzione algerina dove le donne, elemento essenziale per la cacciata dell’occupante, furono di fatto strumentalizzate per poi finire nel dimenticatoio della storia, ricacciate nel loro ruolo sistemico. Il problema è sempre stato l’accettazione di una gerarchia nelle libertà per cui ci si batteva, in cui quella delle donne era considerata d’importanza minoritaria.
Ciò che colgo come debolezza, anche da me sperimentato nell’ambito universitario, è l’approccio decisamente troppo accademico del femminismo occidentale. Credo di non poter trovare nulla di rilevante in scritti femministi se non possono contribuire al cambiamento della vita di mia nonna: testi assolutamente inutili se per lei risultano incomprensibili. I motivi che rendono necessaria la liberazione femminile, cosa c’è all’origine del patriarcato, e come questo si è evoluto all’interno dello Stato… è vitale che vengano spiegati in modo che siano comprensibili a tutti. E trovo necessario partire dalla propria esperienza personale, quindi da una pratica. All’interno del nostro movimento, dove sono confluite donne con identità etniche, nazionali, sociali ed economiche differenti abbiamo istituito varie aree di lotta: l’università, ad esempio, il Parlamento ma anche la casa, la famiglia e non vi è alcuna gerarchizzazione. Dobbiamo sentire con ogni cellula del nostro corpo che se falliamo nel liberare la donna più vulnerabile, la più marginalizzata anche noi, per quanto autonome, indipendenti e anche di successo, non potremo sentirci libere. Non avremo gettato lo sguardo oltre un orizzonte personale, non avremo lottato abbastanza. Di fatto non saremo state parte di un movimento rivoluzionario».

Domenica 6 marzo nel corso del programma TV Alle falde del Kilimangiaro durante l’intervista a Loretta Napoleoni autrice del libro Isis. Lo stato del terrore, la conduttrice Camilla Raznovich definiva le donne combattenti l’altra faccia della stessa medaglia del terrorismo (lo Uiki ha scritto una lettera di protesta al direttore di Rai 3). Vorrei un tuo parere in merito a questa affermazione soprattutto perché espressa da una donna.

«Il tentativo di delegittimare la donna combattente ha una lunga storia a livello mondiale. Non è neanche inusuale che siano donne a farlo: molto spesso si dichiarano “femministe” quando in realtà sono al servizio del capitalismo, difendono un “ordine costituito” che le guerrigliere, le resilienti minacciano. Si tratta di una vera e propria propaganda che usa argomenti sessisti per minarne la portata e rendendole prive di una coscienza individuale le trasforma in strumenti nelle mani di uomini. Faccio alcuni esempi partendo proprio dai miei studi sulle combattenti curde. Ho trovato rapporti, documenti, libri scritti da analisti – maschi – in cui vengono analizzati i motivi per cui le donne curde siano entrate nelle fila di una formazione terrorista – riferendosi al Pkk. Eccone alcuni: perché sono brutte, prive di femminilità, affette dal complesso di Elettra, dure e senza empatia (ride).

Ma non erano forse queste alcune delle accuse mosse dall’inquisizione alle donne nei processi per stregoneria? È un attacco al mondo femminile costituito di individualità ben precise che decide di muoversi fuori dagli schemi di un sistema che vuole controllarne i corpi, la loro sessualità e si serve di quel trito linguaggio che s’ispira alla famiglia e a un determinato ordine sociale: lo Stato padrone del ciclo produttivo e riproduttivo. Ma nessuna parola viene spesa, nessun dubbio avanzato sulla possibilità, faccio un esempio, che magari queste donne abbiano deciso di lottare perché il governo turco gli ha distrutto il villaggio di origine.

Un altro argomento adottato è che sono in fuga dalla soffocante cultura tradizionale e clanistica curda, dipinte quali soggetti passivi di una condizione da vittime terrorizzate e mai quali donne indipendenti consapevoli della scelta di voler combattere per il cambiamento. Altro esempio la propaganda di taluni stati quali l’Iran, dove gli organi di stampa governativi scrivono del “malcostume” praticato nelle file dei combattenti in montagna e definiscono le guerrigliere come delle vere e proprie prostitute… Alquanto tipico di un regime i cui militari usano lo stupro quale arma anche all’interno delle carceri.

Trovo decisamente vergognoso mettere sullo stesso piano i miliziani del Daesh, macchiatisi di crimini indicibili soprattutto contro le donne, con le combattenti curde che lottano al prezzo della propria vita contro questi stupratori, hanno fondato accademie, occupano posizioni di leadership politica, gestiscono mezzi di informazione. Porle sullo stesso piano significa lanciare il mistificante messaggio per cui entrambe le realtà minacciano l’ordine costituito. La verità è ben diversa: il Daesh dà nuova linfa al sistema patriarcato – indicativo che si denomini “Stato” islamico, che da parte loro le combattenti di YpJ vogliono distruggere difendendo la nuova esperienza costitutiva del confederalismo democratico.

Vorrei poi terminare ricordando anche quell’orientalismo di cui molte intellettuali occidentali sono imbevute. Appare difficile accettare che le donne in Africa e in Medio Oriente conducano esperienze rivoluzionarie che possono essere d’ispirazione, pertanto si tenta di riaffermare quel primato secondo il quale l’unica via praticabile per la liberazione della donna sia espressa dall’individualismo borghese.
Il paragonare le donne combattenti e rivoluzionarie ai terroristi del Daesh, non è altro che l’altra faccia della medaglia del patriarcato.
Dilar, nelle tue lezioni hai spiegato la funzione rivoluzionaria della co-presidenza praticata a tutti i livelli della vita politica in Rojava, nelle municipalità del Kurdistan turco, all’interno del partito Hdp (Partito Democratico del Popolo) e all’interno dello stesso Pkk. Prevedi possibile nel tempo una co-leadership di Ocalan con una donna?

«È importante sottolineare che cosa vede il popolo curdo in Ocalan: lui incarna il paradigma di un nuovo assetto sociale, non lo guardano più come al leader con la sua storia individuale e un proprio percorso politico, è un simbolo. Pochi leader hanno prodotto letteratura politica quanto Ocalan che proprio in carcere ha elaborato il modello di democrazia diffusa. Non esiste nessuno sul suo medesimo piano, che rivesta la stessa potenza di significato per i curdi. YBS_and_PKK_fighters_holding_up_a_painting_of_Abdullah_ÖcalanLui è il capo, l’ideatore di un progetto rivoluzionario di sistema sociale ed è in prigione come rappresentante del suo popolo. Inoltre, la co-leadership si presume si svolga su un piano di parità di fatto, e Ocalan non ne è solo il teorico, è anche chiuso in una prigione di massima sicurezza. Seppur su un piano concettuale la co-leadership è possibile, nella situazione attuale Ocalan non ricopre nessuna carica esecutiva o decisionale, azione essenziale invece nello svolgimento quotidiano e pragmatico della co-presidenza. Da un punto di vista della vita concreta, quanto le donne portano avanti nell’ambito della loro azione di condivisione decisionale è visto dalle persone in maniera estremamente importante poiché capiscono la difficoltà del compito. E non è certo Ocalan a dettare le linee di condotta a queste donne, anzi di fatto ha sempre dichiarato di trarre forza dal loro esempio. Vorrei riportare un avvenimento decisivo nella nostra storia. Poco prima di essere catturato nel 1999, Ocalan aveva messo in guardia le preminenti membri del partito su possibili colpi di coda di parte dei colleghi uomini, incoraggiandole ad auto-organizzarsi e ad affermare e difendere la propria autonomia. Il suo arresto è stato un capitolo drammatico, oserei di rottura per il cambiamento e come aveva predetto alcuni uomini tentarono di scippare il posto occupato alle donne del movimento ma fallirono.

Se Ocalan fosse libero, forse sarebbe lui stesso a proporre una co-leadership. Ritengo questa tua domanda importante perché vuole portare a capire fino a dove tende il nostro processo di eguaglianza. Ocalan ha sempre dichiarato e nei fatti considerato la liberazione della donna quale istanza prioritaria. Si potrebbe definire questa una sorta di co-presidenza».

L’ASPRO