Donne e curdi, le prime vittime della Repubblica Islamica
Secondo quanto scrive nel suo rapporto di settembre l’Associazione dei diritti dell’uomo del Kurdistan (KMMK) sarebbero in sensibile aumento le violazioni dei diritti umani da parte dello Stato iraniano nel Rojhilat (il Kurdistan dell’Est).
Sia le esecuzioni che le uccisioni, così come gli arresti e le torture. In significativa crescita anche i casi di suicidio. Il mese scorso almeno tre curdi sono morti in maniera sospetta e una persona è stata giustiziata senza processo. Otto kolbar (“spalloni”, frontalieri…) sono stati uccisi dalle guardie di frontiera e una cinquantina di persone sono state arrestate. Solo in settembre, ripeto.
Stanche di subire maltrattamenti, soprusi e torture, dal 16 ottobre le detenute curde del carcere di Ourmia sono in sciopero della fame. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il tentativo della direzione di obbligarle a frequentare dei corsi (non meglio precisati) stabiliti dall’amministrazione carceraria. Per chi si rifiutava è scattata la rappresaglia: proibizione di ricevere telefonate dai familiari e soltanto un’ora d’aria giornaliera.
In un primo momento le detenute avevano reagito con proteste e incendiando le coperte. Come ritorsione molte sono state torturate e minacciate di finire in isolamento.
Le poche notizie sulla protesta sono filtrate attraverso i familiari delle prigioniere.
Va comunque precisato che non sono solamente le donne curde a subire la violenza delle istituzioni iraniane. Secondo Iran Human Rights le donne giustiziate dal regime di Teheran dal 2010 al 2021 sono state almeno 164 (comprese alcune minorenni). Un numero alquanto inferiore rispetto a quello delle prigioniere politiche giustiziate nei primi anni della soidisant “rivoluzione” islamista (anche se non si è mai potuto accertarne il totale). Solo nel 2020 delle 16 donne giustiziate nel mondo, ben 9 (più della metà) sono state impiccate in Iran. Fermo restando che presumibilmente i media iraniani riportano soltanto il 30% delle esecuzioni tacendo sulle rimanenti (soprattutto se si tratta di donne) e che per le donne (e per quelle curde in particolare) non esiste parità di diritti civili rispetto agli uomini. Tantomeno uguaglianza in campo legislativo.
Inoltre è stato possibile documentare che la maggioranza delle donne rinchiuse nel braccio della morte delle carceri iraniane provengono da situazione di emarginazione, sottoposte – oltre che al patriarcato – a discriminazione, disuguaglianze, povertà.
Emblematico il caso di Hourieh Sabahi. Madre di cinque figli (di cui uno disabile), abbandonata dal marito. Quando venne giustiziata per presunto spaccio di droga, i suoi familiari non avevano nemmeno il denaro sufficiente per seppellirla.
E secondo IHR non si tratterebbe di un caso isolato. Altro tabù che evidentemente la società civile iraniana non ha ancora adeguatamente affrontato è quello dei matrimoni forzati. Tra le donne giustiziate nel periodo 2010-2021 almeno sei erano “spose bambine” mentre Safieh Ghafouri era una sposa offerta da una tribù ad un’altra per placare una faida sanguinosa.
Per la donna, anche se maltrattata, non esiste possibilità autonoma di divorzio. Con tali premesse non appare casuale che quasi il settanta per cento dei casi di omicidio per mano femminile siano contro un marito (compresi quelli dei “matrimoni temporanei”). Altra questione su cui non si vuole indagare è quello dei casi di pazzia (una evidente attenuante se venisse presa in considerazione).
Molte condanne derivano da accuse legate agli stupefacenti, ma non sempre appaiono plausibili. Sono state accusate di spaccio anche persone arrestate nel corso di proteste e manifestazioni. Zahra Bahrami, 46 anni, era stata incarcerata per le proteste del 2009 e inizialmente condannata per “moharebeh” (inimicizia contro Dio). Successivamente venne torturata per costringerla a confessare inesistenti reati legati alla droga e giustiziata nel gennaio 2011.
Numerose – dicevo – le condanne per omicidio, considerato tale anche quando la donna si era difesa da uno stupro (come nel caso di Reyhaneh Jabbari di 26 anni, torturata perché si autoaccusasse e giustiziata il 25 ottobre 2014). Altre condanne per “inimicizia contro Dio (moharebeh) o per “attentato alla sicurezza dello stato” (sia che si tratti di proteste, azioni di guerriglia o spionaggio).
Gran parte delle confessioni (in genere l’unica prova a carico dell’imputato) verrebbero, secondo IHR, estorte con la tortura.
Inoltre spesso nel corso della fase investigativa non si consente alla persona accusata di parlare con un avvocato. Senza dimenticare (a ulteriore conferma della sostanziale subalternità della donna nella società iraniana) che nei casi relativi alle aggressioni e all’omicidio le testimonianze di una donna sono ritenute di scarso valore. Oltre a quella di Reyhaneh Jabbari (già citata) qualche altra vicenda risulta particolarmente odiosa.
Nell’ottobre del 2018 è stata giustiziata Zeinab Sakamvand (ne avevamo parlato anche qui); sposa bambina, minorenne all’epoca della morte del marito e ripetutamente vittima di stupro da parte del cognato (che lei accusava di essere il vero omicida). Prima di impiccarla le autorità avevano atteso che mettesse al mondo il figlio (poi nato morto) concepito in carcere. Per i carcerieri sarebbe stato il frutto di una relazione con un detenuto, ma non si può escludere che fosse stata violentata.
Soffriva invece di malattia mentale Zeinab Khodamorad, giustiziata nel dicembre 2020. Portata via dall’ospedale subito dopo un parto dal marito (nonostante il parere contrario dei medici) dopo qualche giorno aveva ucciso il figlio.
Vittima di abusi domestici da parte di un marito che non le volle concedere il divorzio, Maryam Karini ha trascorso 13 anni nel braccio della morte prima di essere impiccata nel marzo di quest’anno. Nel caso dei prigionieri politici (numerosi come abbiamo visto i curdi) in genere vengono accusati di “attentato alla sicurezza dello stato” e la condanna a morte può dipendere da “inimicizia contro Dio” (moharéebeh), “corruzione sulla terra” (efsad-fil-arz), “ribellione armata” (baghy) e spionaggio.
Emblematica la vicenda della militante curda Shirin Alamhooli. Arrestata nel 2008, in quanto membro del PJAK era stata condannata dal tribunale “rivoluzionario” per moharéebeh. Non parlava il farsi e quindi non aveva potuto nemmeno difendersi nel corso del processo. Nelle lettere scritte dal carcere di Evin aveva raccontato le torture a cui venne sottoposta per mesi. Venne giustiziata nel maggio del 2010.
di Gianni Sartori