Erdogan incita alla guerra civile
In Turchia aumenta il razzismo contro i curdi. Ankara conduce una guerra coloniale contro la popolazione curda. Un colloquio con la sindaca di Diyarbakir Gültan Kisanak.
Gültan Kisanak, la sindaca di Diyarbakir, è nata nel 1961 a Elazig. Negli anni ’90 ha lavorato come giornalista per diversi giornali pro-curdo che venivano vietati di continuo ed è diventata caporedattrice del quotidiano Özgür Gündem. Dal 2011 al 2014 per il Partito per la Pace e la Democrazia (BDP), di cui è stata co-presidente, ha fatto parte del parlamento turco. Nel 2014 per il Partito Democratico delle Regioni (DBP) a grande maggioranza è stata eletta sindaca della metropoli di Diyarbakir nell’est della Turchia abitato prevalentemente da curdi. Kisanak fa parte della comunità religiosa degli aleviti che in Turchia viene discriminata.
Da inizio dicembre Sur, il quartiere della città vecchia di Diyarbakir all’intero delle mura di cinta, è stato sotto coprifuoco per settimane. Oggi com’è la situazione?
Circa un mese fa il governo ha proclamato ufficialmente la fine del coprifuoco, ma in cinque quartieri è ancora in corso. 30.000 abitanti sono stati scacciati da Sur. 20.000 di loro non hanno più case perché sono state distrutte da mesi di fuoco di carri armati e artiglieria. Un ritorno degli sfollati al momento non è possibile. A Sur vivevano molte persone povere che negli anni ‚90 sono state scacciate dai loro villaggi dall’esercito e si sono poi ricostruite una nuova vita a Diyarbakir. La politica di espulsione ha anche gravi conseguenze economiche per la gente di Sur. Molti piccoli negozi, artigiani e sale da tè ora sono fallite. La situazione ora è perfino peggiorata perché lo Stato ha espropriato e statalizzato quasi tutto il quartiere della città vecchia. Dicono che è per motivi di sicurezza. Gli abitanti poveri vengono scacciati. Molti non ricevono un indennizzo perché erano solo inquilini o avevano costruito le case per conto loro negli insediamenti informali chiamati Gecekondular e non erano registrate. Vogliono ricostruire il quartiere con case nuove e strade larghe. Chi dovrà andarci ad abitare ancora non è noto. Ma abbiamo l’esempio del quartiere Sulukule a Istanbul. Lì sono stati scacciati i rom che tradizionalmente lo abitavano. Negli edifici nuovi e cari sono poi andate ad abitare persone ricche provenienti dall’Arabia Saudita.
Come volete opporvi a questo Landgrabbing?
Forse è la prima volta nella storia che viene espropriata un’area così grande con 50.000 abitanti. Qui viene abolito il diritto alla proprietà privata. Gli espropri dai quali sono colpiti anche edifici pubblici, parchi, musei e chiese, sono in contrasto con il diritto amministrativo dei comuni. Noi ci opponiamo in due modi. Da un lato procediamo per vie legali. Ma contemporaneamente puntiamo alla mobilitazione della popolazione. 310 organizzazioni della società civile si sono unite in un movimento per la ricostruzione di Sur.
Dopo l’interruzione del dialogo con il Movimento di Liberazione curdo da parte del Presidente Recep Tayyip Erdogan e il suo annuncio di non accettare il risultato elettorale del giugno 2015 nell’estate scorsa una serie di comuni curdi, incluso Diyarbakir-Sur si sono dichiarati autogovernati. Al governo questo è servito come pretesto per i suoi attacchi contro le città curde. In parti della popolazione di Diyarbakir ho sentito anche delle critiche che il PKK con il progetto di autonomia avrebbe portato la guerra nelle città senza poter garantire la protezione della popolazione.
Lei oggi direbbe che la proclamazione dell’autogoverno è stata prematura?
Penso che la domanda sia sbagliata perché l’autonomia democratica non è un progetto nuovo. Già nel 2007 abbiamo deciso questo progetto nel congresso del Partito per una Società Democratica (DTP), partito che poi è stato vietato, e dopo lo abbiamo confermato in programmi di partito e conferenze. Nelle zone dove siamo stati eletti quindi abbiamo cominciato a mettere in pratica l’autogoverno. Anche durante il dialogo di pace tra lo Stato e il rappresentante curdo Abdullah Öcalan la questione dell’autogoverno era centrale. Il PKK nel frattempo ha ammesso che non aveva messo in conto una tale politica di guerra da parte dello Stato, ma aveva sperato in una prosecuzione del dialogo. Come DBP abbiamo fatto tutto per evitare gli scontri, ma non abbiamo trovato ascolto da parte del governo. Tuttavia continuo a sperare nella fine dei combattimenti e in un ritorno al dialogo con il coinvolgimento di Öcalan.
Chiedo in modo diverso: il progetto dell’autonomia democratica è riconducibile a Öcalan. Lo spiega un libro che ha il titolo programmatico »Oltre Stato, potere e violenza« [N.d.T. titolo dell’edizione tedesca]. Ma è realistico voler costruire una tale società liberata, fino a quando continua a esistere uno stato con un’impostazione così ostile che è pronto a ricorrere a ogni mezzo militare?
Questa è la domanda principale in questo conflitto. I curdi vogliono uno status politico e il loro autogoverno, mentre il governo li vuole liquidare con pochi diritti culturali. Ma noi non conduciamo solo una lotta nazionale per i curdi. Per noi si tratta anche del fatto di conquistare democrazia per tutta la Turchia. Non vogliamo che le amministrazioni comunali siano solo copie dello Stato centrale, perseguiamo un’alternativa democratica. Le decisioni dovranno essere prese in parlamenti popolari nei quartieri. Le donne e i giovani dovranno organizzarsi in consigli. Gli altri gruppi etnici e minoranze religiose nella nostra regione dovranno avere diritto di parola. Se non riusciamo a fare tutto questo, qual è la differenza tra noi e l’AKP?
Alle proteste contro l’assedio di Sur hanno partecipato solo alcune migliaia di manifestanti. Non è poco per una città con milioni di abitanti?
Qui non abbiamo a che fare con un paese democratico. Il centro storico è pieno di carri armati e unità speciali. Partecipare alle proteste, qui significa mettere in conto la morte. Otto giovani sono stati uccisi dalla polizia. In molti quartieri nonostante questo tre – quattro volte a settimana si sono svolte proteste. Fa parte della politica del movimento curdo non mettere in pericolo la popolazione. Se alle proteste avessero partecipato le masse, il pericolo sarebbe stato grande che venissero uccisi in molti.
Nell’ovest della Turchia, dove solo tre anni fa scendevano in piazza centinaia di migliaia di persone durante le proteste di Gezi-Park, non ci sono quasi reazioni ai massacri in Kurdistan. Come se lo spiega?
Purtroppo è vero che nella Turchia occidentale, a parte quelli di sinistra, i socialisti, non si leva alcuna voce contro la politica di guerra. Durante le proteste di Gezi lo Stato ha attuato una repressione dura, ma è quasi rimasto nell’ambito di uno Stato di Diritto. Invece in Kurdistan porta avanti apertamente una politica coloniale. Negli ultimi mesi sono stati uccisi più di 500 civili, tra cui 100 bambini. A Cizre 150 persone sono bruciate vive nelle cantine. A Sur durante lo sgombero delle macerie si trovano ancora cadaveri.
Ma dobbiamo tenere conto anche del fatto che la Turchia si è trasformata in una società della paura. Lo Stato intimidisce la popolazione, così come con l’arresto di accademici che avevano firmato un appello per la pace e per questo sono stati insultati da Erdogan come traditori. Definendo permanentemente i curdi come separatisti e terroristi, cresce il razzismo nella popolazione turca. I gruppi di popolazione qui vengono aizzati l’uno contro l’altro, c’è rischio di una guerra civile etnica. Questa è la parte più pericolosa della politica di Erdogan.
Il governo federale [N.d.T. come del resto quello italiano] tace sui massacri e le espulsioni del governo turco per difendere il suo accordo con Ankara per non mettere in pericolo la difesa dai profughi …
Nei contatti con il governo turco il governo tedesco dovrebbe occuparsi di sostenere una politica di lungo respiro nell’interesse della pace e della democrazia. Con la politica di guerra di Erdogan 500.000 curdi sono diventati profughi. La Turchia occidentale per loro per via dell’aumento del razzismo non è più una via di fuga alternativa. Queste persone sperano ancora nella pace e restano nelle città e nei villaggi vicini. Ma se la guerra e la politica di annientamento continuano e non vedono più una prospettiva di ritorno nelle proprie case, alla come negli anni ’90 torneranno a partire per l’Europa.
Intervista di Nick Brauns JW