Kobanê, la rivoluzione è anche questo
La lotta, lo scontro, il lutto; ma anche la gioia di vivere, la speranza, il lavoro quotidiano, la vita. Il diario della Delegazione Romana per Kobanê
E’ strano come la vita proceda nella sua normalità anche se a due passi c’è la guerra, anche se la tragedia ti ha colpito, e anche duramente. Momenti di rabbia si alternano a quelli di dolore, ma anche a istanti di serenità e di allegria. Ieri notte la Turchia è bruciata: sulla strada di ritorno al villaggio di Mehser abbiamo visto le barricate messe a bloccare le strade e i ragazzi di Suruc che, col volto coperto, le presidiavano con bottiglie incendiarie in mano. La polizia non poteva passare. Così, in tutti i villaggi e le città della parte kurda della Turchia, violenti scontri hanno infiammato la notte; la rabbia per l’ennesima conferma della posizione del governo turco in questo conflitto non poteva che portare a questo. Ma questa mattina la vita è tornata normale. Il solito traffico di gente e mezzi si è riversato nelle strade del paesino turco.
Per capire questa guerra di confine bisogna provare a immaginarsi il territorio della provincia di Suruc, in kurdo Pirsus. Si tratta di un altopiano, una vasta pianura delimitata a Sud dalle colline su cui si sviluppa Kobanê e ad alcune centinaia di kilometri a Nord dalle montagne del Kurdistan turco. In questo periodo, dopo la trebbiatura del grano, i campi vengono arati. La campagna è disseminata di villaggi di poche famiglie, a poche centinaia di metri l’uno dall’altro; alcuni dei più grandi hanno la loro moschea, come Mehser, ma principalmente si tratta di case di fango e magazzini per il grano, il cotone o i pistacchi.
Così il confine è solo una linea immaginaria tracciata nel 1923 dalle potenze occidentali, perché a Nord e Sud la vita è la stessa; almeno lo era prima dell’arrivo di Daesh. Ci hanno portato lungo questa linea a vedere dove si trovano le postazioni dei combattenti, come quelle dell’Isis; cercando di capire come si sviluppa il conflitto nella zona. Andando a Ovest abbiamo dovuto superare le postazioni dell’esercito turco in forze. In un piccolo villaggio abbiamo visto da molto vicino Kobanê, dal lato che porta proprio dove ieri è scoppiato il tir.
Ci dicono che non è raro che i colpi di mortaio di Al Baghdadi sconfinino, arrivando a poche decine di metri da loro: ci portano a vedere i resti dell’ultimo proiettile ancora piantato nel cratere che ha creato. Il confine si vede bene perché è una linea di macchine che con la luce che sale da Est risplende. E a ridosso ci sono i campi dell’esercito turco e mezzi in quantità. Poco più a Sud Ovest ci fanno vedere un altro campo. In cima a una collina sventolano insieme le bandiere delle YPG e delle YPJ. È una delle poche postazioni fuori dalla città ancora sotto il controllo kurdo. Ci offrono un the e ripartiamo.
Ci dirigiamo questa volta a Est. Un altro villaggio, Zahvan, altre scene di vita quotidiana: donne che cuociono il pane su una specie di piastra, uomini che sistemano gli attrezzi del lavoro dei campi. Non siamo mai stati così vicini al confine. Pochi metri separano noi dalla linea di filo spinato al di là del quale ci sono campi di mine anti-uomo. Il villaggio ospita un check-point turco di tre casotti e tre uomini che ci guardano con scarso interesse. Ci portano lì per farci vedere il villaggio gemello al di là del confine, Kikan. Alla nostra destra la stessa scena: decine di mezzi abbandonati, alcuni presidiati da profughi di Kobanê che non potendo passare, come in un limbo, controllano che le loro macchine non vengano sciacallate dai miliziani dell’Isis.
Sì, perché a Kikan, che dista solo alcune centinaia di metri, c’è Daesh: possiamo vederli col binocolo, alcuni sui tetti delle case, altri tre al bordo del villaggio. Ci raccontano che ieri sera hanno visto passare un camion, con decine di reclute dirigersi a Kobanê; ci dicono che da lì, di notte, passano regolarmente i rinforzi che arrivano dall’Europa, come dalla Cecenia o dall’Africa; quando ai militari turchi domandano di intervenire gli rispondono che non sono quelli gli ordini; possono sparare solo dal loro lato del confine.Ma la vita prosegue.Le donne che lavorano al pane ci invitano a mangiare: scopriamo che sono profughe ospitate dal villaggio, ci insegnano a stendere la pasta, ridendo bonariamente della nostra goffaggine.
Torniamo a Suruc. Dopo aver parlato con i volontari che vengono da tutta la Turchia a seguire la situazione e ad aiutare la resistenza kurda ci siamo diretti a Mehser. Nel pomeriggio il partito ha convocato lì una grande manifestazione e stanno arrivando da tutta la provincia: camion, macchine, furgoncini carichi di uomini e donne che alzano in aria le mani in segno di vittoria passano davanti a noi. Il villaggio che in questi giorni è stato la nostra casa è pieno di gente. Anziani e bambini, uomini con la kefiah per copricapo e donne col velo, si mischiano con giovani vestiti da occidentali, o con le insegne delle Unità di Difesa Popolare. Forse diecimila persone partono in corteo in direzione del villaggio vicino. Macchine si incolonnano insieme alle persone, passando a fianco della strada asfaltata in mezzo ai campi appena arati: alla fine un comizio, mentre da lontano colonne di fumo si alzano di nuovo sopra Kobanê. La rivoluzione è anche questo: tempi diversi, spazi diversi: la lotta, lo scontro, il lutto; ma anche la gioia di vivere, la speranza, il lavoro quotidiano, la vita.