Il Kurdistan va in paradiso

Alessandro Borscia ha realizzato un lungo reportage sul mondo dei curdi a Berlino, pubblichiamo la seconda parte dopo la prima parte che era Biji Kurdistan Nel pianeta dei curdi a Berlino

Riza Baran è un uomo anziano, stanco e forse malato. A Berlino dal 1970, questo signore è un settantacinquenne dalle folte sopracciglia e dallo sguardo dolce e bonario, con un’attiva carriera politica alle spalle: è il presidente della Kurdische Demokratische Gemeinde zu Berlin-Brandenburg e. V. (la Comunità curda democratica di Berlino), anche chiamata Dachverband, ovvero la confederazione che raccoglie ventisei delle circa quaranta associazioni curde presenti a Berlino. Ha un aspetto elegante, pieno di dignità, Riza Baran, e nonostante la sua voce sia debole e affaticata, ci concede molto del suo prezioso tempo: “Non tutte le associazioni curde a Berlino sono membri della nostra federazione, ci dice, “ma comunque ci consultiamo e ci aiutiamo a vicenda per risolvere i problemi. Facciamo lavoro sociale, forniamo aiuto e consulenza in lingua curda, soprattutto per quelli che arrivano a Berlino e che a Berlino vogliono vivere. Cerchiamo di dare loro consigli, soprattutto su questioni legali, giuridiche e sociali, sulla scuola, su come funziona la sanità. Per noi ovviamente il tema più importante è il mercato del lavoro e le istituzioni cui i nuovi venuti devono rivolgersi”.

Nelle stesse stanze in cui ha sede la confederazione presieduta da Riza Baran, al numero otto di Dresdnerstraβe, in una palazzina nascosta dalle massicce e desolanti pareti posteriori di un brutto edificio in cemento, si trova il Kurdisches Zentrum. Insieme a Yekmal e KKH (Kurdistan Kultur- und Hilfsverein e. V), la prima associazione curda a Berlino, nata nel 1974, il Kurdisches Zentrum riesce a vivere anche attraverso i finanziamenti pubblici stanziati dal Senato di Berlino e dal Land del Brandeburgo. Quasi tutti i gruppi e circoli curdi della capitale berlinese non sono finanziati da nessuno e si affidano per le proprie attività al lavoro dei volontari.

“Il Kurdisches Zentrum è stato fondato nel 1984 ed è l’unica associazione curda a Berlino che rappresenta tutte le diverse etnie e culture curde. I nostri sessantasette membri, infatti, provengono da tutte le zone del Kurdistan. A parte i curdi iraniani, che al momento non ci sono, tutti sono presenti nel consiglio d’amministrazione”, ci racconta Ibrahim Okuduci, detto Ibo, vera e propria figura esecutiva del Kurdisches Zentrum, di cui è il direttore amministrativo. Il Presidente si chiama invece Kazim Baba. “Alcuni dei nostri membri sono impegnati con la politica in Turchia, altri invece sono interessati solo alla situazione in Iraq o in Siria. Abbiamo membri o simpatizzanti del PDK (Partito Democratico del Kurdistan in Iraq, fondato da Mas’ud Barzani, attuale Presidente del Kurdistan iracheno, l’unica parte che ha raggiunto, dal 2005, un’autonomia riconosciuta) dell’UPK (Unione Patriottica del Kurdistan, sempre in Iraq, con a capo Jalal Talabani) o della Lista Gorran, (nata nel 2009 in opposizione alla coalizione formata dai due partiti maggiori sopra citati, i quali, nel corso degli anni Novanta furono coinvolti in una sanguinosa guerra intestina). Di fronte ai complicati e a volte conflittuali rapporti fra i diversi partiti politici presenti, soprattutto nel Kurdistan turco e iracheno, si cerca di discutere, ma non ci sono mai scontri o litigi. Ci sono naturalmente diverse opinioni, ma mai scontri”, ci spiega Ibo, con pazienza e disponibilità.

Le sue parole ci introducono alla complicata matassa della questione curda attuale, che gioca un ruolo delicato e strategico, soprattutto per le potenze occidentali, nell’ingarbugliato puzzle geopolitico del Medio Oriente, con effetti anche sulla comunità curda berlinese.

Chi sono i curdi?
Il Kurdistan, letteralmente “la terra dei curdi”, si estende verso est dall’Anatolia sudorientale, fino al monte Ararat a nord e la catena dei monti Zagros in Iran, includendo quindi il Nord Iraq, l’Iran occidentale e parti della Siria settentrionale. Un territorio ricchissimo di acqua, petrolio e minerali che copre un’area di quasi 500mila chilometri quadrati.

Ci vivono all’incirca trentacinque milioni di curdi, anche se non è mai stato possibile fare una stima ufficiale. È la più grande popolazione al mondo senza uno Stato. I palestinesi, per fare un esempio, sono quattro milioni. I curdi non sono né arabi né turchi e provengono molto probabilmente dai Medi, che si stabilirono nella regione nel VII sec. a. C.. La loro lingua è simile al persiano, ma a differenza degli iraniani, in prevalenza sciiti, i curdi sono in maggioranza sunniti. Se si confronta una cartina con i territori storici del Kurdistan con una carta geo-politica attuale, si vede che i curdi vivono sostanzialmente in quattro stati: Turchia, Siria, Iraq e Iran, anche se ci sono minoranze pure in Armenia. I curdi preferiscono dire Kurdistan del nord, dell’ovest, del sud e dell’est.

La nascente Repubblica turca, fondata nel 1923 da Mustafa Kemal Atatürk, mise in atto una politica repressiva nei confronti delle minoranze e negò ai curdi identità e indipendenza. “Se vivi all’interno del territorio turco, allora sei turco”, diceva Atatürk.

In Turchia vivono quasi diciotto milioni di curdi: si tratta della parte più consistente e rappresenta poco meno di un quarto dell’intera popolazione turca. In Iran, prevalentemente nella parte occidentale, sono quasi otto milioni, in Iraq sette milioni e in Siria due milioni. La diaspora, i curdi che vivono all’estero, soprattutto in Europa e Nord America, conta più di un milione d’individui. Solo in Germania si conta che vivano 650mila curdi, 100mila dei quali a Berlino. In Italia sono invece 10mila.

La prima divisione del Kurdistan risale al 1680, quando furono la dinastia musulmana sciita dei Safàvidi, che regnò in Persia dal 16° al 18° sec., e l’Impero ottomano, a dividersi il territorio storico del Kurdistan. L’attuale divisione risale all’inizio del secolo scorso. Fino alla fine della Prima guerra mondiale il Kurdistan era quasi del tutto compreso nei territori dell’Impero Ottomano e godeva di una relativa autonomia. Ma la sconfitta, nel conflitto mondiale, del regno di ῾Othmān I, portò le potenze vincitrici, Francia e Inghilterra, a dividersi il territorio secondo aree d’influenza. Il Trattato di Sevres del 1920 prevedeva la formazione di Stati arabi come la Siria, l’Iraq e il Kuwait e l’assegnazione ai curdi di un territorio, in quella che sarà la parte orientale della Turchia di oggi, in cui potersi autodeterminare e fondare uno Stato curdo indipendente.

Fu un’illusione. La nascente Repubblica turca, fondata nel 1923 da Mustafa Kemal Atatürk, che voleva rafforzare l’unità dei turchi attraverso un forte senso nazionalistico, mise in atto una politica repressiva nei confronti delle minoranze e negò ai curdi identità e indipendenza. “Se vivi all’interno del territorio turco, allora sei turco”, diceva Atatürk. Fu loro concessa solo la possibilità di creare un governo amministrativamente autonomo nei dipartimenti del protettorato inglese in Iraq. Questo stabilì il Trattato di Losanna del 1923, da cui si determina la questione curda moderna. Il Kurdistan si ritrovò così diviso fra diversi nuovi Stati. Da allora la lotta dei curdi per l’indipendenza è diventata una lotta di resistenza a massacri ed eccidi efferati, per non vedersi cancellata l’esistenza. I più brutali e feroci sono stati compiuti in Turchia e in Iraq.

“Una cosa deve essere detta chiara e forte”, afferma Ibrahim Okuduci, Ibo, calmo e deciso, guardandoci dritto negli occhi. “Le più grandi associazioni di curdi nel mondo sono quelle vicine al PKK”, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Partîya Karkerén Kurdîstan), fondato nel 1978 da Abdullah Ocalan. “Molti curdi, soprattutto in Turchia, sono costretti a scappare dalla loro terra solo perché simpatizzano per il PKK. Gli altri curdi possono vivere in Turchia, non hanno problemi. Se però si hanno simpatie per il PKK, allora si è costretti a fuggire. E molti vengono a Berlino e s’iscrivono a NAV-DEM. Questo succedeva prima e succede anche ora”.

A Berlino, l’associazione NAV-DEM (Navenda Civaka Demokratîk a Kurdên li Almanyayê, Centro sociale democratico dei curdi in Germania), conta 1500 membri ed è di gran lunga il gruppo più numeroso della capitale tedesca.

NAV-DEM e.V.
“PKK? Na klar!”, è scritto su una bandiera rossa, con una stella gialla a cinque punte al centro, che si vede subito appena si entra nella sede berlinese di NAV-DEM, in Residenzstraβe, a Wedding, nella parte nord di Berlino.

“Il PKK è vietato, è stata una decisione politica. L’hanno proibito nel 1993 e questa decisione, per noi curdi che siamo attivi qui, è un grosso problema, perché è capitato che chi era attivo nel circolo, non ha visto accolta la richiesta d’asilo, per esempio. Oppure se chiedevi la cittadinanza tedesca, te la negavano e l’argomentazione era che eri Verfassungsfeindlich, contro la Costituzione. Al momento, in Germania, ci sono diversi processi politici contro attivisti curdi. Sono stati condannati e sono in prigione. Il 2 marzo di quest’anno il Ministro dell’Interno tedesco ha vietato la bandiera delle organizzazioni curde del Rojava. Alle dimostrazioni le nostre bandiere sono proibite, la polizia mi osserva e mi becco una denuncia. Le nostre libertà fondamentali sono limitate. Sono proibite le bandiere con l’effigie di Ocalan, del PKK e ora anche quella dell’ YPG e dell’ YPJ. L’YPG, per esempio, è il braccio militare del PYD (Partito dell’Unione Democratica, estensione siriana del PKK) in Rojava, la regione autonoma de facto nel nord-est della Siria, non ufficialmente riconosciuta da parte del governo siriano: la loro bandiera è proibita, ma combattono in Siria contro lo Stato Islamico, a fianco della coalizione internazionale. In Germania, però, la loro bandiera è vietata. Stanno proprio così le cose!”.

A rivelare in maniera chiara un aspetto dell’atteggiamento opportunista dell’Occidente in merito alla questione curda, è un ragazzo di ventinove anni, Mako Qocgiri. Mako ha gli occhi vivaci e intelligenti ed è nato in Germania. Suo nonno ci è venuto per sfuggire alla guerra turco-curda. “Io sono della terza generazione, mio padre è arrivato giovane ed io ci sono nato”, racconta. Mako sta facendo un dottorato in scienze politiche e lavora, volontario, presso Civaka Azad, agenzia curda per la comunicazione, un gruppo organico al centro sociale NAV-DEM. Quello nella capitale tedesca è uno dei settantaquattro centri sparsi nella Germania: fanno tutti parte della confederazione nazionale NAV-DEM tedesca con sede a Colonia.

Nell’associazione confluiscono molti di quelli che sono stati costretti a fuggire dalla Turchia. Sono persone politicizzate e conoscono gli obiettivi del Kurdische Freiheitsbewegung, il Movimento curdo per la Libertà, come si chiama adesso il movimento che raccoglie quanti sono vicini agli ideali di Ocalan e del PKK: “Simpatizzano con queste idee. Leggono Ocalan, non vogliono uno Stato curdo indipendente, vogliono una democrazia di base, dove la società si autogoverni da sola. NAV-DEM è in sintonia con queste idee”, dice Mako.

Quello che rappresenta per i curdi Abdullah Ocalan, è sintetizzato bene in un’intervista rilasciata da Erdelan Baran, membro del Congresso Nazionale Curdo e, all’epoca, Presidente dell’Ufficio d’informazione del Kurdistan in Italia, che dice: “Come si sa, (…) con il Trattato di Losanna del 1923, il Kurdistan fu spezzettato, la nostra storia è stata cancellata e la nostra battaglia è rimasta inascoltata fino all’arrivo sulla scena politica del PKK”.

La storia del PKK e del suo leader storico s’intreccia indissolubilmente con la storia del popolo curdo in questi ultimi drammatici quarant’anni. Per buona parte dei curdi, Ocalan rappresenta un cambiamento di mentalità, una presa di coscienza della propria identità nazionale, da cui non si torna più indietro.

La questione del Kurdistan non era presa in considerazione. “Il Kurdistan era una colonia all’interno della Turchia e Ocalan affermava che prima di fare la rivoluzione in Turchia occorreva liberare la colonia Kurdistan

La vicenda ha inizio verso la fine degli anni Sessanta, nel clima di rivolta che aveva preso a infiammare buona parte del pianeta. Lo studente di scienze politiche dell’Università di Ankara, Abdullah Ocalan, insieme ad alcuni studenti turchi della sinistra rivoluzionaria, decide di iniziare la lotta politica. “Ocalan ha avuto molto a che fare con i movimenti di sinistra, con i movimenti rivoluzionari del Sessantotto, con i gruppi socialisti”, racconta Mako. Nel programma politico di questi gruppi, tuttavia, la questione del Kurdistan non era presa in considerazione. “Il Kurdistan era una colonia all’interno della Turchia e Ocalan affermava che prima di fare la rivoluzione in Turchia occorreva liberare la colonia Kurdistan”, continua Mako, che ci indica i ritratti appesi alla parete dei membri, che, insieme a Ocalan, hanno fondato nel 1978 il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, PKK (Partîya Karkerén Kurdîstan).

È storicamente dimostrato che il Colpo di Stato militare in Turchia del 12 settembre 1980 fu attuato principalmente per colpire il PKK e i membri della sinistra turca. “Dopo il golpe del 1980 molti curdi, fra cui alcuni membri fondatori del partito, furono torturati e uccisi nel famigerato carcere di Diyarbakir. Per protestare contro le inumane torture, molti prigionieri politici si sono dati fuoco”, racconta Mako.

Inizialmente il PKK seguiva un’ideologia vicino al marxismo rivoluzionario e nel 1984 inizia una lotta armata contro Ankara che è costata la vita a trentamila persone, ha visto più di tremila villaggi distrutti e milioni di curdi rifugiati nei sobborghi poveri di Istanbul. Lo stesso Ocalan fu costretto a trovare rifugio in Siria, una nazione che in seguito all’annuncio da parte della Turchia dell’inizio dei lavori della diga Atatürk sull’Eufrate, che avrebbe lasciato ai turchi il controllo della portata del fiume e privato la Siria di una vitale risorsa energetica, si era dichiarata disponibile a ospitarlo.

Nel settembre 1998, Ocalan, in seguito al deteriorarsi delle relazioni fra Siria e Turchia, oramai alle soglie di un conflitto armato, è però costretto a lasciare anche il paese arabo. Damasco non intende consegnare il leader curdo ai turchi, ma gli intima di abbandonare il paese. Inizia allora un peregrinare di Stato in Stato alla ricerca di un asilo politico, braccato dagli agenti dei servizi segreti turchi. Gli unici che lo aiutano e che lo proteggono dal mandato di cattura turco sono alcuni agenti dei servizi segreti greci, i quali operano però senza l’avallo formale del governo greco. L’odissea lo porterà dalla Russia in Italia, all’epoca guidata dal governo di Massimo D’Alema, insediatosi dopo la caduta di quello di Romano Prodi. Ocalan arriverà a Roma il 12 novembre 1998, sperando di ottenere l’asilo politico da lui richiesto, ma poi negatogli dal governo italiano per via dei rapporti diplomatici ed economici con Stati Uniti e Turchia. La gestione del caso da parte del governo D’Alema attirò a sé molte critiche e pose il nostro paese al centro di un delicato caso diplomatico internazionale. Alla fine, nel gennaio 1999, Ocalan fu invitato a lasciare l’Italia e finì in Kenya, dove venne arrestato dai servizi segreti turchi, il 15 febbraio 1999 e da lì portato nel carcere di massima sicurezza dell’isola di Imrali, nel Mare di Marmara, dove ancora sconta la condanna all’ergastolo. È di nuovo Mako Qocgiri a rivelarci qualcosa che non conoscevamo: “Ocalan ha detto che gli italiani sono stati ospitali con lui. Gli hanno gentilmente chiesto di andarsene e lui non voleva creare loro problemi per quest’ospitalità; perciò se n’è andato. I greci e i turchi si sono messi d’accordo e hanno poi estradato Ocalan, la CIA anche era coinvolta”. Nell’aprile del 1999 Ankara emise nei confronti di Ocalan la condanna a morte, poi commutata nel carcere a vita nel 2002, anno in cui la Turchia, su pressione della Comunità Europea, abolisce la pena di morte.

Nel corso degli anni, dopo varie dichiarazioni unilaterali di cessate il fuoco, Ocalan ha rivisto la propria posizione politica, rinunciando alla guerriglia armata e all’idea di uno Stato curdo indipendente: “Quando è nato, il PKK era per un unico Stato socialista curdo. Poi, negli anni Novanta, ci si è chiesti: cosa è successo con il socialismo, con il movimento anticoloniale nazionale? Sono veramente liberi? No! Hanno solo cambiato i colonialisti di prima con le proprie élites”, spiega Mako Qocgiri. Per le idee attuali del Movimento, uno Stato nazionale curdo non sarebbe altro che una ripetizione degli errori già commessi in passato nella tormentata regione mediorientale: “Se ci fosse uno Stato nazionale curdo, circondato da quattro Stati, questo sarebbe un potenziale conflitto per i prossimi cento anni, sarebbe un secondo problema, simile a quello di Israele e Palestina”, dice Mako

Al posto dell’idea di Stato nazionale si è sviluppato invece, a partire dagli anni Novanta, un modello di confederalismo democratico, alla cui base stanno le idee di autonomia, ecologia sociale, democrazia e uguaglianza di genere: “Quello che sosteniamo sono forme di autorganizzazione locale e democratica, nuove idee alternative su come si possa costruire una società. Il PKK è l’attore principale nella costruzione di questa società alternativa, e noi di Nav-Dem siamo vicini a queste idee”.

Mako cita Toni Negri e il suo concetto di “Moltitudine”. Non è un modello che si applica automaticamente a tutte le società, le forme di autorganizzazione democratica sono sempre in funzione della realtà locale. Ci spiega, per essere più chiaro, che in Siria, da quando è iniziata la guerra civile, nel 2011, prevalgono due diverse linee politiche: una del PYD (curdo: Partiya Yekitîya Demokrat), il Partito dell’Unione Democratica che è vicino alle idee di Ocalan e del PKK; l’altra dei movimenti nazionalisti siriani, che sono deboli, ma ci sono. Sono quelli influenzati dai partiti nazionalisti del Kurdistan iracheno, come il PDK, il partito dell’attuale Presidente della Regione autonoma irachena, Mas’ud Barzani. “Cinquanta anni fa, il regime di Assad ha insediato di proposito nei territori curdi popolazione araba, per dividere i curdi. All’inizio della guerra civile, i curdi nazionalisti hanno detto ‘Dobbiamo cacciare gli arabi. Questo è il Kurdistan.’ Il PYD invece vuole attirarsi queste popolazioni, vuole lavorare insieme con loro a costruire una Siria democratica. Questa è la prospettiva politica del PYD e noi la appoggiamo”.

La prospettiva non è solo la liberazione del Kurdistan, ma anche una democratizzazione del Medio Oriente: “Per noi un Kurdistan libero può esserci solo se i curdi si battono per la democrazia in Turchia, in Iran, in Iraq e in Siria. Possiamo essere liberi solo insieme alla popolazione delle varie regioni. Questa è la nostra utopia. In Rojava, per esempio, le forze politiche curde lavorano insieme alla popolazione araba e cristiana. In Turchia c’è una cooperazione con l’HDP (il Partito Democratico dei Popoli, formazione filo-curda che ha raccolto il 13% dei voti alle elezioni parlamentari turche del 2015). L’UPK (l’Unione patriottica del Kurdistan, con il suo leader Talebani) che rappresenta l’opposizione al partito di governo in Iraq (PDK), è vicino al confederalismo democratico del PKK. Anche qui a Berlino, ci organizziamo in consigli popolari, cerchiamo di cooperare con organizzazioni turche e tedesche di sinistra”, racconta Mako.

“Se mi chiedi qual è l’obiettivo più grande che il Movimento curdo per la Libertà, che esiste dal 1978, ha raggiunto, ti rispondo: la liberazione delle donne. Ocalan dice che la società non può essere libera fintanto che le donne non si liberano”. In Rojava, la regione settentrionale della Siria, in cui il PYD ha istituito dal novembre 2012 un governo autonomo, più di un terzo dei circa 60.000 combattenti dell’YPG/YPJ, le Unità di Difesa del Popolo (curdo, Yekîneyên Parastina Gel), il braccio militare del PYD, sono donne. E il loro numero è in aumento. “Nei Consigli popolari, anche qui a Berlino, ci sono sempre due reggenti, un uomo e una donna, affinché la volontà delle donne sia sempre rappresentata. Funziona così in tutte le organizzazioni curde che simpatizzano con Ocalan; c’è questo principio, sempre un uomo e una donna, a tutti i livelli: militare, politico, di società civile”, ci dice Mako.

A Berlino, ci sono gruppi di sole donne curde che si organizzano autonomamente. È il caso di Dest Dan e. V., il circolo femminile ideologicamente vicino a NAV-DEM. “Certo, sarebbe sbagliato dire che in Kurdistan non c’è il patriarcato. C’è questa cultura, ma il Movimento curdo per la Libertà lo combatte. E le donne sono in ogni fronte la linea più avanzata, non liberano solo il popolo, ma si liberano anche come donne”, ci dice Mako, con la sua parlata veloce, chiara e fluente.

Tre donne, in particolare, sono diventate per i curdi il simbolo della lotta di liberazione. Sono raffigurate in una bandiera rosa appesa alla parete della sala del NAV-DEM, la stessa bandiera che ha sventolato numerosa durante il corteo di Newroz del 21 marzo. Sono Sakine Cansız, Fidan Doğan e Leyla Şaylemez, tre attiviste curde giustiziate a Parigi il 9 gennaio 2013 con tre colpi di pistola: “I servizi segreti turchi hanno infiltrato un agente nel circolo curdo dove lavoravano, allo scopo di guadagnarne la fiducia. Dopodiché, le ha uccise”, racconta Mako. Il caso ha suscitato rabbia e sgomento non solo per l’efferatezza dell’omicidio, ma perché a molti è parso evidente il tentativo di sabotaggio del negoziato di pace che Ocalan sta cercando da anni di instaurare con Ankara. Altrettanta rabbia suscita vedere come i paesi europei, invece di proteggere quelle persone che combattono pacificamente per il riconoscimento dei propri diritti, decidono, per questioni di opportunismo politico ed economico, di criminalizzare il movimento curdo in Europa. ”La politica tedesca ha difficoltà con noi perché la Germania ha delle relazioni con la Turchia – spiega Mako – la quale non desidera che certe associazioni siano supportate o considerate come interlocutori”.

Per non entrare in collisione con la Turchia, importante partner economico e strategico, i governi, dunque, finanziano e supportano organizzazioni politicamente meno “compromettenti”. Il Kurdisches Zentrum, per esempio, è una di queste, dice Mako: “È meno organizzato di noi, ma se l’SPD o la Cancelliera tedesca vogliono parlare con i curdi, vanno al Kurdisches Zentrum, non vengono certamente qui: è una scelta politica del governo tedesco. Abbiamo concezioni politiche diverse. Noi, per così dire, siamo più di sinistra, mentre il Kurdisches Zentrum è politicamente più a destra”, spiega Mako.

“E con la numerosa popolazione turca di Berlino, avete problemi?”, mi viene spontaneo chiedere. “Con la popolazione non abbiamo alcun problema. Abbiamo difficoltà con certe organizzazioni politiche, come i Graue Wolfe, per esempio”.

I Lupi grigi sono una formazione turca nazionalista appartenente alla destra radicale, presente anche a Berlino. “Noi non cerchiamo il conflitto con loro, ma ogni volta che organizziamo una manifestazione, loro vengono a provocare, a offendere. Ma la nostra linea politica è democratica e pacifica, non rispondiamo alle provocazioni, non vogliamo entrare in conflitto qui in Germania”.

La grande fotografia del volto sorridente e familiare di zio “Apo” Ocalan sembra guardarci dal fondo della lunga sala. Lungo la parete esterna, i volti dei tredici cofondatori del Partito dei Lavoratori curdo. Su uno schermo le immagini di un’emittente curda che trasmette dal Rojava. “La prendiamo via satellite, e due ne abbiamo in Belgio. A Berlino non ci sono radio o televisioni curde”, dice Mako.

Il Centro, piano piano, si anima. Arrivano uomini che si avvicinano a noi e salutano Mako con grande rispetto, nonostante la sua giovane età. Tutti ci danno la mano. Il cortile interno dell’edificio ha un murales grandissimo che per ora è un sogno e una speranza: il territorio del Kurdistan, al centro del quale è disegnato il volto di Ocalan. Ai suoi lati, in alto, due colombe, un ramoscello di ulivo nel becco.

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