FUGA DA AFRIN

“Mi chiamo Fadia, sono di Rajo, distretto di Afrin. Quando è cominciata la guerra contro il cantone di Afrin sono rimasta fino alla fine dei primi 55 giorni di bombardamento. Aiutavo chi stava al fronte a combattere, a resistere. Cucinavo e portavo loro il cibo, davo una mano ai medici che andavano a curare i feriti sul posto e che dovevano essere portati all’ospedale”.

Fadia la incontriamo a Kobane che è la fine di giugno. La città simbolo della resistenza all’Isis ospita circa 300 sfollati da Afrin, che è sotto attacco dei bombardamenti arerei turchi. “Non volevo lasciare la mia casa, anzi mi dicevo sempre che non sarei mai andata via dalla mia Rajo. Anche se da molti villaggi sono stati costretti ad andare a cercare rifugio nel centro città a causa dei bombardamenti pesanti sopra le loro case”.

È vestita di bianco, ha un’espressione calma che però non riesce a nascondere la sofferenza ma non si lascia mai andare, né alla disperazione tanto meno all’impre- cazione: “Ho visto e vissuto tutta quella sofferenza, però anche la resistenza e la determinazione di chi vuole resistere”. Così le chiediamo della sua famiglia: “Tre dei miei figli fanno parte delle forze di difesa da anni, mentre il più piccolo che stava con me è stato rapito dalle bande legate a Daesh. Non so più dove sia”.

Chiederle della paura viene spontaneo. Perché non se n’è andata via subito, perché non si è messa in salvo prima: “Un altro figlio è appena andato per il fronte. Sapete”, dice rivolgendosi a noi con gli occhi pieni di gratitudine, “ho visto tanti stranieri, che sono venuti a dare sostegno per la difesa di Afrin. Molti di loro hanno perso la vita. Non potevo lasciare Rajo, la mia casa, per tutto il rispetto di chi ha resistito a costo della propria vita per proteggere la gente di Afrin”.

I due cantoni, quello di Kobane e quello di Afrin sono confinanti. Durante la guerra in Siria di certo è il primo che ha subito più pesantemente il conflitto. La parte nord della città, quella che guarda verso il confine con la Turchia, è completamente distrutta. Rasa al suolo. Una zona che è impossibile da ricostruire, così si è pensato di renderla un memoriale, un museo a cielo aperto. In questa zona della città ci sono stati gli scontri più feroci che alla fine hanno però portato la città a resistere all’assedio degli uomini in nero.

La municipalità di Kobane ha così messo a disposizione per tutti coloro che abitava- no in quella parte della città lotti di terra e abitazioni nella parte opposta, dove si sta sviluppando una nuova Kobane. Nonostante questo c’è ancora chi ci abita e da lì non se ne vuole andare, nonostante sia tutto a pezzi e permanga il pericolo di incappare in qualche ordigno inesploso o qualche mina. È molto emozionante la scena in cui la gente di Kobane e gli sfollati di Afrin si ritrovano. I primi hanno già vissuto sulla loro pelle quello che ora stanno invece vivendo coloro che sono giunti fin qui. Dall’alto si vedono tutte queste persone sedute insieme; mangiano, conversano, si consolano, spesso si abbracciano o si tengono la mano. Molte non si erano mai viste prima, altre invece si conoscono per via indiretta, perché magari i figli o le figlie hanno combattuto insieme per liberare la Rojava e non solo dalla presenza del Califfato.

Oggi tocca alla gente di Afrin vivere la condizione di assediato: “Parlare della guerra di Afrin? Sono rimasta per 55 giorni a Rajo. Il villaggio accanto si chiama Mascanli ed è praticamente sulla prima linea del fronte. All’inizio della resistenza siamo stati attaccati dagli aerei. Circa 300 persone sono state arrestate poi uccise. Erano donne, bambini, anziani. Infatti bombardavano sempre le abitazioni dei civili, non le postazioni delle Ypg e Ypj che erano intorno ai villaggi per la difesa. Nei primi periodi quindi non sono caduti combattenti perché gli aerei bombardavano le abi- tazioni civili nei villaggi”. Sono otto anni che la gente di qui, in maggioranza curda, subisce bombardamenti e violenze.

“Erdogan diceva che in tre giorni avrebbe preso il cantone di Afrin. Ha sbagliato i suoi calcoli”, dice Fadia mentre ci saluta. È sera a Kobane, il sole è già calato, il muezzin ha già cantato e c’è tanta gente per le strade del centro. È emozionante vedere quanta vita ci sia. Negozi aperti, musica, sale da tè e pasticcerie piene. Sembrerebbe una città come un’altra ma così non è. Un uomo ci saluta e ci racconta che lui, e ce lo mostra, ha il passaporto tedesco e potrebbe vivere in Germania. Ma casa sua è questa, qui vuole stare. I bambini cor- rono in libertà, gli adulti chiacchierano sorseggiando un caffè. I segni della guerra ci sono anche qui, fori nelle pareti ce ne sono a bizzeffe ma si vede che c’è una grande volontà di fare uno scatto in avanti.

La guerra non è finita, tutti lo sanno anche se il peggio sembra sia passato. I villaggi attorno a Kobane hanno subìto lo stesso trattamento, se non peggiore, durante la presenza degli uomini in nero, che torturavano, violentavano e uccidevano senza esitazioni. Lungo le strade si vedono ancora le gabbie dove venivano esibiti i torturati e ci sono ancora i set dove giravano i video per la propaganda.

Ma se questi elementi ci riportano a una realtà che tutti sperano sia ormai superata, lungo tutto il confine con la Turchia il muro, le postazioni militari e i sistemi di controllo del confine da parte dei soldati di Erdogan ci ricordano che qui la storia è ancora tutta da scrivere.

di Ivan Grozny Compasso, giornalista freelance
Amnesty Internazional n4.Ottobre 2018