Il prezzo della politica spericolata di Erdogan
L’attentato di Istanbul sarà probabilmente seguito da altri e ci riguarda direttamente per evidenti questioni di sicurezza e per il nostro futuro geopolitico. Niente di quello che avviene nella polveriera turca succede per caso. Chi semina grandine raccoglie tempesta, è il caso di ricordarselo adesso che al popolo turco si indirizza il sostegno dell’Europa dettato da una doverosa solidarietà contro il terrorismo ma anche dall’accordo con Ankara sui migranti: è stato il presidente Erdogan insieme all’ex primo ministro Davutoglu ad aprire «l’autostrada della Jihad» che ha consentito a migliaia di miliziani di andare a combattere in Siria per abbattere Bashar Assad.
L’Occidente e l’ex segretario di Stato Usa Hillary Clinton lo sapevano perfettamente perché nel 2011 si riteneva che Assad sarebbe caduto in pochi mesi, come gli altri raìs arabi. Un errore di calcolo paragonabile a quello che fece Bush jr. scoperchiando il vaso di Pandora con l’attacco all’Iraq nel 2003. Non dimentichiamo che l’ambasciatore americano in Siria e quello francese il 6 e 7 luglio 2011 passeggiarono in mezzo ai ribelli di Hama: era il segnale di via libera alla guerra con ogni mezzo. Un “pro memoria” volatilizzato dalle esitazioni di Obama nel 2013 a bombardare Assad e che oggi spiega la ribellione di un manipolo di diplomatici americani.
Quella contro Damasco non era soltanto una legittima rivolta contro un regime brutale ma una guerra per procura contro l’Iran sciita, strettamente legato ad Assad come agli Hezbollah libanesi e al governo di Baghdad. È questo l’asse sciita. La Siria del padre di Bashar, Hafez, era stato l’unico Paese arabo a schierarsi con Teheran quando fu attaccato da Saddam Hussein nel 1980, un conflitto durato otto anni con un milione di morti e che aveva visto le monarchie del Golfo, Arabia Saudita in testa, versare 60 miliardi di dollari all’Iraq a guida sunnita: un investimento colossale svanito quando il Paese è andato in mano alla maggioranza sciita. Il fronte sunnita ha cercato la rivincita nella guerra contro Damasco, diventata ancora più aspra quando l’Iran ha firmato nel luglio 2015 l’accordo sul nucleare con il Cinque più Uno. L’intervento della Russia il 30 settembre scorso ha salvato Assad ma ha anche allargato le dimensioni di conflitto che oggi è al centro della maggiore spartizione in zone di influenza dai tempi di Yalta e che deve tenere conto non solo del Medio Oriente ma anche dell’Est Europa e dell’Ucraina.
La Siria è una sorta di Jugoslavia araba – come non fosse bastata la disgregazione di quella Tito – che per la sua composizione settaria ed etnica sarà quasi impossibile pacificare senza un accordo tra Stati Uniti, Russia e potenze regionali. Tenendo presente che l’irruzione del Califfato, nato da una costola di Al Qaeda, non solo ha reso il conflitto una carneficina ma lo ha esteso con il terrorismo dal Medio Oriente all’Europa.
Se è vero che l’Isis arretra, è evidente che in Iraq e Siria si combattono due guerre diverse. In Iraq contro l’Isis è schierata una coalizione a guida americana che appoggia le forze governative irachene sostenute da milizie curde e sciite. In Siria a condurre la guerra ai jihadisti (e all’opposizione) è Assad con l’Iran e la Russia: qui una vittoria contro l’Isis è una sconfitta non solo per Erdogan ma anche per l’Occidente.
Agli errori di calcolo sulla sorte di Assad, Erdogan ne ha aggiunti altri fatali. Il presidente turco pensava di mettere le mani sugli ex possedimenti ottomani come Mosul e Aleppo, per questo ha sostenuto il Califfato, al punto che l’intelligence occidentale ritiene che recentemente abbia aiutato l’Isis a spostare 6mila uomini sul fronte siriano. Non solo: ha usato i jihadisti contro i curdi. Naufragato l’accordo di pace con Ocalan, Erdogan ha lanciato un’offensiva contro il Pkk e ostacolato in ogni l’avanzata dei curdi siriani contro l’Isis, ora aiutati anche dagli americani. E adesso la Turchia si trova davanti un incubo strategico: che i curdi, prima o poi, costituiscano uno stato ai suoi confini.
Ecco perché Erdogan è stato costretto a fare la pace con Israele e riaprire i canali diplomatici con Putin. Con la fine dell’Isis si avvicina l’ora della verità: la guerra che lui voleva portare contro Assad è rientrata in casa sua e cerca una via di uscita. Voleva diventare il nuovo sultano del Medio Oriente, si è trasformato nel “padrino” di jihadisti che ora lo ritengono un traditore. I frutti avvelenati questa politica spericolata non riguardano solo la Turchia: il bastione atlantico sul fianco sud del Mediterraneo vacilla mentre l’Europa affronta la dura prova della Brexit. Turandoci il naso forse dovremo aiutare persino l’inaffidabile “alleato” Erdogan.
di Alberto Negri, Il Sole 24 Ore