Il muro della vergogna che separa Siria e Turchia
Ayşe Gökkan è il sindaco di Nusaybin, città del Kurdistan turco al confine con la Siria, dove il governo di Ankara sta costruendo un muro. La sua battaglia, iniziata a novembre con uno sciopero della fame, non è ancora finita.
Ci sono dei bambini che corrono in un prato. Pochi metri più in là un uomo lavora a bordo di un trattore. È una scena che potremmo vedere in qualsiasi parte del mondo se non fosse che il campo è diviso a metà da un muro di filo spinato alto più di due metri.
I bambini si trovano a Nusaybin, città curda nel sud-est della Turchia. Dall’altro lato, dove lavora l’uomo, c’è invece Qamishli, centro abitato del Kurdistan siriano (Rojava). Poco importa che le due città siano unite da sempre da cultura, lingua, vincoli di parentela e amicizia. Alla fine dell’anno scorso il governo di Ankara ha deciso di innalzare un muro lungo la frontiera, ufficialmente per impedire l’ingresso nel Paese a contrabbandieri e terroristi. Questa spiegazione non ha convinto tutti, tanto che Ayşe Gökkan, sindaco di Nusaybin, a novembre aveva iniziato uno sciopero della fame contro quello che rapidamente è stato ribattezzato il “muro della vergogna”.
Incontro Gökkan insieme ad una delegazione di osservatori italiani che si trovano nel Kurdistan turco in occasione del Newroz, il capodanno curdo. Ci accoglie nel suo ufficio e ci racconta la sua storia.
«Anche se sono il sindaco nessuno mi aveva detto che volevano costruire un muro, ho ricevuto la notizia come tutti gli altri». Dopo aver chiesto spiegazioni al prefetto, al ministro dell’Interno e anche al premier Recep Tayyip Erdoğan, Gökkan è allora andata al confine, dove si stava costruendo la barriera, insieme a una cinquantina di persone per parlare con i militari. I soldati hanno lasciato passare solo lei, picchiando gli altri per allontanarli. «Mi sono seduta lì e gli ho detto che non mi sarei mossa fino a quando non mi avrebbero dato delle informazioni». È iniziato così lo sciopero della fame che è durato 9 giorni.
Alla protesta di Gökkan si sono unite centinaia di persone che sono scese in strada per manifestare. Adesso al posto di un muro che doveva essere alto sette metri e lungo sette chilometri ci sono invece due barriere di filo spinato, una delle quali è alta poco più di tre metri e lunga 1300 metri. Tra le due file ci sono delle mine sotterrate più di sessant’anni fa e che Ankara si era impegnata a togliere entro la fine del 2014.
I curdi hanno sempre dovuto convivere con la repressione e le violenze del governo centrale. Adesso si trovano anche a subire i contraccolpi della guerra. «Noi vorremmo portare medicine e vestiti a coloro che vivono in Siria. Quando non ci lasciano passare lanciamo le cose al di là del muro – racconta Gökkan – In tv dicono che ci sono dei contrabbandieri; per noi questo non è contrabbando ma un aiuto. Il confine degli Stati non coincide con il confine dei popoli, quindi per noi il contrabbando non esiste. Laggiù ci sono i nostri familiari».
L’odissea dei curdi, il più grande popolo senza stato, è iniziata all’indomani della prima guerra mondiale, con la fine dell’Impero Ottomano, quando il loro territorio è stato diviso tra l’Iran, la Siria, la Turchia e l’Iraq. Per il sindaco di Nusaybin questo muro è riuscito a creare una nuova unità con coloro che vivono al di là del confine. «Il governo lo ha costruito per dividerci, ma invece ha distrutto le barriere che le persone avevano in testa – spiega – ormai questa non è più Turchia e quella non è più Siria. Questa terra è di chi ci abita sopra, lo Stato e la regione non sono più importanti».
Gokkan ha scelto di non ricandidarsi e con le elezioni amministrative è stato scelto un nuovo sindaco, sempre del partito filocurdo del Bdp Nusaybin. Ma nonostante questo per lei la battaglia non è finta. «Finché sarò in vita non lascerò che ci sia questo muro davanti ai miei occhi».
Testo e foto di Giulia Sabella
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