Incontro con Hatip Dicle, rappresentante del Dtk di Diyarbakir.

Datip Dicle ha una militanza trentennale alle spalle nel movimento curdo. E’ stato incarcerto due volte. La prima dal 1994 al 2004, la seconda dal 2009 al 2014. In entrambi i casi l’accusa, tutta politica, era di “minare l’unita’ dello stato turco”. Il classico reato ideologico con cui la Turchia si sbarazza da sempre dei militanti curdi.

Hatip ripercorre gli ultimi anni di resistenza curda, che hanno condotto ai drammatici passaggi tuttora in corso e che pongono il Kurdistan al centro dello scenario mediorientale e mondiale.

Nel 2012, dopo la resistenza eelle YPG in Rojava contro Isis, il governo turco si accorge della forza del movimento curdo. Le immagini delle YPG fanno il giro del mondo ed essendo nota la loro assimilabilita’ ideologica al PKK operante in Turchia il governo valuta conveniente aprire ai negoziati con Ocalan. Ocalan, di suo, il 21 marzo del 2013 si esprime a favore dei negoziati proponendo che dall’8 maggio i guerriglieri avrebbero iniziato a lasciare la Turchia in cambio del rilascio dei prigionieri gravemente malati. Una misura che in altri scenari sarebbe considerata solo come un gesto umano. In estate, pero’, lo stato non aveva ancora fatto nulla nonostante la guerriglia si stesse ritirando. Ad agosto quindi, il KCK annuncia che la guerriglia avrebbe rallentato il proprio ritiro, pur rispettando il cessate il fuoco.

Nel 2014 iniziano i negoziati di Imrali. La delegazione curda ha 5 membri: tre membri dell’HDP, una in rappresentamza delle associazioni delle donne e lo stesso Hatip Dicle. Per lo stato turco sono invece presenti i rappresentanti del KCM, l’organo di coordinamento dei servizi segreti (tra cui il famoso MIT), il ministro degli interni e l’attuale primo ministro Davutoglu (personaggio assai discusso in Turchia, salito nuovamente alla ribalta negli ultimi giorni per la dichiarazione shock per cui, in caso di non raggiungimento della maggioranza azsoluta da parte dell’AKP, sarebbero state ripristinate le squadre “toros”,responsabili negli anni ’90 di eccidi indiscriminati nelle zone curde).

E’ il febbraio 2015 quando esce un documento in dieci punti esito dei negoziati. Tra i contenuti piu’ significativi la proposta di una road map per risolvere la questione curda e delle altre minoranze turche, la proposta di autorizzare l’insegnamento della propria lingua per le stesse minoranze, le proposte relative all’autonomia amministrativa degli enti locali e alcune proposte inerenti la condizione femminile. Un complesso di spunti, insomma, tesi alla democratizzazone dello stato turco, la cui accettazione avrebbe determinato un appello dello stesso Ocalan al KCK in favore della cessazione di tutte le ostilita’.

Ad aprile, tuttavia, Erdogan sconfessa il risultato dei negoziati e dichiara di essere estraneo ad ogni trattativa “con i terroristi”, come continua ad appellare il movimento curdo nel suo complesso. Non esisterebbe, a suo dire, alcun processo di pace. Cio’ coincide con la ripresa dell’isolamento totale per Ocalan.

A spaventare Erdogan sono tre fattori:
1)la forza delle YPG, che ha catalizzato l’attenzione e per la prima volta instaurato un rapporto fra movimento curdo e comunita’ internazionale.

2)la liberazione di Tell Abyad da parte delle YPG, che ha creato nel Rojava l’unita’ territoriale fra Kobane e il cantone di Jazire, svincolando Kobane dalla dipendenza dalla turchia (e quindi dal potere di ricatto per lo stato turco) per il passaggio di aiuti umanitari e materiali di ricostruzione.

3)una possibile crescita di autorevolezza dell’HDP derivante dagli esiti elettorali, che si sarebbe potuta tradurre in consenso elettorale.

A questo punto ricomincia la guerra al PKK e alle formazioni curde nel loro complesso. Il KCK reagisce dichiarando un cessate il fuoco unilaterale, cosi da poter evidenziare chiaramente da che parte proviene l’ostilita’ e il ricorso alla violenza. I passaggi che seguono sono noti: la dichiarazione di autogoverno delle regioni curde, la recrudescenza estiva con il coprifuoco imposto da Erdogan e l’autodifesa delle citta’ e dei quartieri curdi, banco di prova della capacita’ di tenuta dell’autogoverno e al contempo dimostrazione che, rispetto agli anni ’90 in cui la difesa del popolo curdo era appannaggio esclusivo delle milizie del PKK, oggi la resistenza ha assunto carattere popolare e si e’ radicata anche a livello cittadino/metropolitano.

Un percorso di resistenza quarantennale che, dinamizzato dalla gloriosa dimostrazione data in Rojava (con tutto il suo portato simbolico e concreto in fatto di autodeterminazione di popolo e di genere, di ricerca di un modello di sviluppo ecologista lontano dal capitalismo occidentale, di democrazia sostanziale dal basso), si e’ esteso al Kurdistan turco ma offre numerosi spunti che possono parlare anche ai movimenti sociali europei per quanto riguarda la dimensione metropolitana (banlieusarda?) della resistenza all’oppressione di stato o la gradualita’ da seguire in termini di radicamento popolare (a fronte di societa’ europee decisamente meno solidali e piu’ “squagliate” di quella curda, ma in cui alcuni percorsi militanti sono riusciti a ricreare degli embrioni di blocco sociale sulle ceneri della crisi e dell’austerita’).

Venendo alle imminenti elezioni, il quadro piu’ probabile e pronosticato dallo stesso Hatip Dicle e’ quello di una sostanziale staticita’ rispetto alla consultazione di giugno. Il movimento curdo e’ sicuro che l’HDP superera’ lo sbarramento nonostante lo stop alla campagna elettorale autoimpostosi dopo le stragi nelle manifestazioni di Diyarbakir, Suruc e Ankara (un’automutilazione che la dice lunga sull’effettivia democraticita’ della vita civile turca, cosi come la “disattenzione” dello stato nei confronti degli attentatori o il paradossale tentativo di attribuirne le colpe al movimento curdo stesso…).

Verosimilmente, saranno quindi gli stessi attori politici presenti ora in parlamento a entrarvi di nuovo. Oltre all’AKP di Erdogan e Davutoglu, alla ricerca della maggioranza assoluta ma in realta’ terrorizzati dal crescente sgretolarsi del loro blocco di consenso sociale, vi saranno quindi i kemalisti del CHP (storico partito di potere, legato alla burocrazia statale ed ora intento a ri-accreditarsi come partito di moderato centrosinistra) e gli ultranazionalisti dell’ MHP (ostili alle minoranze curde e armene e in competizione con l’AKP di Erdogan per accaparrarsi l’elettorato tradizionalista-religioso). Ma la novita’qualitativa emersa con le elezioni di giugno rimane l’HDP, capace di catalizzare non solo il favore dei curdi (le cui formazioni politiche locali rimangono l’asse portante del partito), ma anche tutte le altre voci oppresse in termini etnici o sociali entro i confini turchi (numerosi i partiti della sinistra marxista o socialdemocratica che faranno confluire il loro appoggio all’HDP, caratterizzandolo di fatto come il partito anti-autoritario turco).

Una lista di sigle da cui, come conferma Hatip Dicle, e’ difficile pronosticare un esito certo in termini di governamentabilita’ di sistema. La velleita’ autoritaria di Erdogan, che punta a una modifica costitzuionale in senso fortemente presidenzialista, e’ dichiarata e confermata dall’aggressivita’ tenuta in estate verso le minoranze. Ma come Ocalan stesso aveva dichiarato prima dell’isolamento “Erdogan commettera’ un grosso autogol se considera’ l’esercito turco come la propria milizia privata”. Una sottovalutazione che sembra dare gia’ i primi esiti, come si evince dal fatto che il Capo di stato maggiore Hulusi Akar ha manifestato “disagio” per l’aver condotto operazioni militari in zone civili durante l’estate e nei giorni di coprifuco-autodifesa. Se a cio’ aggiungiamo che la politica tenuta da Erdogan verso i curdi tuchi e nel Rojava (Davutoglu ha confermato che sono in corso operazioni militari contro le YPG) e’ invisa a potenze come Russia e Cina, ecco che l’ipotesi di un colpo di stato militare in caso di ennesimo stallo parlamentare appare meno improbabile di quanto si possa pensare. La base stessa dell’AKP e’ irrequieta, e attentati come Suruc ed Ankara (nei quali sono morti curdi ma anche tanti turchi laici) non fanno che aumentare i dubbi sulla possibile continuazione del “sultanato” di Erdogan.

In ogni caso, l’esperienza insegna che non saranno le sole percentuali elettorali a permettere una tutela del popolo curdo, bensi la capacita’ del movimento di diffondere la cultura dell’autodeterminazione popolare e di creare interlocuzioni politiche con tutte le realta’ tese verso la democratizzazione della Turchia.

di Emilio Canzi