Diyarbakir sembra una città in guerra
Colpi d’arma da fuoco della polizia turca si mischiano alla voce dell’imam diffusa dal minareto della moschea di Diyarbakir, sud-est della Turchia, distretto ad alta densità di curdi, roccaforte dell’Hdp, il partito filocurdo che domenica ha conquistato per la seconda volta nella storia l’altissima soglia del 10%.
E’ uno scenario di guerra: il fumo nero degli scoppi si alza da dietro le case, sopra la testa da giorni passano aerei militari, a terra proiettili da fucile d’assalto (calibro 7,62×51, estremamente diffuso, ma resta un calibro da operazione militare). Nella mattina si diffonde la voce che la polizia turca entrerà nel quartiere di Sur, pieno centro storico. E qui – dove i curdi hanno proclamato l’auto-organizzazione (una sorta di “federalismo democratico” spiega l’Hdp, inaccettabile per il governo) – le persone iniziano a costruire le barricate: prima mettono i teloni anticecchini per proteggere i civili (scenari visti in Siria, non certo in Turchia), poi con pietre e sacchi di sabbia bloccano le strade in modo da impedire l’avanzata dei blindati. In cielo droni ed elicotteri. Chi vive nel quartiere decide di farci passare oltre le barricate per mostrarci come si vive a Diyarbakir, una delle città più importanti dell’Anatolia, antica capitale del Kurdistan, simbolo dell’identità e della tenacia del popolo curdo. Le case sono crivellate dai colpi di mitragliatrice, alcune quasi squarciate, altre rase al suolo, scenari che riportano agli scontri durissimi tra polizia e curdi durante i quali, in questi sei mesi, sono morte decine di persone.
IMG_6786La bellissima Moschea di Kursunlu è trafitta dalle pallottole, persino la porta è squarciata e non riesce più a proteggere la meraviglia dell’interno. Un’immagine che parla di azzeramento, sociale e identitario: non è più né luogo di culto, né luogo d’arte. “Per lo Stato qui si nascondono terroristi del Pkk – ci racconta Ercan Ayboga, quarantenne che lavora nella municipalità di Diyarbakir come manager dei beni culturali – Sparano senza curarsi del patrimonio: moschee, chiese, le stesse mura di basalto sono a rischio. Siamo nella Lista per diventare patrimonio dell’Umanità, ma quando l’Unesco lo deciderà forse non ci sarà più nulla da salvare”. Mentre parliamo si sentono tre potenti scoppi. “Sono bombe – ci dice – qui da mesi è la normalità”. Ci racconta di un bambino che alla domanda: “Ma tu non vai a scuola?” ha risposto, all’età di sei anni: “Ma non lo vedi che qui c’è la guerra?”. Molti abitanti, nei mesi scorsi, hanno abbandonato Diyarbakir per sempre: non potevano più resistere in questo modo. Sotto assedio, con gli elicotteri che sorvolano senza sosta quel fazzoletto di terra del centro storico; un ronzio continuo e snervante che crea una sensazione di spaesamento: “E’ l’effetto psicologico che determinano nella popolazione, la cosa più terribile”, ci dice la guida che ci accompagna.
I curdi speravano che con le elezioni del 1 novembre le cose sarebbero cambiate. Il Pkk il 10 giugno, dopo la strage di Ankara, aveva dichiarato il cessate il fuoco unilaterale per consentire alle persone di andare a votare; subito dopo i risultati l’Hdp aveva rilanciato il processo di pace offrendosi come ponte istituzionale tra il governo turco e il partito dei Lavoratori Curdi (dichiarato dagli Usa organizzazione terroristica). Invece il premier Davutoglu (dell’Akp, il partito di Erdogan) ha ordinato all’esercito di continuare le operazioni militari per tutto l’inverno.
Prima ancora che contro l’Isis, la Turchia sembra in guerra contro i curdi. Il giorno dopo le votazioni, dopo aver conquistato la maggioranza assoluta, il governo ha subito imposto il coprifuoco in molte città nel sud-est del paese, nelle roccaforti curde al confine con Siria e Iraq. A Silvan oggi è il sesto giorno di coprifuoco. La gente è barricata nelle case, il quartiere circondato da blindati e carriarmati: non si può né entrare, né uscire. Da fuori si sente solo il drammatico frastuono delle bombe e fuoco d’artiglieria. Per chi è chiuso in casa da giorni è impossibile comprare il cibo o andare in ospedale. Comunicare non si può perché il governo turco ha oscurato le linee: impossibile utilizzare Twitter e Facebook, impossibile telefonare. Difficile quindi, anche giornalisticamente raccontare: perché i militari non consentono ai reporter di entrare; perché da lì, in questi giorni, nessuno è uscito se non da morto. Sono quattro le vittime, tutti civili disarmati; anche un poliziotto ha perso la vita. Nel distretto di Hakkari e Yusekova, in montagna, sono stati uccisi tre civili; altri due a Siirt.
Conflitto aperto. E morti tra i civili. Giovedì è arrivata la risposta del Pkk, che resiste armato nelle montagne al confine meridionale, tra Siria e Iraq: ieri ha dichiarato la fine del cassate il fuoco unilaterale. A Diyarbakir, la gente teme che ci sarà un attacco potente da parte del governo turco e inizia ad abbandonare il centro storico con i bambini. La tregua è finita, se mai davvero c’è stata. Nel silenzio generale dei media, difficile non chiamarla guerra.
di Stefania Battistini e Ivan Grozny
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