Karayılan: lo stato sabota il processo
Murat Karayılan, presidente del comitato esecutivo dell’Unione delle Comunità Kurde (KCK), in un’intervista con l’agenzia Firat (ANF) ha formulato una valutazione sugli ultimi sviluppi in Turchia e in Kurdistan e sull’attuale processo di pace.Ha sottolineato tra l’altro che nonostante il ritiro dei guerriglieri, in Kurdistan si sono rafforzate le azioni militari dello stato turco e che è anche stata accelerata la costruzione delle postazioni militari nei territori curdi.
Con queste premesse si sta tentando il possibile per sabotare il processo di pace. È evidente che [lo stato] si sta preparando alla guerra, ha detto Karayılan, che ha poi parlato anche dei processi contro il KCK e della prigionia di donne e uomini politici curdi: „Coloro che devono fare politica restano in carcere e la guerriglia si ritira. Qual è il progetto? Se inizia una nuova fase, una fase di soluzione democratica e la soluzione politica è all’ordine del giorno, le donne e gli uomini politici curdi devono essere liberati.“ Se questo non dovesse succedere, potrebbero esserci pericoli rispetto al processo di pace, ha spiegato Karayılan. Karayilan prende posizione in modo articolato anche sulla rivolta di Gezi-Park e sulla reazione dello stato: “La resistenza che si è sviluppata attorno a Gezi-Park rappresenta una tappa importante nella storia della democrazia in Turchia. Pensiamo che questa sia una situazione nuova e che avrà un ruolo importante per il futuro.”
Questa traduzione riporta solo stralci di un’intervista molto articolata ed è stata sottoposta a rilevanti tagli redazionali.
Per iniziare vorrei fare una domanda sul processo di soluzione democratica: Dopo la visita del BDP la settimana scorsa, lei ha affermato di non essere soddisfatto del progredire del processo [negoziale]. Perché non è soddisfatto?
Da due, tre settimane ne stiamo discutendo seriamente tra di noi. Perché la posizione dello stato e del governo porta a sempre maggiori preoccupazioni. Per questa ragione rispetto alla pratica ed alle attuali modalità di avvicinamento (del governo turco) abbiamo avuto discussioni a diversi livelli. Più tardi è arrivata anche la delegazione del BDP, che aveva incontrato il presidente Apo. Ci ha trasmesso diverse cose. Abbiamo visto che il nostro presidente è molto preoccupato per il processo – come noi. Abbiamo capito che ha gli stessi pensieri, le stesse preoccupazioni che abbiamo noi. Non vogliamo dire nulla di concreto su questa tappa, solo che si tratta di un problema serio, che nonostante la grande responsabilità del presidente Apo e diverse difficoltà in cui qui abbiamo dovuto far passare la decisione e i passaggi pratici, da parte dello stato turco e del governo turco non sono stati fatti passaggi per la costruzione della fiducia che porti alla soluzione del problema. Da quando a gennaio sono iniziati i colloqui di Imrali e questo ci è stato comunicato, fino ad oggi non abbiamo intrapreso azioni militari contro lo stato.
Da due mesi, di fatto da tre mesi, c’è una tregua ufficiale. C’è stata la liberazione dei funzionari statali che erano in nostra custodia. C’è stata la fase della decisione per il ritiro delle nostre forze e la sua messa in pratica. Nonostante tutte queste decisioni importanti e strategiche – lasciamo per ora da parte l’avvio di passi per la soluzione da parte del governo e dello stato – sta diventando sempre più visibile un atteggiamento che fa paura e aumenta l’insicurezza. Questo processo non è nato per caso, ma è stato sviluppato da un punto di vista ideologico, filosofico e politico. Questa è l’essenza che è stata espressa dal presidente Apo nel suo messaggio per il Newroz. Lo spirito del processo ha come obiettivo una nuova era, una nuova Turchia e una nuova regione.. Ora la soluzione dei problemi non si basa più sulla violenza e l’oppressione, ma su mezzi umani, dialogo e discussione per risolvere la questione curda. Si è parlato di „lotta delle idee“, „non devono parlare più le armi, ma le idee, la resistenza va condotta a livello politico“. Anche se abbiamo svolto tutti i nostri compiti per lo sviluppo del processo, la parte turca non fa nulla e mostra una pratica violenta e repressiva che è preoccupante.
Dopo il ritiro valutano le loro possibilità e costruiscono postazioni militari
Per esempio a fronte del ritiro della guerriglia dalle montagne del Kurdistan settentrionale, il numero delle postazioni militari e dei battaglioni dovrebbe essere ridotto o almeno restare allo stesso livello. Ma vediamo che loro con l’atteggiamento simile a chi pensa “Questa è la nostra occasione” portano avanti nuovi progetti per la costruzione di basi militari. Forse la gente della Turchia occidentale non lo sa, ma lo voglio ribadire: oggi a Şirnex (Şırnak), Colemêrg (Hakkari) e in moltre altre città e province del Kurdistan ci sono vere e proprie caserme militari. La popolazione di Çelê (Çukurca) è di 9.000 persone, il numero di soldati stanziati nella zona è di 18.000. In ciascun villaggio di Şemzînan (Şemdinli) è di stanza o un battaglione o un reggimento. Il paesaggio del Kurdistan è lastricato di caserme e la maggior parte dei territori sono veri e propri campi minati. Ora che la guerriglia ha iniziato la fase di ritiro, erano necessari nuovi progetti militari? Ora a Şemzînan si costruiscono nuove postazioni militari, ora ci provano anche in zone dove c’erano ancora spazi liberi. A Dêrsim (Tunceli) vengono costruite nuove postazioni militari e sviluppati nuovi progetti militari. Cosa si vuole ottenere con questo? Mentre noi ritiriamo le nostre forze, loro riempiono il territorio di soldati.
Anche il sistema dei guardiani dei villaggi deve essere abolito
Un altro punto: lo spirito del processo deve avere come obiettivo una società civile democratica. Una società civile democratica senza violenza e armi. Rispetto al senso di una società civile è sbagliato munire di armi una parte della popolazione. Inoltre una famiglia dotata di armi può servirsene come strumento di dominio su un’altra famiglia. Il sistema dei guardiani dei villaggi quindi è di ostacolo per uno sviluppo sociale normale e armonico e deve essere abolito, se ora la guerra finisce ed inizia una nuova fase e all’ordine del giorno c’è il processo di soluzione democratica. Naturalmente vanno prese misure adeguate perché le persone non debbano fare sacrifici per questo. Questo è assolutamente necessario. Prima non è possibile una riconciliazione e normalizzazione sociale in Kurdistan. Ma vengono ancora reclutati nuovi guardiani dei villaggi.
Vogliamo capire il modo di ragionare dell’AKP. Abolirà il sistema dei guardiani dei villaggi o no? Perché è una struttura che si è sviluppata a causa della guerra e ora che la guerra finisce, va mantenuta oppure no? Aspettiamo una spiegazione rispetto al punto di vista dello stato e del governo sul sistema dei guardiani dei villaggi, perché nonostante la ritirata ne vengono reclutati di nuovi. Questa è una situazione molto seria.
Proseguono i voli di droni
Perdurano ancora i voli di ricognizione dei droni. Per un periodo ho spiegato che erano diminuiti, ma in quella che noi chiamiamo la “zona di difesa dei medi” in Kurdistan meridionale sono ripresi in modo continuo. Con quali intenzioni? Per i militari la ricognizione significa preparazione di un’azione. Allora anch‘io potrei dire: „Spiate le forze dello stato della sicurezza e preparatevi ad azioni.“ Devo farlo? Il processo può svilupparsi in questo modo? Se non è così, se non avvengono in malafede, perché proseguono significando la preparazione di azioni e di attacchi aerei? Abbiamo già spiegato tempo fa che questo rallenterà la ritirata.
Lo stato fa il possibile per sabotare il processo.
Cosa significa?
Con questi preparativi il governo cerca di fare il possibile per il sabotaggio della fase. Si prepara alla guerra, questo è evidente. Questo tra noi porta problemi seri. Regna una forte preoccupazione. E io vedo che la nostra popolazione ha le stesse preoccupazioni. Ogni giorno persone impegnate per la libertà e la pace e rappresentanti delle istituzioni democratiche vanno sulle montagne per impedire scontri. Se l’AKP vuole veramente la pace, deve spiegare cosa vuole ottenere con simili azioni in Kurdistan.
Per creare fiducia va superato il regime carcerario di isolamento di Imralı
D’altro canto si parla di un nuovo processo. La questione curda è una questione centenaria della Turchia, una questione che dall’inizio della politica di negazione due anni dopo la fondazione della repubblica non è mai sparita dall’ordine del giorno. Per affrontarla alla radice e risolverla definitivamente, il nostro presidente Apo ha messo in moto un nuovo processo di propria iniziativa. Ha costruito il dialogo, conduce le trattative. Ma si mantiene il regime di isolamento nei suoi confronti. Della sua famiglia solo suo fratello ha potuto visitarlo dopo quattro mesi di isolamento totale. Dal 27 luglio 2011 le richieste settimanali di colloquio dei suoi avvocati vengono respinte ogni volta con motivazioni arbitrarie. I suoi processi davanti alla Corte Europea per i Diritti Umani continuano, per questo i suoi avvocati devono poterlo vistare. Perché questo diritto viene calpestato? In una situazione di guerra sarebbe ancora in qualche modo comprensibile. Ma da un po’ di tempo è lo stato stesso ad avere colloqui con lui, anche delegazioni del BDP hanno potuto più volte vistarlo. Ma perché i suoi avvocati non possono andare da lui? E perché i parenti degli altri prigionieri che sono con Abdullah Öcalan non possono andarli a trovare a Imralı? In sostanza ci sono condizioni di isolamento severe a Imralı. Come deve procedere il processo, come si può creare fiducia in simili condizioni?
Dobbiamo essere in contatto con il nostro presidente
Per la parte curda il presidente Apo conduce i colloqui. Per questo deve essere possibile la comunicazione con noi, e che possano raggiungerlo diverse delegazioni. Potrebbe avere necessità di consiglieri. Non è una questione semplice. Deve essere risolto un problema che esiste da un secolo. In questo processo non prendiamo decisioni senza esserci consultati con Öcalan e viceversa. Per questo delegazioni devono potersi muovere, deve essere possibile inviare lettere. In caso contrario i processi decisionali vengono inutilmente prolungati. Se quindi si vuole davvero risolvere la questione, nelle condizioni di isolamento a Imralı vanno cambiate molte cose. Il nostro presidente deve ottenere la possibilità di avere contatti con il mondo esterno. Ma da questo punto di vista non c’è alcun progresso. Il suo isolamento continua.
Attiviste e attivisti curdi sono di nuovo in carcere
La prossima domanda è se lo stato non dovrebbe finalmente liberare spazi per fare politica. Si diceva che le armi dovevano essere messe a tacere perché potessero parlare le idee, la politica. Ora abbiamo fatto tacere le armi. Ora non dovrebbero essere liberati gli attivisti e le attiviste curde che devono condurre la lotta politica? Naturalmente, ma vediamo che la maggioranza di loro continua ad essere in carcere. Devono restare in carcere mentre la guerriglia si deve ritirare. Ci domandiamo cosa si voglia ottenere con questo. Se davvero deve iniziare una nuova fase in cui risolvere la questione curda in modo democratico e pacifico, devono essere rilasciati i prigionieri politici.
Gli arrestati nelle cosiddette operazioni KCK, persino secondo la legge turca, non hanno commesso alcun tipo di reato. Se gli può essere rimproverato qualcosa, è solo che fanno politica in nome della questione curda. E questo non costituisce un reato. Ma a causa della mentalità colonialista e di assimilazione dello stato turco, qualsiasi azione legata all’identità curda costituisce una fattispecie di reato. Ciò significa che queste persone sono state arrestate in base ad un atteggiamento di fondo di ostilità contro i curdi da parte dello stato. Ma erano attivi politicamente in modo legale, alcuni di loro erano stati eletti dal popolo come propri rappresentanti. È chiaro che sono stati arrestati a causa di una politica ostile e resi ostaggi dello stato. Ora siamo dentro un processo di soluzione da sei mesi, non viene sparata una pallottola, la guerriglia si ritira e quindi ci aspettiamo che queste persone vengano finalmente liberate.
La situazione dei prigionieri malati è preoccupante
Ma lasciamo da parte i prigionieri per il momento; questo stato non è pronto nemmeno a rilasciare prigionieri che in base alla loro situazione sanitaria sono in punto di morte. A loro andrebbe data la possibilità di ricevere cure mediche all’esterno o di potersi spegnere vicino ai loro parenti. Ma questo in Turchia non succede. Perché? Perchè si tratta di curde e di curdi, perché lo stato fa una distinzione razzista tra le persone. Molti amici e molte amiche sono morti in stato di detenzione, molti malati terminali sono ancora in carcere. La politica ostile ai curdi dello stato turco è quindi più che evidente.
I processi contro il KCK testimoniano l’ostilità contro i curdi
Lo abbiamo visto da ultimo nel principale procedimento contro il KCK ad Amed (Diyarbakır) e ad Istanbul: la giustizia è diventata uno strumento di lotta contro la popolazione curda e la lotta politica curda. Quanto è ridicolo, se persino la procura dello stato chiede la scarcerazione di sei imputati, ma il tribunale acconsente solo in due casi e subito dopo rinvia l’udienza successiva all’autunno. Un tribunale con questo tipo di comportamento si sta prendendo gioco del processo di negoziato. Vogliamo sapere cosa c’è dietro. Questi processi non possono essere considerati come qualcosa di distinto dal sistema colonialista della Turchia. Con questi tribunali viene fatta la guerra contro il popolo curdo e la sua politica.
I tribunali turchi agiscono come tribunali di guerra
Questi tribunali colonialisti hanno messo in mostra la loro mentalità anche nel procedimento sul massacro di Roboskî. Si tratta palesemente di un massacro nei confronti di 34 civili e la giustizia parla inizialmente di “omicidio colposo” e poi chiude definitivamente il procedimento. Con questo atteggiamento si vogliono coprire in modo evidente i responsabili e nascondere il fatto sotto il tappeto. Di fronte a questo, come possiamo noi come movimento portare avanti il processo passo per passo? Rivolgo questa domanda ai responsabili governativi. Come deve funzionare questa cosa? Se loro vogliono perseverare con la loro politica di negazione, con la loro politica coloniale, questo per noi è un motivo per la resistenza armata. Perché questa è la riproduzione dell’atteggiamento dello stato degli anni ’90. Se vogliamo entrare in una “nuova fase”, costruire una „nuova Turchia“, bisogna voltare le spalle a questa politica.
Nella seconda fase è lo stato che deve agire
Oltre a tutto questo, in Turchia sono tutt’ora in vigore molte leggi che sono state emanate unicamente contro i curdi. Le leggi antiterrorismo e lo sbarramento elettorale [del 10% per entrare nel parlamento nazionale] sono solo gli esempi più noti. E per nessuna di queste leggi si parla di modifiche. In opposizione al processo di soluzione vengono quindi mantenute tutte le condizioni generali di una politica di ostilità verso i curdi.
Ci troviamo ufficialmente da tre mesi, di fatto da cinque mesi, in una tregua. Da sei settimane stiamo ritirando le nostre forze. Con questo ci siamo assunti le nostre responsabilità nel primo passo del processo di soluzione in tre fasi del nostro presidente. Anche se parti delle nostre forze armate sono ancora nella fase di ritiro, siamo già entrati nella seconda fase del processo di soluzione. Ora tocca allo stato. Deve assolvere i compiti che sono di sua competenza. Fino ad ora non ha fatto nulla. Prima ho evidenziato che mostra piuttosto una pratica che è tutt’altro che orientata verso una soluzione. Questo ovviamente ci pone degli interrogativi. Ma non per questo il processo è stato dichiarato concluso, noi lo portiamo avanti. Solo che ora deve agire lo stato.
Cosa deve fare lo stato in questa fase?
Come dicevo, nella seconda fase, il maggior numero di compiti compete allo stato. Per questo osserviamo con molta attenzione il suo comportamento. Ci sono passi che lo stato deve compiere immediatamente, altri devono seguire. Tra i più urgenti c’è ad esempio quello di togliere dall’isolamento il nostro presidente. Senza questo il processo non potrà progredire. Per quanto riguarda i guardiani dei villaggi e la costruzione di caserme, lo stato deve comportarsi in modo univoco e compiere passi credibili. Con questo elenco non intendo minacciare nessuno e nemmeno dare un ultimatum allo stato. Ma vogliamo riferire alla nostra popolazione e all’intera opinione pubblica che noi come KCK e PKK nell’ambito di un processo di soluzione abbiamo assolto i nostri compiti e che continueremo a farlo. Tuttavia anche lo stato deve essere all’altezza delle proprie responsabilità. Sarà pure vero che le sue operazioni militari sono state interrotte da tre mesi. Ma oltre a questo è successo ben poco.
Il processo cammina solo su due gambe
Detto in breve, il processo non può camminare su una gamba sola, cammina su due gambe. La prima gamba si muove in avanti, ora la seconda deve seguirla. Ci aspettiamo già prima della pausa estiva alcuni passaggi a livello parlamentare. Si dice ad esempio che i procedimenti contro il KCK di Amed e Istanbul sono diretti contro il processo di soluzione e che lo stato non può intervenire in modo diretto. Se è così, chiediamo al governo di uscire da questo vicolo cieco con una riforma della giustizia. Tengo a specificare che io non credo che questo dipenda dai tribunali. È più il sistema che c’è dietro, un sistema con una mentalità coloniale. Non è stato superato e i suoi organismi e le sue istituzioni continuano a lavorare. Il presidente del consiglio dei ministri turco continua a parlare del fatto che prende sul serio il processo. Lo prego, allora, di mostrare la sua serietà nella pratica. Fai dei passi credibili e seri. Metti fine all’isolamento a Imralı, libera politiche e politici curdi, libera i prigionieri malati, mostralo a livello pratico. Parole amichevoli da sole non bastano.
Se si ferma il processo ne è responsabile lo stato
Diciamo in modo franco ed aperto: se lo stato e il governo vogliono risolvere la questione curda, devono agire in modo serio. È il tempo dei passi concreti. Se non si fa questo, il processo subirà delle battute di arresto. E se alla fine si ferma, è solo lo stato a esserne responsabile. D’ora in poi il processo dipende dal comportamento del governo dell’AKP. Noi abbiamo fatto tutto quello che fino ad oggi abbiamo potuto fare ai fini di una soluzione. E se lo stato non reagisce, dobbiamo riflettere sulla situazione e rideterminare il nostro ulteriore modo di procedere.
Gezi è il rifiuto della mentalità autoritaria
Se il governo dell’AKP nell’ambito della dichiarazione del Newroz del presidente Apo avesse messo in moto uno sviluppo della democratizzazione e in corrispondenza ci fosse stato anche un avvicinamento ai temi sociali, gli sviluppi attorno alla questione del Gezi-Park non avrebbero raggiunto queste dimensioni. Non ci sarebbero stati attacchi così violenti e repressivi contro avvenimenti di natura sociale. Lo stato si è approcciato al Gezi-Park con la stessa politica che usa anche in Kurdistan.
La resistenza di Gezi ha sorpreso il governo
La resistenza che si è sviluppata intorno al Gezi-Park rappresenta una tappa importante nella storia della democrazia in Turchia. Noi pensiamo che questa sia una situazione nuova e che avrà un ruolo importante per il futuro. Naturalmente i gruppi coinvolti in questo processo non sono nella stessa situazione, ci sono anche realtà con modi di pensare diversi fra loro. Invece di un’unità o di una organizzazione comune, si tratta di un processo sociale che comprende realtà diverse. La fase attuale, insieme all’elevato grado di resistenza ha scosso il governo. Anche se troppo tardi, ha compreso la serietà della questione: ha condotto diversi colloqui e fatto alcune concessioni. Ad esempio ha dichiarato che aspetterà una sentenza sul Gezi-Park e che forse ci sarà persino un referendum. Allo stesso tempo ha condotto colloqui con chi solidarizza con piazza Taksim e con un gruppo di artisti. In fondo si è trattato di un compromesso.
Le forze della resistenza avrebbero dovuto valutare questo come un successo e trasformare la situazione attorno al Gezi-Park a partire da questo in una resistenza democratica su un altro livello. Lì c’era la possibilità di trasformare l’atteggiamento della gente in un riflesso democratico delle masse per il futuro. Ma questo non è stato fatto. Secondo noi c’è stato un approccio tattico sbagliato. (…) Anche se in diversi luoghi della Turchia la resistenza prosegue – questo ovviamente è importante – si sarebbero dovuti valutare meglio gli errori del governo. Così il 13 e 14 di questo mese si sarebbe potuta verificare una svolta. Che questo non si sia verificato, ha messo a dura prova le forze di resistenza. Ma qualsiasi cosa succeda, questa per noi è una svolta importante. È un processo che ancora una volta ha dimostrato che i gruppi della società civile non accettano la mentalità autoritaria e incentrata sul potere.
Per una soluzione democratica, il potenziale della rivolta di Gezi si deve unire al processo di soluzione democratica in Kurdistan
Perché questo processo si incanali nel modo giusto e ci sia uno sviluppo verso la democrazia, ci deve essere un’unificazione con il processo di soluzione democratica in Kurdistan. Ma ora sembra che ci siano due processi distinti – insieme ci sarebbero però anche determinati rischi. Un gruppo di nazionalisti prova a limitare il processo a un livello locale. Questo impedisce che si sviluppi una base democratica. Questa divisione locale può produrre diversi risultati con una brutta conclusione. Per questo, ai fini di una democratizzazione, è importante unire il potenziale della rivolta di Gezi con il processo di soluzione democratica in Kurdistan.
Valutiamo le ondate di arresti come un attacco contro di noi
Ora sono iniziate le ondate di arresti contro i componenti dell’ESP (Partito Socialista degli Oppressi) e altri attivisti della resistenza. Gli arresti sono un risultato della politica dello stato che è autoritaria e incentrata sul potere. Va detto che le operazioni sono dirette contro partiti ed organizzazioni che hanno un rapporto positivo con il movimento di liberazione curdo e che sostengono il processo di soluzione. Prima tali ondate di arresti ci sono state contro i componenti dell’SDP (Partito Socialista Democratico) e ora contro l’ESP. Riteniamo l’attacco all’ESP come un attacco contro di noi. Attacchi come questo non vanno verso una soluzione, ma in senso contrario. Condanniamo con forza gli attacchi contro i rivoluzionari dell’ESP. Lo stato dovrebbe sapere che non può vincere dei rivoluzionari con arresti e oppressione.
ANF, 19.06.2013