Elezioni in Turchia – Il diario di viaggio lasciato a metà

Racconto di un Osservatore Internazionale alle elezioni presidenziali nel Kurdistan- Siamo arrivati in Kurdistan di sera, per le strade di Diyarbakir c’è un’atmosfera tranquilla. La nostra guida improvvisata ci spiega, con tre parole d’inglese recuperate da qualche parte, che le mura della città sono le più lunghe del mondo dopo la muraglia cinese e che danno al centro storico la forma di un pesce. Ci crediamo poco (Diyarbakir ha la forma di una manta, forse, o magari è un’aquilone di quelli professionali) e finiamo a mangiare in un ristorante molto chic dove “vegetariano” sembra una parolaccia o il nome di un guerriero nemico; sceglieremo per tutto il viaggio di sacrificare l’animale pollo per trovare un compromesso con le scelte etiche di ciascuno.

Siamo stati invitati come Osservatori Internazionali dal partito HDP (Partito Democratico dei Popoli), partito filo curdo all’opposizione, per le elezioni anticipate, presidenziali e parlamentari che si svolgeranno il 24 giugno in Turchia. Era previsto che Erdogan vincesse rimanendo in carica, nella sua nuova coalizione con il partito ultra nazionalista MHP, quindi tutto si giocava sulle percentuali di voti ottenuti, che possono dare più o meno margine di manovra al suo progetto politico. Come era già successo nel 2015, si temevano brogli elettorali di grande portata.

Negli ultimi due anni il governo turco si è preoccupato di mettere in prigione 80 sindaci delle provincie curde favorevoli al partito di opposizione, numerosi oppositori politici e studenti, arrivando ad arrestare nel novembre 2016 Selahattin Demirtas, leader e candidato dello stesso HDP, che ha seguito le elezioni dal carcere. Nonostante una campagna elettorale decisamente compromessa, i sostenitori dell’HDP, decimati ma appoggiati da una vasta fetta di popolazione curda e non solo, si sono dati da fare per portarla avanti al meglio, al fine di passare la soglia di sbarramento del 10%, una delle più alte al mondo, per entrare in Parlamento.

Osservatori indipendenti e volontari erano stati chiamati da 11 paesi europei per testimoniare di eventuali irregolarità riscontrate nei seggi, affiancando gli Observersufficiali dell’OSCE (Organization for Security and Co-operation in Europe). Non solo, eravamo lì anche per dimostrare il nostro interesse per l’area turca a maggioranza curda, a un popolo che vive discriminazioni quotidiane, a cui è vietato parlare la propria lingua, riconoscersi in una bandiera, determinare il proprio paesaggio. Perché questo si percepisce nell’aria di Dyiarbakir, e in quella delle altre città curde che hanno visto la guerra civile del 2015: intere zone distrutte, sgomberate, ricostruite “all’occidentale”: si vede nei viali piastrellati a nuovo con i lampioni che ricordano una mezzaluna stilizzata, si vede nei giganteschi cartelli attaccati alle barriere di protezione dei cantieri che inneggiano a questa grande ricostruzione, alla grandezza dello Stato turco. E dietro macerie, le case abbandonate in fretta sotto le bombe, scheletri di negozi.

Lo sguardo profondo della nostra guida si perde tra le rovine e non nasconde un forte senso di amarezza, di ingiustizia, di desiderio di vivere una vita normale. I giovani curdi ci raccontano che i loro padri sono stati arrestati, e che ora loro, e le loro famiglie, sono tenuti sotto controllo dalla polizia: se partecipano a manifestazioni, se esprimono opinioni favorevoli all’HDP, se rivendicano le loro origini saranno arrestati a loro volta. “Mio padre è finito in carcere quando facevo la seconda elementare… è uscito che avevo finito il liceo”.

I curdi in Turchia non hanno accesso a Wikipedia (tranne alla pagina dell’AKP, Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, e qualche altra accuratamente scelta dal governo), non possono accedere ai loro canali di informazione, se non via internet usando un VPN; diverse testate giornalistiche d’opposizione e canali televisivi sono stati chiusi. Il governo può oscurare la rete internet a sua discrezione e negli uffici si ritorna a scrivere a mano finché non viene ripristinata. Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), che negli anni ‘80 proclamava un Kurdistan indipendente da conquistare con la lotta armata, e ora propone una linea più vicina a un confederalismo democratico all’interno degli stati con minoranze curde, è stato dichiarato illegale. Il suo fondatore Abdullah Öcalan è in prigione dal ‘99 e dal 2000 il partito è considerato un’organizzazione terroristica dalla Turchia, la NATO, gli Stati Uniti, l’Unione Europea e l’Iran.

Qualsiasi riferimento, apparenza di sostegno, supporto o partecipazione ad esso in Turchia è punito con arresto e carcere. Lo stesso PKK che si è impegnato nella lotta contro l’ISIS in Siria, assieme alle unità di difesa dello YPG e YPJ, è stato poi strumentalizzato dalle medesime potenze nella loro finta lotta al terrorismo internazionale di stampo islamista e per i loro interessi geopolitici o economici nella regione. E l’HDP è accusato dal governo turco di essere la sua “vetrina legale”.
In attesa delle elezioni

Alla veglia delle elezioni, al clima caldissimo e umido delle montagne curde e delle campagne sconfinate, si mescola questo clima politico di incertezza, di “chissà come andrà”, cosa succederà, cosa vedremo, cosa faremo, come ci comporteremo, ci chiediamo sabato sera, mentre siamo seduti a tavola davanti a degli spiedini di pollo e qualche sorso di Ayran (yogurt diluito con l’acqua). I compagni dell’HDP che sperano di passare la soglia di sbarramento del 10%, noi che speriamo di essere utili e che vada tutto per il verso giusto.

Domenica mattina comincia con la polizia che ci ferma per strada appena usciti e ci chiede i documenti. Sappiamo di non essere i benvenuti: i giornali da un lato, quello europeo, raccontano di quanti Osservatori Internazionali, italiani, francesi, svedesi, austriaci etc. sono stati respinti nell’aeroporto di Istanbul e non sono potuti arrivare a Diyarbakir; dall’altro, quello turco, denunciano gli stessi Osservatori Internazionali come dei sostenitori del PKK.

L’opinione dei nostri accompagnatori è che il partito del presidente, l’AKP, in questa regione abbia come scopo limitare l’accesso al voto ai residenti dei villaggi perché molti di loro sostengono l’opposizione. Infatti in diversi villaggi che andiamo a visitare gli elettori ci raccontano che sono stati accorpati lì tre o cinque seggi di cittadine che si trovano a 12, 15, 30 km di distanza. Alcuni si sono organizzati con i pulmini del Comune per andare a votare tutti insieme, altri ci dicono di essere venuti a piedi, o in famiglia con la macchina.

Entriamo nei seggi di alcuni villaggi in mezzo alla campagna, sono delle piccole scuole con qualche aula e molti militari presiedono la zona. Fuori dalla struttura sono seduti molti uomini su dei muretti di terra e se la raccontano, rispondono volentieri alle nostre domande, il clima sembra disteso. Ci accorgiamo però che in diversi seggi dei militari armati e in divisa sono dentro l’aula, invece di stare fuori come vorrebbe la legge: è una misura intimidatoria che mostra la presenza del partito al governo, che osserva, vede, sa e riporta, ovunque. Alcuni ci raccontano che i militari chiedevano di mostrare la carta di identità ai votanti, o che hanno ricevuto ordini di votare il loro partito.

Alle 16:15 ci stiamo avviando verso l’ultimo seggio della giornata, quando ci troviamo davanti a un check-point presidiato dall’esercito. Chiedono il passaporto a noi e ai nostri accompagnatori, mentre ci fanno uscire dall’auto. Restiamo sotto il sole cocente, fanno circa 40°, mentre i soldati sono seduti dieci metri più in là sotto un’ombrellone o dentro al furgone nero blindato, e con un fornelletto da campeggio posato sull’aiuola spartitraffico si preparano il chai. Aspettiamo. “E’ la procedura” ci dicono, quando cominciamo a insistere per farci restituire i documenti. Certo, è la procedura che di solito dura 5 minuti e ora che mancano 45 minuti alla chiusura del seggio, alle 17:00, e noi siamo Osservatori Internazionali, dura un’ora.

Nel frattempo, mentre ci spostavamo tra un seggio e l’altro, la nostra collega Cristina è stata arrestata. Era entrata come osservatrice in una scuola, in compagnia del nostro interprete, quando la polizia ha chiesto di vedere il suo passaporto e lo ha fotografato. Non c’erano stati problemi, ma mentre eravamo di passaggio in una città poco distante la polizia ci ha fermato. Pensavamo fosse il solito controllo ed eravamo tutti pronti col passaporto in mano, invece hanno chiesto di lei.

È stata portata alla Centrale di Polizia dove hanno aperto la sua pagina facebook: c’era una foto della manifestazione a sostegno di Afrin a Milano in cui lei e un’amica comparivano sotto la bandiera del PKK, e un paio di articoli del Corriere della Sera che denunciavano i soprusi di Erdogan in Siria. L’hanno accusata di propaganda per un’organizzazione terrorista internazionale. È passata davanti al giudice sostenendo che non è un reato pubblicare foto su facebook, l’hanno assolta da ogni accusa. E nel momento in cui scrivo questo testo è ancora prigioniera in un centro di espulsione al confine con la Siria per un tempo indefinito. Tempo deciso da uno stato di emergenza strumentalizzato per avere il pieno potere di fare qualsiasi cosa, contro chiunque ostacoli il volere di un regime anti-democratico [1]. Un regime che ha sostenuto lo Stato Islamico contro i curdi, i suoi stessi cittadini, nel nord della Siria.

Un regime che ha spazzato via le istituzioni indipendenti di uno stato democratico che si rispetti: i mezzi d’informazione, le forze dell’ordine e il sistema giudiziario, la giustizia, sono per la maggior parte al suo servizio. Erdogan grazie a queste elezioni ha fatto un passo ulteriore verso un sistema presidenziale che controlla il potere esecutivo, che concentra nelle sue mani poteri notevoli, allontanandosi da quella che era la repubblica democratica a fondamento della Turchia moderna, avvicinandosi a quella che qui chiamiamo dittatura. Ha ottenuto un 52,6% al primo turno delle elezioni presidenziali, in quelle legislative l’AKP ha ottenuto un 46 % che unito all’11,1% del suo alleato nazionalista gli permette di mantenere la maggioranza assoluta.

L’HDP supera la soglia di sbarramento del 10%

Il Partito Democratico dei Popoli ha ottenuto l’11,7%. La sera, mentre mangiamo un lamacus su una terrazza al primo piano, le macchine sfrecciano sotto di noi, clacson a tutto spiano e bandiere HDP, canti. Nella provincia a maggioranza curda già dalle otto si comincia a festeggiare il passaggio della soglia di sbarramento, l’entrata in parlamento con 67 membri, la loro fetta di rappresentanza. Eppure sulle facce dei membri del partito a tavola con noi si leggono emozioni contrastanti. Ci raccontano che sia a livello locale che nazionale, come hanno denunciato all’High Electoral Board, ci sono state irregolarità evidenti e le percentuali sono state più basse di quelle reali e attese, vista la maggioranza di popolazione curda che vota e sostiene l’HDP.

I festeggiamenti impazzano all’aumentare della percentuale, verso le nove arriviamo alla tenda dell’HDP dove sono riunite un sacco di persone, famiglie, signore e tanti, tanti bambini.

“I bambini sono i più radicali, ci raccontano, prima è passata la polizia e hanno fatto il simbolo curdo della pace in direzione loro”. C’è un clima meraviglioso, allegro, ragazzini scoppiano petardi e fuochi d’artificio, la gente balla a gruppetti la danza tradizionale Halay, c’è musica e si cantano canzoni popolari o di guerriglia… finché improvvisamente, senza preavviso di dispersione, una pioggia di lacrimogeni inquina l’aria, tutti corrono e mettono al riparo i bambini.

I festeggiamenti di una folla pacifica, riunita per celebrare il risultato elettorale di un partito legalmente candidato a elezioni democratiche, sono interrotti. Non si verificano scontri con la polizia, la gente scappa e noi rientriamo alla nostra base. Dalle finestre sulla piazza principale vediamo le forze dell’ordine sparare ancora con i camion idranti, arrestare delle persone e l’odore di lacrimogeno entra prepotente a intervalli regolari dalla nostra finestra, fino a tarda notte.

Il mio diario di viaggio si interrompe domenica sera, perché i giorni che seguono sono dedicati alla “ricerca di far uscire la nostra compagna Cristina da lì”.

Ci dicono che il 90% degli Osservatori Internazionali ha subito degli impedimenti a svolgere il proprio lavoro, alcuni sono stati arrestati, fermati, controllati, per un’ora o qualche giorno. Una delegazione è stata arrestata e trattenuta dalla mattina presto fino alla chiusura delle urne, mi raccontano alla sede dell’HDP di Diyarbakir. In Kurdistan eravamo 136 persone appartenenti a partiti di sinistra o associazioni politiche e umanitarie, distribuite in 15 provincie.

Per le strade di Istanbul alla partenza fanno 42 gradi, le gigantografie di Erdogan con il suo slogan elettorale “Una grande Turchia ha bisogno di un forte leader” scandiscono il paesaggio tra grattacieli e incroci senza semafori. Culto della personalità, alleanza con il partito più nazionalista in gara, eliminazione degli oppositori politici, censura: una storia già sentita in Europa neanche troppo tempo fa.

[1] Cristina Cattafesta è stata liberata il 6 luglio dopo aver passato 10 giorni nel Centro di Espulsione di Gaziantep
http://www.meltingpot.org/Elezioni-in-Turchia-Il-diario-di-viaggio-lasciato-ameta.html#.W0GvKp9fhpg