Il caso Demirtas è una minaccia autoritaria non solo per la Turchia, ma per tutta l’Europa
Finisce come era iniziato: un processo farsa che viene immediatamente rinviato di due mesi. Prossima udienza il 14 febbraio e altri sessanta giorni di carcerazione preventiva che si aggiungono ai 400 già scontati da Demirtas. Senza mai essere stato ancora interrogato da nessuno. Il mondo ignora la portata storica di questo processo, dove il potere prova a tacitare per sempre l’opposizione. Inevitabilmente distratto dall’enorme impatto provocato dalla scelta scellerata di Trump di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele. Occasione straordinaria per lo stesso Erdogan che ruggisce a reti unificate contro la decisione statunitense, riguadagnando una credibilità interna significativa come paladino della collera sunnita contro chi cerca di toccare la città santa. Eppure, questo consenso non è granitico e, nonostante la stretta repressiva e giudiziaria, la Turchia non sta troppo bene. La Lira è in caduta libera, svalutata come non mai, due volte tanto rispetto al referendum di sei mesi fa, i bancomat sono vuoti, manca la liquidità. Sembra un paese che ripiega. L’inverno della repressione (magistrati, funzionari pubblici, giornalisti, politici) coincide con l’inverno della recessione. Intanto, la paura che la crisi economica incattivisca ulteriormente il regime è palpabile nella sede nazionale dell’Hdp ad Ankara. Un palazzetto discreto, non distante dalla zona delle ambasciate, dove ieri pomeriggio è avvenuto un lunghissimo briefing con avvocati e parlamentari. Per due giorni davanti al carcere di Sincan, periferia estrema di Ankara, ho cercato invano di entrare come osservatore internazionale per assistere alle udienze dei processi ai due leader Figuen e Demirtas. Nulla da fare, tre ore a tre gradi sotto zero, la polizia in assetto antisommossa con gli idranti puntati sulle delegazioni straniere e la folla di militanti curdi assiepata davanti alla prigione. Nonostante pressioni diplomatiche e una sfilza lunghissima di credenziali esibite, gli avvocati ci fanno sapere che non entreremo, nonostante il nullaosta (vero o finto non è dato saperlo) della Corte.
Hanno scelto una sala troppo piccola, venti posti, difesa completa, e negli ultimi giorni si sono premurati di cambiare all’ultima ora la sede dell’udienza spostandola dal centro cittadino alla periferia. Una tecnica consolidata di dilazione che ha portato pure all’incredibile episodio dello smarrimento (ma sarebbe più corretto dire furto) della memoria difensiva di Demirtas. Un modo di dissuadere cortei nel cuore della città, già abbondantemente vietati da ordinanze che interdivano l’accesso agli autobus degli attivisti provenienti da altri territori (Smirne, Instanbul, Dyarbakyr). Gli avvocati ci spiegano che ormai è una lotta all’ultimo dossier: non è rimasto nemmeno un deputato dell’Hdp senza almeno un’inchiesta addosso. Sono un pool di oltre mille avvocati a disposizione del partito e l’accusa è sempre la stessa: terrorismo e oltraggio al presidente e l’ordine costituito. Le prove? I discorsi di Demirtas in tv, in Parlamento, nei comizi. Insomma, si processano le opinioni e si mette in scena la più grande opera di epurazione politica negli ultimi trent’anni. Con il paradosso che i detenuti curdi (quelli elogiati in tutto il mondo per Kobane e la resistenza ai jihadisti) vengono messi esattamente nelle celle insieme ai militanti dell’Isis, ma questi ultimi – e forse non è un caso – vengono rilasciati più celermente degli altri. Ai deputati dell’Hdp ancora liberi è impedito di visitare in carcere gli altri colleghi detenuti e di presentare atti di sindacato ispettivo per conoscerne le condizioni.
Hysar Oszoy, attuale reggente dell’Hdp dopo la decapitazione dei vertici, racconta che soltanto lui ha inoltrato oltre 400 istanze di visita a Demirtas in carcere presso il Ministero della giustizia. Di queste, soltanto una è stata accolta. Nel frattempo, i racconti di maltrattamenti e torture sono all’ordine del giorno, mentre monta una rassegnazione sebbene celata a intravedere una via d’uscita immediata. Il popolo curdo ne ha passati altri di momenti terribili, quando persino la lingua era impronunciabile, ed è abituato a programmare sui tempi lunghi. Tuttavia, oggi la fatica si fa sentire e la depressione pure. Come se il tempo si fosse fermato.
L’Hdp terrà il suo congresso tra gennaio e febbraio, il primo senza Demirtas, con la paura esplicita che prima di allora arrivi un decreto di scioglimento del partito firmato dalla magistratura e ispirato dal regime. Una messa fuori legge di quel movimento che appena quattro anni fa aveva stupito l’Europa e che era stato accolto con tutti gli onori nella famiglia del Pse: un modello per la capacità di tenere insieme la sinistra di matrice laburista classica e la rivolta generazionale di Gezi Park, di trasformare la questione curda in grande questione democratica insieme alla domanda di modernizzazione della società turca colpita e allarmata dall’islamizzazione a tappe spedite di Erdogan. Ma tant’è. Di quel tempo resta poco perché in mezzo ci sono state le ambiguità di Ankara sul Daesh, un colpo di stato da operetta, centinaia di migliaia di epurazioni e un referendum costituzionale sicuramente taroccato.
Viene chiesto, da tutti gli interlocutori, un impegno a squarciare il velo dell’indifferenza su un processo che è interamente politico, contro un popolo e un’idea di società. Se condannano Demirtas condannano sei milioni di persone, ripetono come un mantra gli attivisti. C’erano tante persone questa volta: parlamentari da tutta Europa, dalla Francia alla Grecia, dalla Gran Bretagna alla Germania, passando per i paesi scandinavi. A noi non tocca solo raccontare o testimoniare, ma immaginare una politica. La Turchia è nella Nato ed è per molti aspetti un pezzo dell’articolazione della struttura istituzionale dell’Europa. Il realismo nelle relazioni politiche non è mai un disvalore, va coltivato sempre, ma non può essere l’unica bussola. Altrimenti è solo una resa. Abbiamo riempito di soldi Erdogan per toglierci i migranti da davanti agli occhi. Oggi di fronte a questa piega non possiamo fare tutto come prima. Non ho mai creduto nell’efficacia della politica delle sanzioni, perché spesso aiuta solo la retorica nazionalista e autoritaria di chi le subisce. Vale in Russia e potrebbe valere persino in Turchia. Ma se la minaccia di sanzioni può essere una leva per riaccendere una luce sulla negazione dei diritti politici essenzialità, mia opinione è che sia necessario cominciare a percorrere anche questa strada. Perché la Turchia è importante e va pensata come una parte naturale dell’Europa. E l’Europa non può tollerare queste cose.
di Arturo Scotto, Parlamentare di Mdp
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