Il governo del Kurdistan regionale e la guerra al’ISIS
Nonostante gli attacchi di ISIS in alcune parti del Kurdistan abbiano perso di intensità, in luoghi come Kerkuk i combattimenti proseguono aspri, così come nelle vicinanze di Kobane, con attacchi a Til Temir, Serêkanî e Al-Hasakah e nuovi orribili massacri fra cui quello di trecento cristiani, e si prevede che continuerà cosi ancora per un certo periodo. Ma non sono rimaste tracce dell’atmosfera che l’avanzata lampo di ISIS aveva creato all’inizio, e questo anche grazie alla sconfitta subita contro la resistenza di Kobane.
Le forze di liberazione curde hanno dimostrato di poter sconfiggere i terroristi su ogni fronte. Ma tranquillizzarsi e sottovalutarli sarebbe un errore. Contro ISIS la prima cosa da fare è un’unione internazionale e un piano strategico di difesa comune. Non è pensabile continuare a far combattere i guerriglieri al fronte come se fossero propri soldati senza attivare una difesa congiunta, per poi, attraverso giochi politici e diplomatici, provare a creare le condizioni per farli ritirare una volta riconquistate le posizioni in mano a ISIS. Nella pratica questo significa che non si offre collaborazione piena, non si condividono informazioni e notizie, né si riesce a pianificare le azioni sulla base di una comune strategia, ostacolando e rallentando la liberazione dei territori ancora sotto il controllo di ISIS.
Fino ad oggi, le armi inviate da diversi paesi per sostenere la resistenza contro ISIS non sono andate ai guerriglieri, che vengono considerati dal Kurdistan regionale come una forza straniera. Alcuni sostengono che non si può costruire una forza di difesa comune con il PKK[1], che figura nella lista delle organizzazioni considerate terroristiche dall’Unione Europa e dagli Usa. Questa mentalità arretrata privilegia l’interesse particolare sul bene comune, sulla scelta chiara dell’autonomia democratica rappresentata dalle amministrazioni cantonali del Rojava, che è invece il desiderio delle popolazioni della regione. Si registra dunque uno scollamento fra le autorità del Kurdistan regionale, ma anche fra gli interessi della Turchia, e la volontà dei popoli.
Ad esempio, al fronte, guerriglieri e peshmerga combattono fianco a fianco, e questi ultimi affermano che senza le forze della guerriglia non potrebbero combattere. Tra la popolazione del Kurdistan del sud, le forze di liberazione curde stanno acquisendo prestigio e simpatia. Queste popolazioni sono a conoscenza – per averlo visto con i propri occhi – che nella resistenza contro ISIS la difesa più efficace sul campo è stata quella dispiegata dai guerriglieri, considerati la vera forza di difesa dalla popolazione.
Da qui i rinnovati tentativi da parte del PDK[2] di gettare discredito sul PKK, per continuare ad accreditarsi come unica forza curda a livello internazionale. Perfino molti responsabili di ISIS sostengono al contrario che le uniche forze ad averli messi in difficoltà sono quelle della guerriglia. Ecco perchè l’idea di difendere il sud Kurdistan senza i guerriglieri non è pensabile.
Ci ricordiamo tutti cosa è successo il 3 agosto 2014, quando ISIS ha attaccato la popolazione ezida di Şengal, facendo strage di circa 5 mila ezidi, rapendo migliaia di donne per farne delle schiave. Mentre le forze regolari del Kurdistan regionale si ritiravano, le forze delle YPG e delle YPJ il 5 agosto aprivano un corridoio sicuro tra Şengal e il Rojava, riuscendo a portare più di 200 mila ezidi in luoghi sicuri. 10 mila persone si sono rifugiate sul monte Şengal. In seguito le forze di difesa hanno messo in sicurezza anche le zone di Mexmur e Kerkuk. Dopo questi eventi, le forze della guerriglia hanno acquisito un grande ruolo, e senza approfittarne, hanno spinto perchè la popolazione ezida stessa si autorganizzasse per la propria difesa, costituendo proprie unità (le YBS) e un proprio consiglio. Quando gli ezidi hanno istituito questa loro assemblea, il KRG ha chiesto alle forze di difesa delle HPG e a quelle femminili delle Yekitiya Star di lasciare il territorio, spaventato dalla popolarità che stavano guadagnando.
La popolazione del Kurdistan del Sud non si è ancora ripresa dallo shock di vedere la caduta di Mosul senza neanche un combattimento, quasi una resa organizzata: si è sentita tradita dal governo del Kurdistan regionale. Se le forze di difesa delle guerriglia (HPG) non fossero intervenute, sarebbero potuti arrivare a Hewler (Erbil) che è la capitale del Kurdistan regionale! Il sostegno della Turchia nei confronti di ISIS ha inoltre reso espliciti i veri interessi del partito al governo, l’AKP: servirsi dei terroristi per aumentare la propria influenza su tutta la zona. I curdi sono sempre stati un ostacolo a questo, e da qui si spiega tutta la reticenza a combattere ISIS, anche di fronte alla comunità internazionale. Non è credibile pensare che il governo del sud Kurdistan non ne sapesse niente, o non ne fosse coinvolto.
In realtà è il PKK a uscire “bene” da questa guerra: ha chiaramente mostrato come l’etichetta di “terrorista” sia inapplicabile, per una forza di difesa che si sta spendendo per tutta l’umanità. E tutto questo ha avuto l’effetto di rimescolare le carte nella regione, aprendo la storia a nuove possibilità. I vecchi apparati statuali in Medio Oriente crollano, e con loro crolla la mentalità di dominio che li ha caratterizzati: forze come il KDP, o come l’AKP in Turchia, se non coglieranno l’opportunità di cambiamento, non avranno futuro fra la popolazione. Il sistema politico e sociale del Sud Kurdistan è particolare e quasi unico: c’è il sistema tribale sulla base del quale si struttura il sistema politico, c’è un parlamento e una forma che non si può definire presidenziale ma non è neanche semi-presidenziale, non è una dittatura ma il potere è nelle mani di poche famiglie. Se questi vecchi apparati non si adopereranno per creare una lotta comune a tutte le forze, non riconoscendo la chiara scelta per l’autonomia democratica da parte delle popolazioni che ogni giorno di più si organizzano dal basso, saranno destinati a scomparire: le persone vogliono vivere insieme in pace con i propri sistemi di autogoverno. Insomma, pur nella tragica situazione del conflitto in Medio Oriente, le forze curde hanno mostrato che “un altro mondo è possibile”…
[1] PKK – Partîya Karkerên Kurdistan, Partito dei Lavoratori del Kurdistan. Nasce da un gruppo di studenti curdi e turchi che dal 1973 che si organizzano attorno ad Abdullah Öcalan e affrontano questioni legate al socialismo ed alla liberazione del Kurdistan. Viene fondato 1978 per la costruzione di un Kurdistan indipendente, unito e socialista. È stato inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche stilata da USA ed Europa. Dagli anni Novanta, in particolare grazie all’elaborazione teorica del suo presidente Abdullah Öcalan (tuttora detenuto nell’isola-prigione di Imrali in Turchia), il PKK ha superato l’originaria ideologia nazionalista e marxista-leninista attraverso una radicale critica degli stessi concetti di Stato, Nazione, Partito, e abbandonando l’obiettivo della costruzione di uno Stato curdo indipendente. La sua proposta politica, denominata Confederalismo democratico, auspica la costruzione di una federazione di comunità autogovernantisi al di là dei confini nazionali, religiosi, etnici cui principi di base sono la partecipazione dal basso, la parità di genere e il rispetto della natura.
[2] PDK (KDP) – Partîya Demokrat ya Kurdistanê, Partito Democratico del Kurdistan, fondato nel 1946 da rappresentanti dell’aristocrazia curda e della piccola borghesia urbana, organizzato su base tribale. È il partito di Masud Barzani, che governa il Kurdistan meridionale, divenuto regione autonoma (KRG) in seguito all’invasione americana del 2003 e alla caduta del regime di Saddam Hussein.
Di Suveyda Mahmud – Sulaimaniyah
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