È necessario rimuovere il PKK dalla lista delle organizzazioni terroristiche

di Bernard-Henri Lévy – Il Pkk è un’organizzazione curda nata nel 1978 ad Ankara, con l’obiettivo di creare, attraverso la lotta armata, un Kurdistan indipendente. Lotta armata che significa, in questo caso, omicidi di civili, attentati contro siti turistici e alberghi, esecuzione di disertori e dissidenti in disaccordo con la “linea”, il PKK, e poi gli acronimi che dopo la sua auto-dissoluzione nei primi anni del 2000, lo hanno sostituito ufficialmente, direttamente o indirettamente responsabili di migliaia di morti in Turchia e altrove.

E il PKK è un’organizzazione che è stata classificata, in quanto tale, e con buona ragione, come organizzazione terroristica cui le democrazie riservano una guerra senza grazie – e non solo negli Stati Uniti, ma in seno ad un’Unione europea, di cui certi paesi sono stati, fino agli anni ’90, teatro di attacchi o abusi ingiustificabili.

Solo che il tempo è passato e che quattro cose, o anche cinque, sono cambiate e dovrebbero farci riconsiderare, certo con prudenza, ma comunque riconsiderare, lo status del PKK.

La prima è che esso ha, dopo quindici anni, o per la precisione, dopo il quarto cessate il fuoco unilateralmente proposto al momento del suo arresto, da Abdullah Ocalan, il suo leader, rinunciato all’azione violenta.

La seconda è che quella dottrina marxista-leninista, che è stata per lungo tempo basata su un culto della personalità tale da fare impallidire d’invidia le stelle morte dell’Internazionale stalinista, si è lentamente trasformata per diventare, oggi, una nebulosa di partiti a favore di una soluzione della questione curda fondata sul “dialogo” e su schemi “confederali”.

La terza è che questo nuovo PKK è l’organizzazione che, attraverso, in particolare, le forze che combattono in Siria sotto la bandiera delle Unità di Protezione Popolare (YPG), ha condotto la lotta in prima linea, con un coraggio esemplare e un’efficienza senza precedenti, contro il califfato nero dell’ISIS.
La quarta è che, in queste aree così come nelle altre, e nella città del martirio di Kobané, i combattenti curdi stanno, tra l’altro, cercando di liberare i loro santuari in Iraq e Siria, dove già esercitano una sorta di sovranità che permette di giudicare sulle parti, dove regna l’uguaglianza di genere, l’interesse per la laicità e il rispetto delle minoranze, una concezione moderna, moderata ed ecumenica dell’Islam, di cui il minimo che si possa dire è che non sia la regola nel resto della regione.

Così, se confrontiamo l’AKP di Erdogan col PKK di Ocalan, l’islamismo sempre meno moderato del primo con l’anti-islamismo sempre più radicale del secondo, il doppio gioco dell’uno che lascia transitare per mezzo della sua frontiera convogli di armi pesanti destinate a tagliare le teste, con l’eroismo dei combattenti e delle combattenti che, con l’unico supporto di aerei della NATO, reprimono gli stessi tagliagole affrontandoli faccia a faccia, corpo a corpo, se si confronta l’esercito turco la cui appartenenza alla Alleanza Atlantica non le impedisce di stare a guardare mentre si massacrano le minoranze cristiane, con questa linea del PYD, organizzazione gemella del PKK, che è riuscita in dieci giorni, attraverso l’apertura di un corridoio, sotto il fuoco nemico, in pieno territorio iracheno conquistato dagli islamisti, a mettere in salvo 70.000 yazidi del Monte Sinjar, è chiaro che il terrorismo non è più là dove si pensava.

Accade ai funzionari del PKK quello che è accaduto, dopotutto, a molti altri terroristi prima di loro.

Gli succede quello che è successo agli irlandesi dell’IRA rinunciando, alla fine degli anni ’90, a decenni di guerriglia urbana.

Hanno percorso il lungo cammino lastricato da molti fondatori di stati post-coloniali che hanno fatto il loro debutto, essi stessi, nella violenza cieca degli stati.

Mi viene in mente il caso dell’Irgun israeliano, la Banda Stern o l’ANC sudafricano – lo sapevate che Nelson Mandela ha dovuto aspettare fino al 28 Giugno 2008 perché potesse vedere gli Stati Uniti ritirare dalla loro lista il suo nome e quello del suo partito?

Allora, naturalmente, Ocalan non è Mandela.

Le sue dichiarazioni di amicizia verso gli ebrei o gli armeni dovrebbero essere messe alla prova del tempo.

Le ambiguità del suo ramo siriano nei confronti del regime di Bashar al-Assad e la persistenza in esso o nei suoi partner, di pratiche politiche autoritarie possono legittimamente preoccupare.

E non siamo pertanto immuni a un ritorno al passato e a una delusione che rimetterebbero, ancora una volta, il tutto in questione. Ma i curdi sono, di fatto, i nostri più forti alleati nella lunga guerra che ci ha dichiarato il jihadismo.
Il PKK è l’avanguardia, in Siria, non solo della resistenza all’ISIS, ma della difesa dei valori che l’ISIS vuole sradicare. Questo PKK, in cui l’essenziale dei quadri ha seguito l’esempio di Ocalan, che chiede perdono fin dal suo processo nel 1999, nell’isola prigione di Imrali, alle sue innumerevoli vittime, non è un’organizzazione terroristica ma, se le parole hanno un significato, un’organizzazione di resistenza al terrorismo.
È per queste ragioni che il PKK e i gruppi che sono a esso legati devono essere riconosciuti per quello che sono: un operatore di stabilità e, un domani, di pace in Medio Oriente.