Kurdistan:storia di un genocidio silenzioso

Il Kurdistan, situato nel cuore del Medio Oriente, anticamente abitato dal popolo dei Medi, antenati dei kurdi, è noto per la sua straordinaria bellezza naturale, ma è anche l’obiettivo di attacchi e di ripetuti tentativi di genocidio della sua popolazione.

Il Kurdistan non esiste sulle mappe geografiche ufficiali, ma esiste nella lotta e nell’anima dei kurdi, anima che racconta di uno degli altipiani più belli del Medio Oriente, verde in primavera, a perdita d’occhio, arso dal sole d’estate, con alte montagne sempre coperte di neve, come il Monte Ararat, tra Turchia ed Iran, un altopiano abitato da donne e uomini combattivi e fieri, mai sconfitti, come ebbe modo di raccontare nelle sue memorie lo storico dell’antichità, Senofonte.

Purtroppo, la storia non ha aiutato i kurdi.
Gli Accordi di Losanna del 1923 dividono il Kurdistan in quattro parti, dopo solo tre anni dagli Accordi di Sèvres, accordi che riconoscevano al popolo kurdo il diritto ad un proprio stato.

Oggi, questa questione riguarda l’ Iraq (5 milioni), l’Iran (10 milioni), la Siria (3.5 milioni) e la Turchia (20 milioni), più i kurdi della diaspora, e rappresenta uno dei più gravi problemi, tuttora irrisolti, del Medio Oriente.

I kurdi sono un popolo di 40 milioni di abitanti, il più grande popolo della terra senza uno Stato, uno stato che però i kurdi rifiutano, dopo aver visto quel che è successo nella ex Jugoslavia e, in genere, laddove prevalgono i nazionalismi e i localismi: loro dicono che di confini ce ne sono già tanti, tutti fasulli, tutti inventati dal colonialismo occidentale, vecchio e nuovo.

Sapete com’è stato tracciato il confine tra Siria e Turchia?
Seguendo il tracciato della linea ferroviaria Berlino – Baghdad, in questo modo dividendo quelle montagne, quelle città, quei villaggi, spaccando intere comunità. In passato, Nusaybin e Qamisli erano un’unica città; oggi, Nusaybin si trova in Turchia e Qamisli in Siria, separati da chilometri di filo spinato, con le famiglie costrette, fino a poco tempo fa a lanciarsi i pacchi da una parte e dall’altra e i militari che si divertivano a buttarli giù.

Sentite cosa dice la coraggiosa ex co-sindaca di Nusaybin, Ayse Gokkan, che ha sostenuto per parecchi giorni uno sciopero della fame contro il governo Erdogan che, a Nusaybin, aveva iniziato la costruzione di un muro per dividere la Turchia dall’emergente ed indipendente Kurdistan siriano, il Rojava: “Il mondo – dice – che è un grande territorio comune, dove tutti dovremmo collaborare, ha perso l’umanità: continuiamo a disegnare confini e a costruire muri. Ma noi kurdi quel muro lo abbiamo distrutto nelle nostre menti. Non esistono Siria, Rojava, Turchia, Iraq. Non esistono gli stati, la terra è di chi la abita”.

I kurdi rivendicano il riconoscimento della loro lingua, della loro cultura, delle tradizioni millenarie, una legittima autonomia e una democrazia di genere e partecipata dal basso.

E’ l’idea di Abdullah Ocalan del cosidetto “confederalismo democratico”, espressione di una profonda carica democratica protesa alla convivenza, alla convivenza tra eguali e diversi, diversi per linguaggio, diversi per cultura, anche orgogliosamente diversi per storia, però eguali ed intrecciati, perché non è pensabile tranciare con un coltello dei popoli che, in Mesopotamia, sono un mosaico, il popolo kurdo, il popolo turco, il popolo arabo, il popolo persiano, il popolo ebraico e le varie entità presenti nell’area.

Il Rojava, il Kurdistan siriano, dove dal 2011 è in atto una rivoluzione sociale, è oggi il simbolo realizzato di quel progetto di società, fondato sulla creazione di comunità indipendenti, multietniche, multi religiose, ecologiche e su una democrazia dal basso e di genere.

Purtroppo, però, i kurdi, per una maledizione della storia, calpestono un territorio tra i più ricchi del pianeta in risorse energetiche: petrolio, acqua e gas.

Per questo vivono in uno stato di guerra perenne, una guerra costata finora – per limitarci al Kurdistan turco – più di 45 mila morti, la distruzione di 4.500 villaggi bombardati dall’aviazione turca o dati alle fiamme, oltre 5 milioni di profughi, profughi nella loro terra e neppure riconosciuti come tali, ma, semplicemente, come “migranti economici interni”, mentre in Iraq sono stati addirittura gasati con armi chimiche, in Iran ci sono documenti che testimoniano l’impunità per chi uccideva un kurdo, firmati dallo stesso Khomeini e in Siria erano repressi e non riconosciuti dal regime degli Assad, privati dei documenti identitari.

Un genocidio silenzioso, sia fisico che culturale, sempre negato, attraversa la storia di questo popolo.

Il 4 maggio di ottantadue anni fa iniziava il massacro della città di Dersim.

Dersim, punto d’incontro di diverse etnie e religioni, era un distretto inaccessibile, al centro della Turchia orientale, circondato da alte montagne innevate, valli strette e gole profonde, attraversate dal fiume Munzur.

Negli anni 1937 – ‘38, le operazioni militari a Dersim comportarono il massacro di tutta la popolazione inerme. I leader della resistenza furono impiccati e sepolti in luoghi tuttora sconosciuti. Oltre 70 mila persone furono uccise, tra cui donne, bambini e anziani, molti lanciati da una rupe nelle acque vorticose del Munzur, tantochè le acque del fiume divennero rosse di sangue. La sorte dei bambini kurdi presi dal governo turco, a quei tempi, è tuttora sconosciuta.
Da allora, l’antico nome della città – Dersim – che significa “porta d’argento”, fu cambiato in Tunceli, che, in turco, vuol dire “pugno di ferro” .
Sono passati ottantadue anni da quel massacro, ma il governo turco tuttora non è disposto a riconoscere il genocidio. Si deve al sociologo Besikci il merito di aver iniziato a far luce su uno dei tanti “genocidi dimenticati” della Turchia.

Nei primi anni novanta, nel Kurdistan del Nord, nella regione del Botan, ci furono diversi massacri di popolazione kurda e assassinii mirati, a seguito delle “serhildan”, ribellioni di massa della popolazione (Serhildan, è il termine kurdo per dire insurrezione popolare). Lo Stato turco si avvaleva del sistema dei guardiani dei villaggi per finanziare e armare tradizionali collaborazionisti feudali.

In questa regione, ogni persona ha un parente, un figlio, un amico che è stato ucciso, carcerato o torturato. Le foto dei parenti uccisi campeggiano in ogni casa.

Un po’ in tutto il Kurdistan, l’esercito turco, con il pretesto del contrasto alla guerriglia del Pkk, ha continuato a distruggere: tra i primi anni ottanta e per tutti gli anni novanta, sono stati bruciati e distrutti villaggi di montagna, intere foreste sono state tagliate e bruciate, arresti arbitrari, terribili torture ed omicidi, migrazioni di massa.

Le persecuzioni fisiche si accompagnavano al genocidio linguistico e culturale: proibito parlare kurdo, proibito pronunciare la parola Kurdistan, proibito portare nomi kurdi, proibito ascoltare musica kurda, proibito alle donne portare vestiti tradizionali con i tre colori, giallo, rosso e verde.

Simili divieti e persecuzioni sono avvenute non solo in Turchia, ma in tutti i Paesi in cui è smembrato il Kurdistan, in Iraq, in Siria e in Iran.

Cizre, Cezir in kurdo, nella provincia di Sirnak, regione del Botan, nella linea di confine con Iraq e Siria, città simbolo della resistenza, è rimasta sotto coprifuoco dal 14 dicembre 2015, ventiquattrore su ventiquattro, per 79 giorni.

Oggi la città – con la quale abbiamo attivato un progetto di solidarietà – è ancora semidistrutta: 3 mila palazzi bombardati dall’esercito turco, quasi 500 morti colpiti dai cecchini o lasciati morire dissanguati per strada, dove non era possibile prestar loro soccorso, oppure soffocati come topi negli scantinati dalle forze di polizia turche – donne e bambini compresi – migliaia di sfollati, divieto di ricostruire, decine di feriti, centinaia gli arrestati. Così è successo in altre quattordici città del Kurdistan Bakur, tra cui Silvan, Nusaybin, Silopi, Yuksekova, Sirnak, Sur, il cuore antico di Diyarbakir, vecchio di tremila anni, patrimonio dell’Unesco.

Oggi, la situazione è sempre drammatica in Turchia.
Dopo il presunto colpo di stato del 15 luglio 2016, la Turchia è stata trasformata dal presidente Erdogan in un’enorme prigione a cielo aperto.

Oltre 5 mila membri dell’HDP (Partito della democrazia dei popoli), filokurdo, sono in carcere, compresi i due co-presidenti, Selahattin Demirtas e Figen Yuksekdag, insieme ad altri 8 ex deputati, 59 sindaci e molti amministratori e membri del partito. L’HDP governava 102 comuni, quando è stata proclamata l’emergenza, 96 sindaci sono stati destituiti e sostituiti con “kayyum”, cioè governatori nominati dal governo centrale.

In questo periodo, 150 mila persone sono state licenziate, oltre 2 mila ong e 200 media sono stati banditi, non solo kurdi. Più di 160 sono i giornalisti in carcere, il più alto numero di giornalisti in carcere del mondo, più di Iran e Cina.

Nel corso di questo presunto colpo di stato, sono state tratti in arresto attivisti dei diritti umani, sindacalisti, avvocati, accademici.

50 mila sono i detenuti politici in Turchia su una popolazione carceraria di 235 mila detenuti sparsi in 386 carceri, di cui molti minorenni (solo nel 2017, sono entrati in carcere 2.056 bambini, il 109% in più rispetto all’anno precedente).

Ma sono, soprattutto, spaventose le condizioni carcerarie: torture, isolamento, stupri, malnutrizione, negazione delle cure che provocano continui decessi.
Si trova in carcere il leader del popolo kurdo, Apo Abdullah Ocalan, condannato, da oltre 20 anni, ad un regime di totale isolamento nell’isola-carcere di Imrali, in mezzo al Mar di Marmara, una vera e propria Guantanamo europea.

Leyla Guven, co-presidente del Congresso democratico della società (DTK) e parlamentare di HDP, condannata a trent’anni di carcere, è in sciopero della fame dal 6 novembre 2018 per protestare contro le politiche del governo turco e l’ingiusta detenzione in isolamento di Ocalan, uno sciopero della fame che si è esteso a macchia d’olio nelle carceri e nelle sedi di partiti e associazioni.

La cittadina di Hasankeyf, vecchia di 12 mila anni, abitata nell’antichità da svariati popoli che si sono succeduti – ittiti, kurdi, romani, ottomani – con le sue grotte scavate nella roccia, i resti dell’antico ponte sul Tigri, i numerosi siti archeologici, il mausoleo, la moschea e la tomba di Abdullah Imam sono destinati a sparire sotto la massa d’acqua dell’immensa diga di Ilisu, insieme alle abitazioni e ai villaggi dell’area, costringendo gli abitanti a migrare, così come già avvenuto un centinaio di chilometri più a ovest, con la costruzione della diga Ataturk sull’Eufrate che ha modificato le condizioni climatiche dell’intera provincia di Urfa. E facendo così scomparire per sempre un luogo simbolo dell’ identità e della cultura kurda.

La città di Sinjar è la principale città yazida. E’ abitata da questa minoranza religiosa animista, il cui credo è legato ai ritmi della natura e al rispetto di tutti gli esseri viventi.

Su quei monti, al confine tra Iraq e Siria, nel 2014, Daesh ha compiuto un genocidio: circa 5 mila yazidi sono stati uccisi, altri 6 mila, soprattutto donne e bambini, sono stati venduti o – se donne – date in spose ai miliziani, mentre altri 50 mila sarebbero fuggiti per evitare morte certa. Sinjar è stata alla fine liberata dalle forze kurde.

C’è da dire che oggi non ci sono quasi più minoranze religiose nella provincia di Ninive.

Nel Kurdistan iracheno, tra l’aprile 1997 e settembre ’98, viene pianificata l’operazione Al – Anfal, durante la quale furono sterminati 182 mila kurdi.
Al-Anfal prende il nome da un versetto del Corano – la Sura 8 – che significa “il bottino”, Si trattava di una serie di operazioni militari, otto in tutto, condotte in zone geografiche distinte, che avevano l’obiettivo di eliminare, non solo la resistenza, ma, soprattutto, quello di sterminare, con ogni mezzo, la popolazione kurda.

La pulizia etnica era tra i principali scopi della campagna. Inizialmente venne riservata agli uomini tra i 12 e gli 80 anni che venivano considerati sabotatori. Poi si trasformò in esecuzioni di massa, nella distruzione con la dinamite di centinaia di villaggi, nella creazione di migliaia di profughi.

Le prime fosse comuni sono state trovate nelle sabbie dei deserti dell’Iraq. L’ultima, in ordine di tempo, è stata scoperta al confine con l’Arabia saudita e conteneva 2.700 corpi.

L’attacco chimico ad Halabja avvenne il 16 marzo 1988 durante la guerra Iran – Iraq. L’attacco fu realizzato con gas al cianuro per rappresaglia contro la popolazione kurda che non aveva frapposto sufficiente resistenza al nemico iraniano. I morti, solo quel giorno, furono 5 mila e altri 10 mila furono i feriti, ma le conseguenze terribili di quel criminale attacco, i kurdi di Halabja le pagano ancora oggi con le nascite di bimbi malformi e l’insorgenza di frequenti tumori tra la popolazione.

In seguito a quell’azione, tra il 2007 e il 2008, vennero processati, per crimini contro l’umanità, vari gerarchi del regime di Saddam Hussein, tra cui il comandante militare delle operazioni, detto Alì il chimico, cugino di Saddam, che poi venne condannato a morte, con sentenza eseguita il 28 gennaio 2000.

Il 20 gennaio 2018, le forze armate turche iniziarono un’operazione militare nel cantone siriano, a maggioranza kurda, di Efrin. La Turchia ha dato all’operazione il nome in codice di “Ramoscello d’ulivo”.

La città di Efrin cadde il 18 marzo 2018, dopo giorni di bombardamenti a tappeto, centinaia di morti e con circa 250 mila abitanti costretti a diventare profughi.
Secondo l’ Osservatorio per i diritti umani, le guardie di frontiera turche avrebbero sparato indiscriminatamente sui rifugiati che tentavano di fuggire dal cantone di Efrin verso la Turchia. Coloro che sarebbero riusciti a passare, sarebbero stati picchiati, negati nelle cure mediche e sottoposti ad abusi.

Verso la fine di gennaio, ufficiali kurdi hanno accusato la Turchia di aver usato il napalm, arma chimica proibita dai trattati internazionali, insieme a gas tossici. Fonti siriane e kurde hanno accusato la Turchia di bombardare indiscriminatamente scuole ed ospedali, insieme al maggior impianto idrico della regione.
Sono stati diffusi diversi video che mostrano ribelli appoggiati dalla Turchia mutilare cadaveri di combattenti delle Ypj/Ypg, uno di questi mostra il cadavere di una donna combattente delle Ypg con i seni tagliati esposti.

I kurdi, domani o dopo, saranno ancora una volta abbandonati. I soldati americani si ritirano dalla Siria, Trump lo ha comunicato con un semplice tweet.
Da Kirkuk a Manbij, si ritroveranno circondati, stretti in una morsa, in attesa che da Mosca, Ankara e Damasco venga dato pollice verso, come nei giochi del circo dell’Antica Roma.

Si sta preparando un grande massacro di un popolo che ha combattuto e sconfitto il Califfato, pagando un grande tributo di lacrime e sangue.

Qui c’è una grande occasione per l’Europa – se solo lo volesse o ne avesse il coraggio – ovvero, quella di ricordare che il confine su cui i jihadisti sono venuti così tante volte a colpirci, è custodito da un popolo che crede nei valori di libertà, laicità e fraternità.

L’Europa, per una volta, si mostrerebbe all’altezza della situazione, non più accontentandosi di stare a guardare, o peggio pensando al proprio business, ma assumendo responsabilità ed iniziativa politica.

Verso Il Kurdistan